Bergamini e Brescia


   

(28/11/2020) In vista del 2023 (Bergamo-Brescia “capitale della cultura”), un positivo segnale nella direzione del riconoscimento di un capitolo di storia sociale che accomuna le due provincie




La “transumanza” a Bagolino. Dalla Valsassina  alla val Sabbia, ferro e formaggio contraddistinguono un comprensorio caratterizzato da grandi competenze nella metallurgia, nel caseificio e nell’allevamento. Il comprensorio dal quale, per secoli, si sono dirette, verso le pianure lombarde, emiliane, venete, piemontesi, le correnti di transumanza dei bergamini lecchesi (storicamente milanesi), bergamaschi e bresciani.
(28/11/2020) Sul Giornale di Brescia, due settimane fa, è apparso un bell’articolo di Claudio Baroni nella pagina della cultura (segnalatomi da Stefano Manzoni di Fara Gera d’Adda, originario di Morterone, paese di bergamini). Un frutto del riconoscimento, da parte dell’Unesco, della transuanza quale “patrimonio immateriale dell’umanità”. Esso ha spinto a “guardare in casa” alle transumanze, sia a quelle storiche che a quelle attuali, che hanno caratterizzato e caratterizzano i nostri territori lombardi.



Parlando di una famiglia originaria di Castione della Presolana (Bg), i Tomasoni, che praticava la transumanza con le proprie vacche da latte verso la bassa bresciana, l’articolista si riferisce a loro come “bergamini” e chiarisce con precisione le modalità essenziali della transumanza. Citando il libro che Piergiuseppe Tomasoni, emigrato in Germania, ha voluto scrivere per omaggiare l’epopea dei suoi avi, ma anche di tutti i “bergamini”, l’articolo ricorda come, tra le due guerre, i “bergamini” avessero preso in affitto, o acquistato, fondi agricoli nella bassa bresciana. Tra i cognomi citati: Tomasoni, Toninelli, Chiodi, Armanni, Ferrari, Migliorati, Cozzi. Ma ce ne sono tantissimi altri.
Ottorino Milesi1, non dimenticato direttore dell’Ispettorato agrario di Brescia, sulle colonne dello stesso GdB, scriveva nel 1974 a proposito dei “mandriani”  :
Parlano con orgoglio delle loro origini di montanari bergamaschi ed assicurano che sui registri degli statuti del loro paese risultano dati certi di diritto al pascolativo risalenti al medioevo. Come loro vivono ancora un centinaio di famiglie di mandriani nomadi (i Bertocchi, i Boldini, gli Olini, i Tanghetti, i Poli, i Campana, i Belotti, ecc.2

È interessante osservare come nell’elenco di Milesi non figuri alcuna famiglia bergamina citata da Tomasoni, segno della loro numerosità. Nonni materni di Piergiuseppe Tomasoni erano, per esempio, i Vitali di Pizzino (val Taleggio). Piergiuseppe, oltre a ricostruire la genealogia dei Tomasoni, è risalito anche agli avi Vitali scrivendo un altro libro in due vol. (“gli antenati”, “i discendenti”, con riferimento ai nonni materni). Il libro mi è stato segnalato da Massimo Vitali di Gorgonzola, figlio di bergamini di Pizzino fissatisi come agricoltori a Gorgonzola e discendente anch’egli dei nonni di Tomasoni). 






Agostino Antonio Vitali era nato a Soncino mentre la moglie a Orzinuovi (classico polo di attrazione dei bergamini per la grande estensione di coltivazioni foraggere frutto delle secolari bonifiche della “campanea”). Il Vitali morì a Castel Mella. Attraverso queste vicende famigliari si segue la traiettoria dei bergamini che, da transumanti diventavano fittavoli e da fittavoli – sempre in forza delle loro capacità imprenditoriali – proprietari dei fondi (continuando a condurli e ad allevare bestiame che, fino a dopo la seconda guerra mondiale, almeno quello asciutto, continuavano a portare in estate in montagna).



Le parentele bergamine costituiscono una rete che lega tra loro le valli e le pianure, al di là dei confini provinciali (un tempo di stato). Basti dire che ai Vitali di Pizzino sono collegate famiglie dell’alta val Seriana (Messa) e di chissà quante altre valli. Lo “scambio matrimoniale” avveniva in pianura ma, dal momento che le famiglie potevano frequentare ora il milanese, ora il cremonese, ora il bresciano,la rete era estesissima.



Un aspetto significativo del nuovo interesse per i “bergamini” (l’interesse di Tomasoni per la genealogia accomuna anche altri discendenti di questa “tribù”)  è il riconoscimento del loro rappresentare un elemento importante che accomuna Bergamo e Brescia. Molti agricoltori e allevatori della bassa bresciana (poi magari divenuti anche titolari di caseifici e salumifici), hanno origini bergamasche in quanto discendenti di bergamini. L’acquisto di fondi da parte loro è proseguito anche dopo la guerra.  Giuseppe Gallucci, zootecnico dell’Ispettorato agrario di Brescia, nei suoi ricordi degli anni ’60, ricorda che:… erano molti gli allevatori delle valli bergamasche che venivano a svernare nella pianura con tutta la famiglia. Gli stessi frequentavano poi i mercati di Rovato e di Montichiari dove portavano i loro prodotti caseari. Risparmiando al massimo, molti poi hanno comprato le aziende dove le loro bovine mangiavano il fieno durante l’inverno3 .

La sottolineatura della capacità di risparmio dei bergamini è un fatto comune a molti degli autori che si sono occupati di loro. Dal momento, però, che non bastava, neppure in passato, privarsi di un pezzettino di carne per acquistare un’azienda agricola, che non bastava l’avarizia e la tesaurizzazione… ma bisognava anche guadagnare, dietro quel rinfacciare ai bergamini il “risparmio feroce”c’era l’invidia sociale (di chi stava in alto ma anche in basso nella scala sociale) per le loro capacità tecniche e organizzative che consentiva ai bergamini quando non “mandati a gambe per aria” per via del tagliù (l’afta epizootica) di  diventare fittavoli e poi proprietari. Persino i salariari disprezzavano i bergamini, quei salariari che, se avevano in tasca qualche soldo se lo bevevano all’osteria o sfoggiando il vestito “della festa” di foggia cittadina. Il bergamino non aveva complessi di inferiorità nei confronti della cultura cittadina, la sua era un’identità forte, si vestiva da montanaro anche quando faceva mercato in piazza a Brescia o a Milano, non aveva bisogno di cammuffarsi da cittadino.
Il risentimento, l’invidia nei confronti dei bergamini (che, almeno in pianura, sapevano bene celare la loro ricchezza) emerge bene, siamo nei primi anni del Novecento, nelle parole di un grosso esponente della proprietà fondiaria milanese, il senatore Ettore Conti che polemizzando con i fittavoli “liberisti” (lui era un conservatore filantropo) rinfaccia loro l’origine bergamina:
Chi sono e che cosa sono poi questi fittabili? Salvo le debite eccezioni, la prosapia loro discende dalle Alpi. Probabilmente i trisavoli dei presenti conduttori erano bergamini che a furia di stenti e di economie riuscirono a mettere insieme quanto occorreva per spodestare, offrendo aumento d’affitto al proprietario od a’ suoi amministratori, il fittabile che da parecchi anni dava loro l’asilo invernale e vendeva il fieno per il mantenimento delle loro mandre. Questi mandriani, se furono felici e contenti di aver posto fine alla loro vita randagia non per ciò abbandonavano il loro sistema di economia feroce. Economia in tutto e per tutto, salvo che nella figliolanza, creata prodigalmente. Così, con virtù indiscutibili, ma che portate alla esagerazione diventano difetti gravi e deplorevoli, colla loro sobrietà riuscirono a mettere insieme quanto, alla loro morte, poteva abbisognare, a ciascuno dei figli maschi per l’acquisto o l’impianto di nuove aziende agricole4 .Per comprendere perché i bergamini come fenomeno economico e sociale abbiano avuto scarso riconoscimento in sede storica e scarsi apprezzamenti dai contemporanei (tranne che da parte dei veterinari) è necessario anche far riferimento a quella ostilità e diffidenza che sempre è riservata dagli “stanziali” ai “nomadi”, anche se onesti e industriosi (gli si riconosceva sempre la puntualità e la precisione nei pagamenti). Come visto, poi, i bergamini, entravano a volte in concorrenza con i fittabili (per “spodestarli”) e, indirettamente, anche con altre categorie agricole.  Al tempo in cui si formavano le prime leghe bianche nella bassa bresciana, i “malghesi bergamaschi” venivano accusati di essere tra le cause dei bassi salari dei lavoratori agricoli in quanto, con la loro proverbiale parsimonia accettavano patti che tendevano a mantenere alti gli affitti dei fondi, il che poi spingeva i fittavoli a rifarsi sui salariari5.
Quanto, una certa ostilità nei confronti dei bergamini abbia contribuito ad alimentare un sentimento poco amichevole nei confronti dei bergamaschi (almeno in certe zone) o quanto possa essere stato vero l’inverso (ovvero che ai bergamini fosse riservata una diffidenza in quanto bergamaschi), è difficile stabilire in assenza di elementi che possano chiarire questi aspetti. Di certo, come vedremo in seguito, i massicci e perduranti flussi di emigrazione dalle valli bergamasche verso il territorio bresciano (montagne e pianura) possono aver determinato, o quantomeno contribuito a determinare, un forme di concorrenza e di invidia. Ovviamente da considerare tenendo in relazione ai ceti sociali coinvolti (come insegna la differenza di atteggiamento nei confronti dell’attuale immigrazione straniera delle classi alte e dei ceti popolari più deboli).
Nel prendere in esame l’emigrazione bergamasca va considerato il fatto che, non solo i bergamini ma anche i bergamaschi di altre categorie, formavano comunità tendenzialmente poco integrate, orgogliose della loro origine e forti della consapevolezza delle loro capacità. Costituita da personale altamente qualificato: minatori, maestri di forgia, bergamini la comunità bergamasca era oggettivamente forte di competenze specifiche tramandate da generazione in generazione (il che favoriva l’endogamia). Va notato che, nei secoli passati, anche il mestiere di allevatore e casaro “professionale” rientrava allora in quelli ai quali si associavano competenze arcane, segreti professionali al limite della magia (come i fabbri e i metallurgici).  In tempi dei quali si conserva la memoria orale, il pastore, il bergamino (come altri “nomadi”) erano al tempo oggetto di diffidenza e di ammirazione. A loro si chiedevano previsioni del tempo e magari rimedi e trattamenti “terapeutici” al limite della magia (tra i bergamini vi erano dei guaritori degli animali e degli uomini). 


La pratica del “segno”

Le comunità bergamasche erano, non solo nel bresciano:…salde e inassimilabili dall’ambiente in cui vivono; le loro tecniche, la loro personalità collettiva, i legami intrattenuti con la loro patria, mantengono ed esaltano il senso che hanno della loro identità. Il reclutamento degli apprendisti e dei successori in terra bergamasca, spesso all’interno della loro stessa famiglia, permette loro di perpetuare le loro piccole collettività6.La transumanza, più di ogni altra attività, favoriva il mantenimento di legami con le valli di origine. Era comprensibile che comunità di accoglienza potessero nutrire sentimenti negativi nei confronti di questi immigrati. I bergamaschi, d’altra parte, non potevano non guardare con invidia alle risorse bresciane (miniere che si esaurirono più tardi, una industria siderurgica di più lunga durata, una grande pianura agricola).
Le rivalità territoriali sono poi tanto più accanite quanto più interessano collettività simili e portano a non  far volentieri riferimento all’altro, specie se per riconoscerli meriti.
Per questo, molto probabilmente, i bresciani non usavano chiamare “bergamini” i proprietari delle mandrie transumanti; avrebbe implicitamente implicato una “primazia” bergamasca. 

Bergamini/malghesi: le eccezioni confermano la regola
Jacopo da Bassano, l’Annunciazione ai pastori (metà XVI secolo)

Agostino Gallo, il grandissimo agronomo bresciano del Cinquecento, mette in bocca a messer Avogadro, nobile proprietario bresciano la seguente espressione:  Sempre io amai grandemente voi malghesi e pecoraj; perché in vero siete di molta comodità e di utilità a noi Bresciani 7 . Un apprezzamento che parrebbe smentire le considerazioni precedentementi . Ma l’apprezzamento dell’ “utilità” di figure come i malghesi e i pecorai si modifica nel tempo, oltre che dipendendo dal tipo di relazione con la quale i transumenati entrano con i diversi attori sociali. Nel Seicento, contro le pecore, vi saranno “bandi” e una forte ostilità di comunità di pianura e agricoltori. Un’ostilità complessa perché i grossi proprietari nobili, così come i piccoli agricoltori indipendenti continuarono ad accogliere volentieri i pastori. Certo è che i bergamini apportavano due elementi fortemente deficitari nella pianura bresciana sino agli ultimi decenni dell’Ottocento: il letame e i latticini. La loro utilità era quindi indiscutibile. 
Agostino Gallo diede anche una definizione del “malghese”:
Al bestiame grosso, cui non ponno bastare pochi bocconi qual di passaggio carpiti, provvede all’intero loro mantenimento il Pastore, chiamato 
malghese. Compra il fieno per l’inverno: ha in aggiunta un poco di pascolo per l’Autunno, e alle basse ancora per Maggio, poi per la State prende in affitto de’ pascoli nelle montagne per la frescura 8 .


Il grande agronomo parla spesso nella sua opera di “malghesi bresciani” (per esempio per raffrontare il loro formaggio – l’odierno bagoss o nostrano di val Trompia – a quello dei colleghi piacentini – il grana). Non fa riferimento ai bergamaschi (probabilmente perché frequentavano allora solo la fascia occidentale della pianura irrigata dall’Oglio), ma dimostra di conoscere la voce “bergamino” che utilizza però solo due volte, nel capitolo sui fieni, mentre, in quello sui malghesi, è presente solo la voce “malghese” (otto volte). Come mai?
Secoli dopo,  Don Francesco Ugoni, discendente di antica famiglia comitale bresciana, che, oltre a gestire le proprietà di famiglia a Pontevico ed educare i nipoti orfani (Camillo e Filippo, letterati e rivoluzionari), fu autore – all’inizio dell’Ottocento – di diverse opere agronomiche. Sui prestigiosi Annali di agricoltura, curati dall’agnonomo bolognese Filippo Re, pubblicò una Memoria sopra l’agricoltura di una porzione del Dipartimento del Mella [la futura provincia di Brescia senza la Valcamonica]  situata a mezzo giorno9.  In quest’opera fece un interessante cenno ai bergamini, anzi ai “bergamaschi”:Prima della epidemia bovina, che tanto infierì per tutta  l’Italia nel 1796, 1797 e 1798; molti erano i malghesi del paese che consumavano colle loro vacche i fieni delle praterie stabili […] Ma dopo la strage de’ bestiami avvenuta, la massima parte dei malghesi suddetti è andata a male, e sono pochissimi quelli che hanno potuto conservare. le loro vacche, onde presentemente nell’inverno viene qualche malghese o bergamasco delle nostre valli a consumare parte del fieno delle cascine, i latticinj dei quali sono appena appena bastanti per a popolazione 10.


Ex voto settecentesco. Alcuni bergamini invocano Sant’Antonio da Padova e Sant’Ambrogio perché intercedano presso la Vergine con il bambino affinché protegga il loro bestiame

Come si vede, anche a Brescia  era noto il termine “bergamasco” utilizzato per indicare, per antonomasia, il transumante con mandrie “da formaggio”.  Pergamaschus è utilizzato insieme a pergaminus nel XV secolo, poi, però, nella forma italiana di “bergamasco” diventò raro.  Mano a mano che l’uso comune dell’aggettivo “bergamino”, riferito anche a manufatti di origine bergamasca, per indicare “di Bergamo” diventava arcaico, il sempre più usato “bergamasco” rappresentava un riferimento esplicito a qualche nesso con Bergamo. Ugoni non aveva però remore a parlare di “bergamaschi delle nostre valli”, quindi bergamaschi… bresciani. Un vezzo letterario? Comunque un’eccezione.
Chiarisce il carattere di quasi-geosinonimi  della coppia “bergamino”/”malghese”, il milanese Domenico Berra, un ricco avvocato agricoltore e allevatore con una bergamina a Crescenzago, oggi comune di Milano. Egli scrisse negli anni ’20 dell’Ottocento;
I Bresciani chiamano Malghesi que’ proprietari di mandrie di vacche i quali […] alla fine di settembre poi o al più al principio dell’ottobre scendono con le loro mandre alla pianura ove rimangono infino a maggio, mantenendo il bestiame con erbe e fieni comprati. Di questi proprietarj di vacche noi ne abbiamo tuttora moltissimi nel Milanese, Lodigiano, Pavese e Cremonese e sono detti volgarmente Bergamini11.
Un osservatore super partes, l’agronomo bavarese Joannes Burger, trattando dell’agricoltura del Lombardo-Veneto, osservava che  i transumanti erano chiamati sia bergamini che malghesi e che provenivano dalle montagna di Bergamo e di Brescia:Come ho già detto altra volta, essi si chiamano Bergamini o Malghesi. Se ne trovano ancora molti in Lombardia e nelle provincie di Mantova e di Verona, benchè il loro numero, a confronto degli anni andati, siccome ho inteso dire, sia d’assai diminuito. Nelle montagne di Brescia e di Bergamo vi sono del pari che in Isvizzera de’proprietari di bestiame, i quali non possedono in patria che quel tanto di terra che basta per alimentare le loro vacche nella state, e nell’autunno vengono giù alla pianura a cercar pascolo ne’campi per quella stagione e pel successivo inverno. Perchè essi vengono da Bergamo furon detti Bergamini, e di qui fu derivato il nome di Bergamina alla mandra di vacche destinata alla produzione del formaggio12.
La variazione lessicale dipende non solo dall’area geografica ma anche dall’epoca e dal contesto d’uso. Berra riferiva che la voce “bergamino” apparteva al registro “volgare”. Divenne così nell’Ottocento, non certo nei secoli precedenti. Gli Ordini di provvisione (regolamenti annonari) di Milano del Cinquecento e del Seicento citano parecchie volte i “bergamini” a proposito della vendita al minuto dei latticini sul mercato “della balla”13 (i mercati contadini per la vendita diretta non solo una novità).  Essi erano anche menzionati a proposito del divieto loro imposto di pascolare e acquistare fieno entro un raggio di cinque miglia dalle mura cittadine14 (onde non far concorrenza sul mercato del fieno cittadino in un’epoca di numerose, sontuose e pesanti carrozze). 
Se facciamo un passo indietro nel tempo (al Quattrocento), vediamo che l’erario ducale milanese otteneva ottimi cespiti dal sal pergaminorum, il sale destinato ai bergamini (che dovevano salare i formaggi)15. A Piacenza, come in altre città, il commissario addetto alla tassa sul sale si occupava anche, tra gli altri, del seuddetto sal pergaminorum 16.  Per tutto il Settecento secolo, nello Stato di Milano, il termine “bergamino” era utilizzato in inchieste ufficiali e provvedimenti fiscali 17. Ma era così anche nello Stato veneto, a Bergamo, come si evince  dal seguente proclama di sanità del 1761.



Con la perdita di importanza (relativa, non in termini assoluti) della transumanza dei bergamini) la voce passò a un registro “gergale” e “volgare” e, negli atti ufficiali e comunque scritti si dette la preferenza, anche nell’Insubria, a “madriano” e “malghese”, ritenuti termini più “tecnici”.  Il significato di “bergamino” scivolò da quello, che aveva avuto per secoli, di “proprietario di mandrie transumanti” a quello di casaro, capo-stalla e, in ultimo, di “mungitore” (ci sono contratti sindacali degli anni ’60 del Novecento nella bassa Lombardia e nel basso Piemonte che la utilizzano con questo significato).Oltre al bergamino c’era anche la “bergamina”, che non era la donna delle famiglie di bergamini, ma la mandria, la stalla o anche la singola vacca da latte. Anche nei dialetti emiliani, oltre che in quelli lombardi, erano utilizzate entrambe le voci: bergamino (bergamèn) e bergamina (bergamìnna)18. Va notato, per inciso, che la provincia di Modena è quella dove è più diffuso il cognome Bergamini, seguita da Ferrara, Bergamo, Bologna, Milano, Verona, Brescia, Rovigo e Mantova (sarebbe interessante, a tal proposito, capire quanto la diffusione in Emilia sia legata ai bergamini piuttosto che a tessitori o a contadini in genere). 

Bovegno: uno dei centri della transumanza

Il bresciano Domenico Brentana, originario di Bovegno, in alta val Trompia, tipica località di bergamini (anche i Brentana lo erano stati), nell’ampio saggio dedicato al paese natio, pur utilizzando 19 sempre la voce “malghese” (anche per indicare i transumanti), utilizza tre volte la voce “bergamina” per riferirsi alla mandria lattifera. Era professore di zootecnia a Parma, fu anche preside di quella facoltà di veterinaria ed è probabile che, oltre che dalla letteratura tecnica lombarda dell’Ottocento, egli abbia assimilato quell’uso lessicale in terra parmigiana.
Di fatto, in uno spazio che va da Alessandria e Vercelli sino a Ferrara e Bologna si riconosceva, anche attraverso attestazioni linguistiche, una qualche relazione tra i fatti attinenti la transumanza, la mungitura, la lavorazione del latte, le vacche da latte e… Bergamo. “Bergamino” era infatti un etnonimo al pari di “bergamasco” (usato in passato, come già visto, in alternanza). L’opera letteraria del duecento bergamasco è il Liber pergaminus di Mosè del Brolo20, un’esaltazione della città.  
In definitiva possiamo dire che l’identificazione dei transumanti con i “bergamini” ha conosciuto ampia estensione geografica e sociolinguistica.  Il fatto che il bresciano faccia eccezione può trovare un’altra spiegazione, al di là del fattore di rivalità con Bergamo, nella circostanza che, anche dalle valli bresciane, scendevano dei transumanti con le loro mandrie.  Un numero consistente di transumanti, però, scendeva anche dalla Valsassina e da quelle terre della valle Imagna, della val Taleggio, dell’alta val Brembana occidentale che appartenevano alla diocesi di Milano e che, in parte restarono incorporate nello Stato di Milano anche dopo la dedizione di Bergamo a Venezia. Vi erano quindi (non pochi) bergamini milanesi che, però, non solo venivano chiamati così in pianura ma anche nelle loro valli. 




Transito di bergamini da Introbio, “capitale” della Valsassina in una foto di inizio Novecento

Nella Valsassina lecchese il nome di bergamino era di uso corrente e non ha mai comportato alcun “disagio campanilistico”. Luigi Formigoni, che fu direttore dell’Ispettorato agrario di Como (la provincia di Lecco è di recente istituzione) e fu un grande ammiratore delle capacità allevatoriali dei “suoi” bergamini (pur essendo nato a Milano da genitori modenesi). Egli, non potendo evitare di utilizzare quel nome, ormai radicato, che richiamava Bergamo, e che in qualche modo oscurava il primato dei valsassinesi, cercò di riprendere la  suggestiva, ma infondata21, ipotesi etimologica già avanzata nell’Ottocento da Stefano Jacini (e da altri autori prima di lui22) : in lingua celtica infatti berg significa monte e man uomo23. Il caso di Formigoni indicae fin dove possono condurre le ragioni del “patriottismo” ma induce anche a distinguere tra “patriottismi” popolari e quelli alimentati dagli esponenti dei ceti colti. Questi ultimi possono aver contribuito a conservare, nei confronti di altre città/territori, sentimenti riconducibili a fatti di parecchi secoli prima attraverso il culto delle “memorie civiche” che si è perpetuato, un po’ anacronisticamente, per lungo tempo dopo la fine della civiltà comunale che lo aveva generato. Se, però, queste memorie diventano memoria collettiva popolare e si conservano inossidabili attraverso i secoli è perché trovano corrispondenza in elementi della realtà sociale in gradi di riattualizzarli. La realtà, però, cambia profondamente e le ragioni della rivalità tra territori del passato possono diventare quelle della collaborazione. Bisogna saper superare certe inerzie mentali.


In vista del 2023

Fare riferimento all’epopea dei bergamini oggi ha il significato di valorizzare una storia comune a bergamaschi e bresciani. La massiccia emigrazione bergamasca nel bresciano (non è azzardato affermare che i bresciani hanno una forte componente bergamasca) ebbe una secolare componente bergamina, destinata a insediarsi stabilmente nel territorio di pianura. Non solo, ma il fenomeno bergamino nelle valli bresciane ebbe caratteristiche molto simili a quello delle valli bergamasche tanto da poter far ritenere che il fenomeno dosse unico. I bergamini della montagna bresciana si spingevano a svernare sin nel lodigiano (come i pastori di pecore). Tale Antonio de Valcamonica bergamino (così definito nel contratto), nel 1461 prendeva a soccida oltre cento bovini da latte da un affittuario di una grande possessione del vescovo di Lodi 24. Negli stessi anni, a conferma della generalità del fenomeno una ducale emanata a Brescia del 14 giugno 1464 proibiva ai “malghesi”, pena gravissime sanzioni, di svernare fuori dello stato veneto25 . Sappiamo che continuarono a dirigersi verso il milanese26 . Per secoli (sino al Novecento) i bergamini delle valli bresciane, mentre i bergamaschi occupavano molte cascine bresciane si sono diretti verso il mantovano e il reggiano effettuando anch’essi per secoli la transumanza a lungo raggio, come i valsassinesi e i bergamaschi.Oggi, esaurita l’epopea dei bergamini (ma la loro “spinta propulsiva” è rintracciabile nei caratteri odierni delle strutture zootecniche e agroalimentari della bassa Lombardia), ormai lontani anche i tempi della mungitura a mano e dei bergamini-mungitori sullo scagnèl a un piede, ereditato dalla tradizione alpina (semmai fiorisce la letteratura sui bergamini-sikh)27, definitivamente consacrato nel linguaggio corrente il termine “malghese” a indicare l’uomo delle malghe-pascoli (che lui chiama ancora monti, mut, montagne), una opportuna convenzione potrebbe stabilire di definire come “bergamini” i transumanti storici con vacche da latte, tra XV e XX.   “Malghesi storici” (quelli delle malghe-greggi o malghe-mandrie, nel significato più antico ancora vivo in parte della Lombardia) andrebbero invece definiti, per fare chiarezza, i transumanti medievali, che avevano in prevalenza pecore da latte. Chiarendo che, se è indubbio il nesso tra bergamini e Bergamo è altrettanto vero che i bergamini non erano solo bergamaschi. 
Bergamo e Brescia sono state proclamate congiuntamente “città italiana capitale della cultura 2023”. La candidatura era stata avanzata dopo la prima letale ondata dell’epidemia Covid dell’inverno-primavera 2020. Si è trattato di un moto spontaneo teso a far prevalere su una rivalità, che andrebbe circoscritta all’ambito propriamente sportivo, le ragioni della solidarietà, di forti retaggi e caratteri comuni, di relazioni basate su movimenti migratori e correnti di scambio commerciale (spesso intrecciate all’emigrazione stessa). Si tratta di un’iniziativa che punta, guardando oltre la lunga emergenza e gli aspetti emotivi, a consolidare le opportunità di collaborazione e di complementarietà tra due città e territori, non solo contigui ma anche molto simili, rafforzandoli sul piano della consapevolezza culturale e – ma le cose sono strettamente connesse – su quello della messa in rete di risorse e della proiezione verso l’esterno.In vista si questa scadenza risulterebbe preziosa una più sistematica ricostruzione delle vicende storiche legate all’emigrazione, ai commerci, alle transumanze in grado di inquadrare aspetti chiave che hanno definito le relazioni di lungo periodo tra Bergamo e Brescia (con tutte le loro implicazioni socio-culturali). Un lavoro del genere restirebbe un quadro, forse inaspettato, della continuità, la sistematicità, l’estensione dei fenomeni di osmosi tra i due territori, fenomeni che conosciamo ancora solo sommariamente. 
Qualche spunto

In realtà abbiamo già molte indicazioni della stretta e costante interrelazione tra i due territori, in tempi meno vicini forse più stretta che nel recente passato. Basti pensare all’importanza degli scambi tra le valli bergamasche e Brescia attraverso la comoda via d’acqua del Sebino (quando le merci, per terra, dovevano viaggiare con le carovane di muli). Saliva grano dalla pianura bresciana, scendevano formaggi.


1825, il 27 maggio Bortolo Bergamini di Ardesio invoca la grazia alla Madonna di Ardesio per aver salva la vita dalla tempesta abbattutasi sul lago d’Iseo. Come si vede, oltre ai passeggeri l’imbarcazione trasportava colli di merci

Rovato resterà sino alla metà del XX secolo un grande centro caseario dove affluivano i formaggi d’alpeggio bergamaschi (tranne quelli della val Brembana che erano destinati alla stagionatura a Bergamo). Qui operarono anche ditte e famiglie della Valsassina e della val Taleggio a conferma che il centro della Franciacorta era uno degli snodi più importanti del settore di tutta la Lombardia (gli altri erano Codogno, Corsico, Milano).



Nel Seicento, quando il lanificio bergamasco era ancora florido, ma era piombato in una gravissima e irreversibile crisi a Milano, Como, Monza, Cremona e Brescia, i lanaioli di quest’ultima città presero a commercializzare il panno bergamasco. Il lanificio si restrinse poi alla val Gandino. Forse a questa supremazia bergamasca nel lanificio di deve il proverbio, diffuso nelle valli bresciane che recita: Bröt tép, bröta zènt, pan bah, i vé töcc dal Bergamàh ( Brutto tempo [le perturbazioni atlantiche], brutta gente, panno basso [sinonimo di bassa qualità] ). 28 
Con lo sviluppo del setificio, che ebbe grande importanza nella bergamasca specie nel Settecento e nella prima metà dell’Ottocento, le campagne della bassa bresciana fornivano abbondante materia prima alle filande bergamasche. Invece, nel campo metallurgico, fu Brescia, con le valli, a emergere, con il grande sviluppo dell’industria siderurgica che si prolungato sino in tempi recenti.  I magistri dei forni fusori bergamaschi che, forse per primi, avevano messo a punto la tecnologia dell’alto forno, tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento emigrarono nelle valli bresciane, segnatamente in val Trompia. Ma questi non sono che alcuni esempi.
Si è già fatto riferimenti all’emigrazione. Che questa abbia creato una forte connessione tra Bergamo e Brescia lo aveva già messo in evidenza Paolo Guerrini, nei suoi primi studi sche risalgono agli anni ’40 del secolo scorso29.  Inizialmente limitati al XIV secolo i primi studi di Guerrini sono stati poi confermati da altri autori successivi che presero in considerazione anche il secolo successivo30. Anche la presenza di moltissimi cognomi uguali a Brescia e a Bergamo era già stata osservata da Guerrini (quando non c’era internet a rendere facili certe ricerche):  Moltissimi cognomi bergamaschi ripetono nomi di paesi e di località della vicina provincia di Bergamo, e specialmente delle sue tre valli Seriana, Brembana e Imagna, dalle quali è venuta sempre verso Brescia e il territorio bresciano una forte immigrazione di mandriani, casari, contadini, e operai di industrie varie, ma soprattutto del lanificio e della concia delle pelli 31. A Brescia l’immigrazione bergamasca tese a crescere tra XIV e XV secolo (in relazione anche all’affermarsi del dominio veneto). Nel 1388 il 51% degli estimati era costituito da immigrati, nel 1416 saliva al 54, nel 1430 si abbassava al 47%. La quota di bergamaschi sugli immigrati fu crescente, rispettivamente del 23%, 33% e 40% alle tre date 32. Se l’emigrazione bergamasca verso Brescia fu massiccia dopo la peste del 1349 (quando anche molti milanesi si trasferirono a Brescia), essa – diretta verso tutta la pianura lombarda – precedeva il periodo comunale e proseguì oltre il medioevo e l’età moderna tanto che Giuliana Albini parla di emigrazione fisiologica che attraversa tutta la storia bergamasca33.
Uno dei motivi di questo fenomeno è da ricercare nel rapporto tra la città e le valli. Bergamo è una città relativamente piccola (rispetto al quadro italiano). Essa contava, verso il 1330, 10-20 mila abitanti mentre Brescia, sempre sulla base di stime, poteva superare i 40 mila abitanti. Della stessa taglia di Brescia, probabilmente più grande era Cremona, mentre Verona era ancora più popolosa 34.
Se la città è di taglia demografica inferiore a quelle vicine, se la pianura bergamasca è poco estesa, le valli bergamasche sono, al contrario, estese ed erano densamente popolate nel periodo del boom economico medievale. In esse erano attive miniere (ferro e argento) con i loro centri industriali (lana e metallurgia), i dinamici centri (Gromo, Ardesio, Gandino, Clusone, Serina, Zogno). Ma l’emigrazione bergamasca non ha rappresentato solo un travaso dalla montagna ad altre città (non bastando lo “sfogo” di Bergamo). Gli artigiani si insediavano nelle valli, artigiani, contadini e malghesi nella pianura. Ciò ha contribuito, molto più che l’emigrazione verso Brescia, a popolare il territorio bresciano di bergamaschi (è noto che le città mantengono l’equilibrio demografico solo grazie all’immigrazione e hanno saldi naturali spesso negativi).
Un’altra caratteristica dell’emigrazione bergamasca è che non è un’emigrazione di poveri montanari, come un inveterato cliché tende a far ritenere. Era emigrazione che riguardava anche le classi alte, desiderose di per far fortuna con i commerci 35. Così troviamo  mercanti bergamaschi non solo a Brescia ma anche nelle città venete che si occupano del commercio caseario, di cereali, di lana. Anche i facchini, peraltro, erano maestrane qualificate e ben organizzate come dimostra la compagnia Caravana. Approfondiremo questi aspetti in un prossimo articolo.
A secoli di distanza, sulle gelosie indotte dall’emigrazione bergamasca dovrebbe prevalere la considerazione che bergamaschi e bresciani sono stati, insieme, protagonisti dello sviluppo di settori (caseificio, siderurgia, industria armiera, tessile) di rilievo in ambito internazionale.  Un riconoscimento che stimola a guardare avanti.

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