Cenni storici

da M.Corti, G.Bruni, G.Oldrati,  “La capra in provincia di Bergamo. Un allevamento che ritorna e guarda al futuro”, Provincia di Bergamo, Stampa Ferrari, Clusone, 1997.

Capitolo 1

CENNI STORICI

L’allevamento caprino e le attività pastorali hanno origini antichissime. La capra è l’animale domestico di più antica domesticazione. Essa avvenne verso il 9000-10.000 a.c. nel medio oriente (le più antiche tracce archeologiche che testimoniano la domesticazione della capra si trovano presso Gerico). Molto presto (7000 a.c.) la capra apparve anche nelle zone alpine, dove le sue prime tracce risalgono al mesolitico. Le testimonianze di attività agricole e pastorali nelle nostre Alpi, compresa la transumanza verticale stagionale, risalgono a ben 5.000-6.000 anni or sono.

Durante l’età dei metalli i ritrovamenti archeologici, relativi alla presenza di capre domestiche nelle nostre Alpi, si moltiplicano. E’ significativo che, accanto a capre con le corna a sciabola, si ritrovino spesso anche capre con le corna ritorte. Per millenni l’allevamento caprino ha rappresentato una risorsa fondamentale per le genti delle Alpi e delle Prealpi lombarde. E’ solo in tempi recenti (XVI secolo) che, in relazione con la “rivoluzione agraria” della pianura, il sorgere di una agricoltura capitalista, lo sviluppo di industrie di trasformazione dei prodotti dell’allevamento (lana e latte bovino), inizia una marginalizzazione della capra. Essa ha dovuto lasciare posto a bovini ed ovini più ”adattabili” alle trasformazioni moderne e ad una economia monetaria.
Con la fine del ‘700, e per tutto il primo decennio dell’800, la “guerra alle capre” che pure nei secoli precedenti aveva visto episodi più o meno sporadici (bandi e divieti sono rinvenibili in atti del XVI e XVII secolo), diventa una guerra aperta per opera delle autorità napoleoniche del ”Regno d’Italia”.
Come per molti altri aspetti del mondo rurale tradizionale, anche nel caso dell’allevamento caprino l’affermarsi di una nuova epoca post-industriale e post-moderna ed il “ritorno alla natura” concede qualche opportunità di sopravvivenza e di valorizzazione. Si può affermare che in un certo senso solo negli ultimi anni la capra sia uscita da una condizione marginale e semiclandestina per vedersi riconosciuto un ruolo socio economico nell’ambito dell’economia montana.

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La capra in età romana

Nella Roma repubblicana le capre non erano tenute in grande considerazione, anzi! Marco Terenzio Varrone nella sua opera De Re Rustica (Liber II, De re pecuaria), scritta nel 37 a.c., afferma che: “una persona di senno non garantirebbe mai sane le capre, che non sono mai senza febbre” e poi : “le capre preferiscono i luoghi dirupati e selvaggi. Infatti si cibano con avidità de’ frutti selvatici e ne’ coltivi strappano i virgulti, onde, proprio da carpere venne loro il nome di capre. Per questo nell’affittare un fondo, si vuol fare un’eccezione: che la capra non vi sia fatta pascolare. Perché i suoi denti rovinano le piantagioni”.
In età imperiale si verificarono profondi cambiamenti economici e sociali e si assiste in Italia ad una ripresa dell’economia pastorale; tale ripresa si accentua con il rafforzarsi del latifondo a spese della piccola proprietà e delle terre pubbliche mentre diminuiscono i seminativi. Plinio racconta di un certo Claudio Isidoro che, dopo aver perduto molte ricchezze nelle guerre civili, dispose nel suo testamento di 4.111 servi, 3.600 paia di buoi e 257.000 capi di bestiame minuto (suini, ovini e Caprini). I boschi e i pascoli riprendono il sopravvento anche laddove erano stati effettuati dei dissodamenti. Il paesaggio del ”saltus”, ”ubi silvae et pastiones sunt” (secondo la definizione del giureconsulto e filogo Elio Gallo), è raffigurato in un mosaico della Villa Adriana di Tivoli (prima metà del II secolo) dove appaiono diverse capre di tipo alpino . Con il Basso Impero e ancor, più con le ‘invasioni barbariche” si generalizza lo jus pascendi nel saltus, dove, dopo il raccolto, tutte le terre sono aperte al pascolo promiscuo (3). Nell’alltomedioevo l’importanza dei pascoli aperti è superata da quella della foresta dove si esercita il pascolo brado e la caccia, principali fonti di sostentamento delle popolazioni.

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Paesaggio del saltus (mosaici di Villa Adriana)

La capra nel medioevo

Durante l’alto medioevo il restringersi dell’orizzonte degli scambi economici ed il prevalere di un’economia autarchica, uniti al ritorno di vaste superfici precedentemente coltivate a brughiere, foreste, sodaglie, incolti di ogni tipo, avevano favorito la prevalenza di quelle specie animali che, meglio delle altre, sono in grado di adattarsi al pascolo in foresta.
Maiali, pecore e capre, bestiame minuto, in grado di trovare da sé il proprio nutrimento senza dover disporre di ampie superfici a prato o prato-pascolo, potevano essere allevati anche dai servi della gleba. I dati relativi alla composizione del bestiame allevato nel IX e XI sec. in alcuni grandi feudi della Francia e dell’Inghilterra secolo mettono in evidenza come, anche in quest’ultimo paese, nel quale gli ovini ebbero successivamente un ruolo formidabile e le capre quasi scomparvero, la consistenza dei caprini era, nel medioevo, rilevante‘. Nonostante l’estensione dei diritti di pascolo goduti dalle comunità rurali del medioevo pare che, nel caso delle capre, sussistessero già dei divieti atti a limitare o proibire il pascolo in foresta.
Ciò avveniva per esempio nelle foreste della Normandia (4). Verso la fine del medioevo la pressione contro il pascolo in foresta e negli incolti tese ad aumentare sia in considerazione dell’aumento dei seminativi che delle superfici a pascolo erbaceo e prato-pascolo da destinare agli allevamenti bovino ed ovino in grado di alimentare un’economia mercantile. Parimenti procedevano le bonifiche. Luigi IX e i suoi successori riscattarono i diritti di pascolo sulle loro grandi proprietà al fine di sviluppare nuovi allevamenti. La conflittualità che, nel medioevo, continuava a opporre pastori e agricoltori è in qualche modo simbolizzata dalla vicenda della Grande Certosa. I Cistercensi che, sulle orme di S.Bernardo, si erano ritirati in luoghi isolati al centro di aree boschive, avevano impostato la loro regola di vita sull’attività pastorale. Nel 1226 possedevano 750 pecore e 180 capre ed erano protagonisti di accese controversie sia con i contadini che con i grandi proprietari terrieri circa i diritti di pascolo’. Parallelamente allo sviluppo dei disboscamenti e delle
bonifiche procedeva anche l’opera di selezione degli ovini che, fin dall’antichità, erano stati oggetti di programmi di miglioramento mediante importazione di nuove razze. Mentre le fonti storiche citano notizie circa l’origine delle razze ovine ed equine e riferiscono dell’interesse dei sovrani e dei nobili più potenti nell’introdurre nuove razze e migliorare le popolazioni locali, ben poco sappiamo dell’origine delle razze caprine.

Lo scontro tra la capra e la modernità

La “guerra alle capre” in Lombardia ha conosciuto particolare virulenza nei primi anni del XIX secolo (al tempo dei regimi filofrancesi) e, nel nostro secolo, nel ventennio fascista. Nel primo caso la guerra alle capre, condotta anche di una aperta preferenza per l’allevamento ovino, trovava fondamento in precise motivazioni sociali. L’attacco alle proprietà comuni e ai diritti consuetudinari delle comunità rurali era condotto a vantaggio dello sviluppo della proprietà privata e della rottura violenta dell’economia di villaggio a pro dello sfruttamento delle risorse del territorio da parte della nascente industria. Senza la legna necessaria al riscaldamento e alla cottura degli alimenti, senza il latte e 1a carne fornita dai Caprini grazie all’utilizzo delle risorse marginali del territorio le comunità rurali erano destinate a dipendere dal mercato e a soggiacere a fenomeni di polarizzazione sociale e di esodo.

Al contempo si volevano favorire gli interessi commerciali e industriali privilegiando la produzione di legname, di carbone di legna e di lana, quest’ultima fornita dai grossi allevamenti ovini di pochi proprietari-mercanti. Con il forzato ridimensionamento dell’allevamento caprino si perseguiva forse anche l’obiettivo di dare spazio all’allevamento bovino, più suscettibile di inserirsi in rapporti di mercato e tale da consentire l’emergere di uno strato sociale di contadini relativamente benestanti. L’allevamento della capra, nonostante il suo carattere di attività su piccola o piccolissima scala (ciascuna famiglia possedeva poche capre) e nonostante l’evidenza della capacità della capra di adattarsi e utilizzare meglio di ogni altro animale domestico l’ambiente montano, venne accusato di “guastare le fabbriche, i campi, le siepi,: facilitare il cominciamento e i progressi delle lavine e delle frane e far cadere sassi dalla montagna; recar detrimento agli orti, ai giardini, ai vivai,distruggere le macchie e i boschi; comunicare all’uomo le scabbie”. Nel trattato di Giuseppe Gauteri, edito a Milano del 1816, e dal titolo: ”Dei vantaggi e dei danni derivanti dalle capre in confronto alle pecore” l’autore arrivava ad affermare che “le capre difese da guardiani accorti e possenti minacciano di scacciare le vacche e le pecore dalla montagna.

Distrutti dalle capre i boschi, le miniere giacciono inutilizzate nel seno della terra, i forni e le fucine non fuman più e i seminatori, gli scavatori, i carbonai, i fonditori ed altri operai, esausti dalla fame, sono astretti ad emigrare dalla montagna. Franati i monti, intisichiti pel freddo alle loro falde gli alberi, alzato il letto de’fiumi e reso incapace a contenere le loro acque che già traboccano e inondano lesott ostanti campagne, aumentati ed abbassati i nevai ed i ghiacciai.

Come si vede alle capre venivano imputati eventi apocalittici (Attila o l’effetto serra sono nulla in confronto!).
La faziosità di questa “crociata” emerge in tutta evidenza qualora si consideri che la crisi dell’industria mineraria e della siderurgia basata sulla materia prima e semilavorata locale, era in atto già da tempo e, lungi dall’essere determina solo dalla scarsità di combustibile, era conseguenza della qualità della materia prima,della dispersione delle unità produttive, della crescente specializzazione e moltiplicazione degli scambi.

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La “guerra alle capre” in Provincia di Bergamo (1806-1813)(8)

In provincia di Bergamo (ai tempi napoleonici compresa nel “Dipartimento del Serio”) la ”guerra alle capre” ebbe echi notevoli per un decennio. Attraverso le polemiche a favore e contro l’allevamento caprino, le numerose circolari, le inchieste, le proposte di nuove regolamentazioni ed il richiamo alle “vecchie costituzioni” emerge uno spaccato vivissimo di quella che era l’importanza dell’allevamento caprino per le comunità delle Valli. La “dichiarazione di guerra” è datata 6 ottobre 1806 e consiste in un Avviso a stampa (quelli che nell’antico regime erano chiamate “grida”), emesso dal Prefetto del Dipartimento del Serio. L’avviso porta a conoscenza che per volontà del Ministro dell’Interno (il governo aveva sede a Milano), erano richiamati in vigore tutti i divieti all’allevamento e al pascolo delle capre a causa de ”I danni che cagionano le Capre ai Boschi, ed i guasti in generale, che ad essi principalmente si apportano nelle Valli Bergamasche”. Richiamare i divieti esistenti (ma non osservati) significava bandire da tutto il territorio bergamasco l’allevamento della capra, ”farne scomparire la razza” secondo l’espressione usata in diversi atti. Tanto per cominciare l’Avviso non indicava un tempo entro cui “disfarsi delle capre”.
La fissazione di un termine di tempo ragionevole entro cui eseguire lo sterminio delle capre fu la richiesta immediata di molti allevatori e Comuni di montagna (richiesta che, come vedremo venne accolta). Un certo Carlo Sonzogno di Zogno, cui erano state confiscate le capre dai Gendarmi Reali, è il primo a scrivere al Prefetto per chiedere un termine di applicazione e adduce a proposito la difficoltà di trovare in zona macellai disponibili.
Tra le petizioni che i Comuni inviarono al Prefetto si segnalano quella di Carisole e quella di Carona. Nella petizione di Carisole si sosteneva che le famiglie del comune non erano in grado di sostentarsi se non facendo pascolare le capre sui beni comunali e si richiamava il diritto delle famiglie residenti oltre Gocchia (Goggia) a mantenere fino a 10 capre ciascuna.
La petizione di Carona inserisce un elemento giuridico importante al fine dell’opposizione all’Avviso Prefettizio. Si allegava infatti una copia del decreto del Capitano e Podestà di Bergamo del 1658 in cui si esentavano dal divieto di mantenere le capre la Val Brembana inferiore e superiore, l’oltre Goggia, la Val S. Martino, la Val d’Imagna, il Vicariato d’Almenno, la Val Seriana superiore e inferiore, la Val Gandino, la Val Cavallina dal Borgo di Terzo ai monti e la Parte di Caleppio.
La petizione caronese è importante anche perché fornisce notizie di grande interesse sulla funzione economica delle capre. Si afferma innanzitutto che le caratteristiche del comune sono tali da restringere al massimo i terreni coltivati e che i pascoli rocciosi sono adatti solo alle capre; quindi si ricorda che le capre sono indispensabili per fornire sego (utilizzato per l’illuminazione) e pelli (con le quali si confezionavano otri per il trasporto di olio e vino).
Sempre dal testo allegato alla petizione dei caronesi apprendiamo che ogni primavera venivano trasferite delle capre da Carona a Milano dove ”prestavano servizio” negli Ospedali cittadini fornendo ”latte salubre”. Toni analoghi sono utilizzati nelle petizioni inviate dagli abitanti di Branzi (senza le capre gli abitanti non sarebbero in grado di pagare le tasse, il latte di capra è indispensabile ai convalescenti, senza sego di capra non vi sarebbe più illuminazione) e di Averara (senza le capre gli abitanti sarebbero costretti ad emigrare). Nelle petizioni pro capre non si manca di sottolineare la squisitezza delle carni di capretto, che si possono gustare a primavera, e si minimizzano i danni forestali, sino ad affermare che le capre ”aborrono” le essenze resinose.
Nel frattempo, citando atti veneti del 1646 e del 1650, anche la Val di Scalve, la Val Taleggio e Averara dimostrano di essere “nominativamente” esentate dai divieti generalizzati al mantenimento delle capre. Presa atta della situazione scatenata dall’Avviso, il Prefetto Frangipane è costretto a farsi portatore delle istanze
della popolazione presso il Ministro dell’Interno.
Egli sostiene che non è opportuno ”distruggere la razza” ma, piuttosto, applicare delle discipline ”adattate” ai diversi territori; sostiene anche che i danni ai boschi “sono limitati” se si ha l’accortezza di non lasciare entrare le capre nei primi 3-4 anni dopo il taglio, così da consentire alle piantine di svilupparsi a sufficienza.
A favore dell’allevamento caprino il Prefetto spezza anche un’ulteriore lancia sostenendo che le capre sarebbero necessarie nelle Valli per mantenere la manodopera addetta alle miniere di ferro e ai pochi terreni agricoli. Sarebbero comunque opportune, secondo il Prefetto, delle limitazioni in modo tale da evitare, oltre ai danni boschivi, anche quelli alle vigne e ai seminativi.
Intanto, nell’ottobre 1806, un tale Antonio Calvi di Lenna subisce pesanti conseguenze penali per la sua opposizione ai divieti anticapre. Nonostante l’età avanzata (70 anni) il suo comportamento ribelle gli costa 8 giorni di carcere sotto l’accusa di non volersi assoggettare alle deliberazioni anti-capre e di ”formare partiti e fare minacce alle autorità locali perché non fossero osservato il proclama in materia di capre”. Questo episodio, sintomo di una forte tensione e del crescere della protesta sociale, deve aver evidentemente indotto le autorità ad un comportamento più ragionevole.
Nel 1807 si fa strada negli ambienti governativi l’idea che sia necessaria una nuova regolamentazione generale circa i “mezzi per difendere boschi e agricoltura senza bandire del tutto le capre”. Coerentemente con uno spirito di ‘illuminismo burocratico” il Governo napoleonico si dispone di avviare una vasta ed approfondita inchiesta”. Il Ministro dell’Interno chiede a tal proposito al Prefetto di Bergamo “notizie circa 1o stato dei boschi, la fertilità degli stessi, quali pascoli siano accessibili e opportuni per le capre, notizie circa la quantità delle capre esistenti, se in ciascun comune esse siano distribuite sul maggior numero di famiglie o se ne possiede qualcuna solamente, se i possessori abbiano pascoli propri e diritto al pascolo comunale ecc.” Nell’attesa di ottenere queste informazioni, attraverso la consultazione degli esperti e dei Consigli Comunali, il Ministro dell’Interno invita il Prefetto a concedere, provvisoriamente, il permesso di mantenere le capre in quei comuni ”nominativamente indicati” dove le ”antiche costituzioni” prevedono l’esenzione dal divieto di mantenere le capre. Di fatto il Prefetto con una circolare del 31 gennaio 1807, concede (con ”atto di clemenza”) una dilazione di alcuni mesi all’esecuzione dell’imposizione di eliminare le capre nei comuni dove i regolamenti le escludono, ribadisce che le capre si possono tenere nei comuni dove non siano bandite
purché non danneggino i boschi. Ma la questione non pare placarsi.
Nell’aprile del 1807 si segnalano nuove proteste da parte di alcuni comuni. E’ il caso di Trabucchello che reclama contro il divieto di pascolo delle capre sostenendo che rinunziare alle capre avrebbe significato la rovina di tutti gli abitanti del comune che da esse traevano il loro sostentamento. La situazione evidentemente si fa confusa tanto che, a settembre, Palazzago e Almenno inviano al Prefetto una protesta di tono ben diverso. Questa volta i Comuni protestano contro il pascolo delle capre. Nella protesta di Almenno si citano trasgressioni al divieto del pascolo nei boschi comunali da parte di quattro diversi proprietari di capre. In un caso cinque capre vennero “sequestrate” nell’osteria di S.Pietro d’Almenno. Il Cancelliere di Palazzago si lamenta circa la perdurante mancanza di chiare norme in grado di consentire ai comuni di procedere nella materia e nel frattempo dichiara che nel comune si continuerà a mantenere le capre, fatta salva la proibizione ad arrecare alcun danno.
Alla fine del 1807 le informazioni chieste dal Ministero dell’Interno tardano ad arrivare. In effetti esse arriveranno dal 1808 al 1813, in alcuni casi dettagliate, in altri lacunose e generiche. Tra i distretti “zelanti” si annoverano quello di Treviglio, che tende a minimizzare la presenza di capre affermando che quelle che si trovano sono “presenti abusivamente” e che, in alcuni comuni, la presenza di capre è considerata un “Fenomeno nuovo” che “arreca molti danni all’agricoltura”.
Ben diversa è l’attenzione del Vice-prefetto di Clusone che invia statistiche dettagliate e copiose informazioni circa le norme che regolano, nel suo distretto, l’allevamento delle capre. Egli propone anche un regolamento molto articolato che Vale la pena esaminare. Le regole proposte dal Vice-prefetto di Clusone contemplano:

1) divieto di mantenere capre alle famiglie che non siano povere ovvero che esercitino attività extraagricole o possano mantenere una o più vacche;

2) subordinazione del mantenimento delle capre ad una domanda da inoltrarsi all’inizio dell’anno da esaminarsi, caso per caso, da parte del ConsiglioComunale e da sottoporre alla Prefettura;

3) ogni famiglia non può mantenere più di 5 capre dove esistano grandi tintorie, forni di fusione, e “simili stabilimenti che consumano legna” e dove si vende il legname;

4) l’elenco delle famiglie autorizzate a tenere capre sarà reso pubblico;

5) le capre saranno tutte contrassegnate con una bolla a fuoco e recheranno una marca del proprietario;

6) i capretti sino a 40 giorni non rientrano nell’obbligo di autorizzazione;

7) le capre marcate saranno uccise e al proprietario sarà comminata una sanzione di 19 lire (di queste 10 allo ”scopritore” e 5 al comune);

8) il pascolo delle capre è vietano nei cedui fogliosi e nei boschi di resinose per i primi cinque anni dal taglio;

9) verrà pubblicato un elenco dei boschi ”accettati” per il pascolo caprino;

10) le capre sorprese nei boschi non consentite saranno multate sulla base di 10 lire a capo (2/ 3 allo ”scopritore”, 1/3 al danneggiato), in caso di recidiva il gregge sarà confiscato;

11) le capre sorprese in terreni agricoli saranno multate nello stesso modo e, in caso di attraversamento di fondi dovranno essere legate;

12) la “numerazione” delle capre dovrà essere effettuata due volte all’anno a cura dei campari.

Molte delle proposte del Vice-prefetto dovranno aspettare più di un secolo per essere applicate! Oltre a proporre un rigido controllo burocratico dell’allevamento caprino il Vice-Prefetto di Clusone elenca con dovizia di particolari lo stato dei boschi e lamenta, nella sua relazione, diversi tipi di danni prodotti dalle capre; segnala in particolare i danni ai germogli delle piante durante l’inverno e quelli derivanti dalla abitudine delle capre di “strappare l’erba alla radice”. Egli ritiene che, nonostante tutto, la regolamentazione proposta sia molto generosa considerato che, in alcuni comuni, esistevano tradizionalmente dei limiti severi al numero di capre ”per fuoco”. Il alcuni si potevano tenere 5, 4, 3 o 2 capre, a Schilpario una sola per famiglia. Nel 1808 nuove proteste contro il pascolo delle capre provengo- no da Poscante e da località limitrofe. Nella nota si afferma che “essendo stato accordato il bando delle capre nella Brembana inferiore a Pescante, essendo liberi, si erano rifugiati vari caprai con relativo danno gravissimo dei Beni tanto particolari come Comunali”.
Di conseguenza venivano colpiti dal Bando anche quei comuni, precedentemente “liberi”, col potere di ”arrestare” qualsiasi capra si fosse trovata ancora in quei circondari.
Nel febbraio 1813 l’indagine sul numero di capre nel Dipartimento era tutt’altro che conclusa e il Ministro dell’Interno sollecitava il Prefetto di Bergamo a fargli pervenire i risultati ”essendomi indispensabile una tale notizia con che si tratta di compilare un progetto di regolamento generale onde rimediare ai guasti che le
capre arrecano all’agricoltura ” Nel frattempo si consumavano gli ultimi atti della vicenda di Napoleone e dei suoi luogotenenti in Italia. La sollevazione milanese del 20 aprile 1814 mise fine al Regno Italico con a capo Eugenio di Beauharnais precedendo di qualche giorno il ritorno degli austriaci. Questi ultimi anche se introdussero norme di attenta salvaguardia e gestione del patrimonio silvopastorale si guardarono bene dal portare a termine l’azione anticapre intrapresa dal regime napoleonico.

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Capre di caprai ambulanti scesi dalle montagne a primavera per vendere il latte nelle strade nel centro di Milano (1919)

La politica anticapre del fascismo

La politica forestale fascista si tradusse nel R.D.L. del 30.12.1923 e nel R.D.L del 16.1.1927. Il primo provvedimento prevedeva l’esclusione del pascolo da ogni zona boscata, compresi i terreni degli allevatori se a questi era riconosciuta con funzione protettiva. Il secondo decreto ebbe l’effetto di una vera e propria falcidia del patrimonio caprino italiano poiché introdusse un’onerosa ”tassa sulle capre” che colpiva ogni capo posseduto.
Tali misure appaiono legate all’esigenza di fronteggiare con misure “draconiane” i fenomeni di degrado determinati dal pascolo caprino nelle regioni mediterranee (erosione, disboscamento, compromissione della situazione idraulica di zone interne e litoranee). Il centralismo amministrativo e legislativo (che il fascismo si limitò ad esasperare rispetto all’Italia liberale) fece sì che tali misure venissero applicate anche nelle regioni alpine, dove la densità caprina era molto meno elevata ed il territorio meno vulnerabile. La politica anticapre del fascismo va comunque interpretata anche alla luce della più generale politica forestale del regime. Esso, attraverso la rigida struttura della Milizia Forestale aveva la finalità di accentuare il controllo dello stato centrale sul territorio e sulle popolazioni alpine.

Gli sviluppi recenti

Nel dopoguerra la politica forestale non venne sostanzialmente modificata; venne dato un notevole impulso ai rimboschimenti e, nonostante la creazione delle Regioni, il Corpo forestale dello Stato venne mantenuto con funzioni sempre più limitate a quelle di polizia. Le Regioni non hanno introdotto orientamenti sostanzialmente nuovi nella politica forestale tradizionale. Essa continua a prevedere un ingiustificato e generalizzato proibizionismo nei confronti del pascolo caprino (l’attuale Regolamento Forestale della Regione Lombardia, approvato nel 1993, rende ancora più stretti i divieti al pascolo caprino).
Tale orientamento, contraddetto anche da alcuni contributi scientifici di studiosi di varie discipline, è dettato da astratti criteri di tutela e miglioramento del bosco. Tali criteri non tengono conto che il bosco (quello di ieri, quello di oggi e di domani) risponde a più funzioni economiche e sociali. In passato la politica sociale di modernizzazione forzata, tendente ad esautorare le comunità rurali dai loro diritti, venne giustificata ”razionalmente” con argomenti pretestuosi. Quando a metà ottocento la politica forestale in Francia colpì gravemente i contadini si argomentò che i boschi dovevano essere migliorati perché il loro degrado non consentiva l’approvvigionamento di legname per le opere navali necessarie alla marina militare e commerciale. Ebbene, quando quei boschi giunsero a maturazione, le navi non venivano già più costruite in legno, ma in ferro ‘ Oggi analoghi pretesti (di natura sostanzialmente ideologica) vengono avanzati in nome dell’ecologia e della ”protezione ambientale” ma, di fatto, nascondono un nuovo episodio del conflitto di interessi tra città e campagna. Il bosco viene presentato come un ambito di ricreazione per i cittadini stressati o come ”elemento di protezione idrogeologica”, necessario alla difesa dei fondovalle e della pianura. Di qui la ”parchizzazione” del territorio montano, dettata, più che da preoccupazioni di tutela ambientale, da impostazioni politiche che non tengono sempre nell’adeguata considerazione le esigenza comunità di montagna. L’effetto della ”parchizzazione”, anche al di là delle intenzioni dei promotori, non fa che aggravare la già pesante vincolistica che intralcia le attività agricole e pastorali in montagna e che finisce per contro-
bilanciare l’effetto delle politiche di sostegno economico. In realtà pascoli ben tenuti e boschi razionalmente ”coltivati” sono in grado di svolgere un ruolo di regimazione idraulica molto più efficace di boschi degradati o con soprassuoli poco adatti alla natura dei terreni. Un territorio ben coltivato e vario, dove i boschi si alternano ai prati ed ai pascoli, possiede inoltre un valore paesistico sicuramente superiore ad un ”deserto verde”“.

L’andamento del patrimonio caprino

Il numero di capre nella seconda metà dell’800, esauritasi l’eco della ”guerra alle capre”, era risalito notevolmente in Lombardia. Agli inizi del ‘900 si contavano in Lombardia 100.000 Caprini contro i 75.000 stimati un secolo prima. Con il fascismo si ebbe un nuovo e più grave crollo. Una leggera ripresa si ebbe in coincidenza della guerra e quindi, questa volta per cause esclusivamente economiche, siebbe un nuovo crollo negli anni del “boom” economico e dell’esodo rurale. Il minimo storico si raggiunse all’inizio degli anni ’70 quando in tutta la Lombardia vennero censiti 15.000 Caprini.
Dagli anni ’70 ad oggi si è assistito, anno dopo anno, ad un aumento che sembra destinato a proseguire. Nel 1996 secondo fonti dell’Assessorato regionale all’agricoltura i caprini avevano superato le 52.000 unità. Non è fuori luogo affermare che l’allevamento caprino, con i suoi corsi e ricorsi, rappresenta un indicatore sen-sibile dei fenomeni economici e sociali.

Il ritorno della capra

La ripresa in termini numerici dell’allevamento caprino a partire dagli anni’70 è determinata da due fenomeni diversi che è bene distinguere. Una delle componenti dell’aumento del patrimonio caprino è legata all’estensione delle forme di allevamento estensivo basate sul pascolo brado. L’aumento del part-time in agricoltura, il mancato sfruttamento di sempre più ampie risorse forestali e pastorali (con la conseguenza di una attenuata l’ostilità e vigilanza contro il pascolo brado), l’introduzione di vari contributi Cee, hanno rilanciato l’allevamento nelle zone di montagna secondo modalità diverse da quelle tradizionali. Attualmente la maggior parte delle capre allevate in montagna non è sottoposta alla mungitura ed il latte prodotto nella prima parte della lattazione è consumato interamente dai capretti. Sino ad oggi, pertanto, all’aumento quantitativo del numero di capre è corrisposta una regressione dei sistemi di allevamento.
Del tutto indipendentemente da quanto si stava verificando in montagna, in alcune zone pedemontane e di collina della Lombardia, nel corso della seconda metà degli anni ’70 è apparso un sistema di allevamento caprino del tutto nuovo basato su schemi intensivi.
I nuovi allevamenti sono stati avviati importando capre di razze altamente selezionate (Saanen e Camosciata delle Alpi) dalla Francia e dalla Svizzera. Dalla Francia sono state introdotte anche le nuove tecniche di allevamento. I primi “nuovi” allevamenti di capre si sono insediati nel Lecchese (per iniziativa di singoli allevatori) e a Varese (prevalentemente grazie ad un programma sostenuto dalla locale C.C.I.A.A.).
All’inizio degli anni ’80 nuove iniziative sono sorte anche nella provincia di Bergamo, di Como e di Brescia. Oggi l’allevamento caprino “moderno” rappresenta una realtà ridotta, ma consolidata, che interessa, oltre alle provincie antesignane, anche quelle di Sondrio, Milano e Pavia. Negli anni ’80 il nuovo interesse suscitato dai nuovi allevamenti caprini ha indotto alcuni studiosi e tecnici a chiedersi se, al di là dell’incoraggiamento ai nuovi allevamenti intensivi e semi-intensivi, non ci fosse spazio anche per una valorizzazione zootecnica ed economica dell’allevamento “tradizionale”. Da questa premessa si è sviluppata un’attività di studio e di promozione delle razze autoctone. Queste ultime si son rivelate una vera e propria “scoperta” consistente in un patrimonio zootecnico “sommerso”, ma di grande interesse”. Oggi una razza tra quelle autoctone (l’Orobica) è ufficialmente inserita nel Libro Genealogico delle razze caprine italiane mentre altre tre (Frisa Valtellinese, Verzaschese e Bionda dell’Adamello) sono state riconosciute come razze-popolazioni autoctone a limitata diffusione (Regolamento Cee 2078/91). Nel frattempo molti allevamenti di capre di razze autoctone si sono inseriti nel circuito dell’assistenza tecnica regionale agli allevamenti zootecnici (SATA) ed è stata intrapresa un’intensa attività di controllo ufficiale delle produzioni di latte come premessa ai piani di miglioramento genetico. L’inserimento delle capre autoctone nel mondo zootecnico “ufficiale” ha prodotto un rafforzamento complessivo del settore. Se è vero che le capre autoctone sono state “riscoperte” grazie al nuovo
interesse suscitato intorno all’allevamento intensivo, è anche vero che l’allevamento caprino resterebbe nel novero della zootecnia “minore” o “alternativa” senza l’apporto numerico delle capre autoctone e dei loro allevatori. Essi non solo hanno allargato l’ambito territoriale e socio-economico dell’allevamento caprino, ma
hanno imposto all’attenzione dei responsabili della politica agraria regionale e provinciale, una nuova considerazione per questo settore in quanto “carta” da giocare per il rilancio dell’agricoltura di montagna. Queste considerazioni dovrebbero essere sufficienti a dimostrare come all’interno del mondo dell’allevamento caprino esiste una differenziazione oggettiva, ma non c’è alcun elemento di concorrenzialità o, peggio, di conflittualità, né tra razze né tra tipologie di allevamento.
L’interesse degli allevatori e dei tecnici del settore ha portato ad una moltiplicazione delle iniziative e delle attività di carattere tecnico. A Varese ogni anno sitiene dal 1989 un Simposio internazionale sugli ovi-caprini che vede una nutrita presenza di tecnici e ricercatori del settore provenienti da tutta Italia. Numerose manifestazioni zootecniche vedono le capre, in prima fila le autoctone, protagoniste di rassegne e concorsi (vedi oltre).
Anche se le potenzialità dell’allevamento caprino sono ancora tutte da sfruttare possiamo affermare che questo settore ha compiuto passi fondamentali per uscire dalla marginalità e assumere, finalmente, la dignità e i riconoscimenti che si merita.

Note

2) Terenzio Varrone, La Vita nei campi, versione di Alfredo Bartoli, Istituto Editoriale Italiano, Villasanta (Mi) 1930 (ristampa anastatica, Viterbo 1988).

3) E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari, 1972, p. 63.

4) Nel 1086 nelle contee di Norfolk, Suffolk e Essex veniva allevato nelle aziende di un numero comples-
sivo di servi pari a 11.707 il seguente bestiame: 31.088 maiali, 129.971 ovini, 10.937 capre, 2.721 cavalli
e 8.958 bovini. Nell’anno 810 in quattro tenute imperiali della zona di Lilla venivano allevati 1.025
maiali, 1.498 pecore, 261 capre, 278 cavalli e 272 bovini. I dati sono riferiti in: B.H. Slicher Van Bath,
Storia agraria dell’Europa Occidentale (500-1850), Einaudi, Torino 1972, pp. 94-95.

5) La circostanza è riferita da Charles Parain. L’evoluzione delle tecniche agricole, in: Storia economica
Cambrige, Einaudi, Torino, 1976.

6) lbidem.

7) G. Duby. L’economia rurale dell’Europa medioevale, Vol. 1, Laterza, Bari 1972, p. 221.

8) La documentazione, interamente manoscritta, ad eccezione dell’Avvis0 a stampa qui riprodotto, è
tratta da: Archivio di Stato di Bergamo. Dipartimento del Serio (cartella 86).

9) 11 governo del Regno Italico si lanciò in un vasto ed ambizioso programma di statistiche agrarie attra-
verso due ”campagne”, la prima del 1807, la seconda nel 1811. Si veda: Luigi Facchini, ”Karl Czoering
e la statistica agraria in Lombardia”, Società e Storia, 10, 1980.

10) La circostanza è riferita da Eugen Weber nell’opera ”Da contadini a Francesi”, Il Mulino, 1986.

11) C. Testori, Proposte per il recupero di un paesaggio agricolo montano, Ed. a cura del Cenasca
Lombardia, Cremona, 1966.

12) I risultati dei primi studi sulle capre autoctone lombarde sono riferiti da: G.C. Gallarati Scotti, M.
Corti, Le razze caprine autoctone dell’area alpina lombarda e ticinese, Atti XXIV Simposio Internazionale
di Zootecnia – Piccoli ruminanti oggi, Milano, 20 Aprile 1986, pp. 117-130.