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la capra in provincia di Bergamo (1997)

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Usciva vent’anni fa per iniziativa della provincia di Bergamo un volume che, al tempo, poteva apparire un po’ stravagante. La ripresa dell’allevamento caprino era ancora timida e agli inizi. A differenza delle provincie di Varese e di Como dove il revival della capra, con la nascita di nuovi allevamenti – anche si tipo intensivo e semi-intensivo – risaliva agli anni ’70-’80.  Quel futuro, sperato dagli autori e dalla provincia, si è realizzato. C’è ancora spazio, però, per una ancora più decisa affermazione delle capra nelle valli orobiche e nell’area pedemontana. L’individuazione di un nesso virtuoso tra allevamento caprino ed agriturismo e tra produzione – trasformazione aziendale – filiera corta (allora non si chiamava ancora così) era corretta. Quello che non si si aspettava era che la produzione di formaggi di capra si intrecciasse al revival dello stracchino (erborinato o meno).  La bella novità degli ultimi anni è proprio questa. Si è riscoperto come gli stracchini, prima del boom della vacca da latte a partire dal Cinque-Seicento, fossero prodotti con latte misto o forse anche solo di capra. Un ritorno all’antico in sintonia con una nuova consapevolezza del valore di rilievo mondiale assoluto delle tradizioni casearie orobiche che sono basate non solo sul latte vaccino ma anche s quello caprino (ma fino a tempi non molto lontani anche ovino).

Riportiamo l’Introduzione del volume del 1997, quale materiale che testimonia la continuità di un interesse e di una passione che, nel Festival del pastoralismo edizione 2016 consacrato alla capra con le due mostre “Capramica” e la “Vacca dei poveri” vede la conferma di Bergamo (con tutte le Orobie) come capitale dei formaggi, del pastoralismo e del caseificio delle Alpi lombarde.

INTRODUZIONE

La capra, animale umile, di cui si trovano solo labili tracce nella storia scritta, ha lasciato segni ben individuabili in tutto ciò che riflette la cultura materiale delle generazioni passate. Questi riflessi sono importanti perché ci permettono di confermare l’importanza fondamentale che aveva nel passato la capra per il sostentamento delle popolazioni rurali e, in particolar modo, di quelle di montagna. La capra è stata considerata “la vacca dei poveri” e, di conseguenza, nella memoria collettiva si è cercato di operare una rimozione di un ricordo, di un passato, di una cultura, che venivano ritenute legate alla miseria. Sull’altare del benessere sono stati sacrificati molti elementi di quella cultura popolare che costituiva una ricchezza profonda, un elemento di continuità e di coesione tra generazioni e tra classi sociali, anche al di la  dei rivolgimenti storici. E’ il caso di dire che insieme all’acqua sporca è stato buttato anche il bambino. Di ciò si rendono conto molti giovani che, oggi, nell’ambito delle nostre comunità , cercano faticosamente di riannodare la trama delle memorie, dei valori, delle tradizioni. Questi giovani si rendono conto di quanto di prezioso è stato perduto abbandonando l’agricoltura alla marginalità  e le tradizioni del mondo rurale all’oblio. Oggi non è difficile confrontarsi con altre realtà , anche geograficamente prossime (vedi il Tirolo e la Valle d’Aosta), dove le cose sono andate diversamente e, da questo confronto, non si possono non trarre amare conclusioni. C’è una specie di interruzione, di frattura nella memoria collettiva. Tale frattura è rappresentata da una generazione (o due) che hanno assunto acriticamente tutti gli aspetti del “moderno” e, altrettanto acriticamente, hanno rigettato la tradizione. Ciò è avvenuto sull’onda di interessati messaggi consumistici e della permanente diffidenza e avversione della scuola e della cultura ufficiale per la cultura locale. L’imitazione dei modelli della cultura urbana si è tradotta in una edilizia ben poco rispettosa dei contesti urbanistici, paesistici ed agricoli ed in una forte svalutazione sociale delle attività agricole, specie di quelle tradizionali, meno suscettibili di meccanizzazione. Nel caso della scomparsa e della marginalizzazione della cultura materiale legata all’allevamento della capra, però, la modernizzazione consumistica e l’esodo rurale degli anni ’50-’70 hanno rappresentato solo l’ultimo atto di un processo che risale a quasi due secoli fa. Lo scontro tra capra e modernità  deve essere fatto risalire ai primordi della civiltà  industriale, anche se le premesse di questo scontro risalgono al medioevo. Lo sviluppo tra ‘700 e ‘800 dell’industrialismo e la crescita dei commerci e della popolazione urbana hanno coinciso con una crescente conflittualità tra l’allevamento caprino e l’utilizzo mercantile delle risorse dei pascoli e dei boschi, assurti a nuova importanza economica ai fini della produzione di legname (da carbonella, da opera, da ardere) e di lana. L’allevamento ovino, al contrario di quello caprino, può rappresentare la base di una economia mercantile in grado di fornire buoni prodotti a singoli proprietari-imprenditori e, in passato, abbondante materia prima all’industria tessile. La pecora, animale gregario per eccellenza, può essere mantenuta in grossi greggi che non tendono a disperdersi e possono divenire oggetto di un allevamento transumante che, a certe condizioni, può risultare molto redditi-zio.

Di fronte all’allevamento ovino quello caprino, disperso ed estraneo ai circuiti mercantili, ha dovuto cedere il passo. Nonostante la scarsa considerazione in cui l’allevamento caprino è tenuto nelle zone tipiche dell’allevamento della pecora bergamasca, proprio in val Seriana troviamo una delle più alte concentrazioni di capre allevate nella provincia di Bergamo. Ciò si spiega con il fatto che, pur se considerato marginale, questo allevamento ha continuato a trovare spazio nelle difficili condizioni orografiche dell’Alta Valle, ma anche con una seconda circostanza. In ogni gregge di pecore bergamasche transumanti vi sono diverse capre (in genere 7-8)1 che, insieme ai cani e agli asini, rivestono una funzione importantissima nella gestione del gregge. La presenza delle capre è necessaria per assicurare l’allattamento degli agnelli rimasti orfani, di quelli le cui madri, a causa di varie affezioni alla mammella o altre cause patologiche, non sono in grado di allattare o non hanno sufficiente latte. La capra, al contrario della pecora, accetta di buon grado di
fare da balia non solo di capretti altrui, ma anche di piccoli di numerose altre specie. Sono documentati persino casi di cerbiatti e puledri allattati da capre.

La marginalizzazione dell’allevamento caprino nella provincia di Bergamo trova senz’altro spiegazione nella particolare importanza dell’allevamento ovino ma, come in altre aree alpine e prealpine limitrofe, è il risultato di un processo di differenziazione sociale all’interno delle comunità rurali della montagna. Tale processo si è tradotto e si è accompagnato ad una diffusione crescente dell’allevamento bovino presso le famiglie con maggiori risorse. L’allevamento caprino è divenuto in epoca moderna appannaggio delle zone più povere (in ragione delle qualità delle risorse pascolive e dell’isolamento) e delle famiglie con minori possibilità economiche. Sotto la spinta di divieti di pascolo e di spinte migratorie l’allevamento caprino in questo secolo ha subito una fortissima regressione culminata negli anni ’70.

Le consuetudini che per secoli avevano regolato il pascolo delle capre e gli aspetti di questo allevamento si sono conservati più a lungo nelle comunità delle parti alte delle valli. Lizzola, in Alta Val Seriana, rappresenta un esempio di comunità dove le antiche consuetudini di allevamento della capra si sono mantenute sino a qualche decennio orsono. Come in altre comunità alpine e prealpine il capraio ha un ruolo importante. Egli in questi contesti tradizionali non è affatto una figura di emarginato ma, anzi, un personaggio che incarna un certo prestigio sociale ed è in grado di trarre dal proprio lavoro un buon ricavo economico. Dal momento che a Lizzola, come in moltissimi altri paesi tutte le famiglie o quasi possedevano una o più capre, il “servizio” del capraio era considerato di grande importanza. Egli durante le stagioni di pascolo provvedeva a prendere in consegna le capre passando alla mattina presto di casa in casa. Alla sera le riconduceva. Per ottenere l’incarico gli aspiranti caprai partecipavano ad una specie di “asta
d’appalto”. Nonostante l’asta al ribasso i candidati non dovevano temere più di tanto un eccesso di concorrenza perché la professionalità richiesta era posseduta da pochi. Il capraio esperto sapeva (e ancor oggi sa) controllare le capre e radunarle senza eccessiva fatica. Con l’uso sapiente del sale, di fischi, di richiami egli è in grado di spostare le capre a distanza, di evitare che si disperdano. Grazie a questa abilità può anche concedersi di schiacciare dei pisolini durante la giornata. Un capraio inesperto, al contrario, deve rincorrere le capre su e giù sprecando tempo ed energia. La profonda conoscenza delle abitudini e del comportamento specifico della capra e la conoscenza dell’ambiente rappresentano le non comuni doti del capraio. Consuetudini diverse da paese a paese regolavano la tariffa per capra e stabilivano anche durante quale periodo dell’anno il capraio potesse mungere le capre e utilizzare il latte. Di regola ciò avveniva durante l’estate. Al termine del periodo d’alpeggio le capre pascolavano ancora, in genere sino a novembre, nei boschi al di sopra dei paesi e nell’ultima parte della lattazione i proprietari poteva- no ancora mungere.

E’ interessante notare che in tutte le comunità con una tradizione di allevamento caprino si cercava di sfruttare al massimo tutte le risorse di foraggio dei boschi, dei maggenghi e degli alpeggi per produrre latte sino a dicembre; ciò contrasta con la situazione attuale dove le capre sono spesso messe in asciutta dopo lo svezzamento dei capretti o, al più, dopo lo scaricamento degli alpeggi. L’esigenza di sfruttare al massimo le capre e le risorse dell’ambiente era però mitigata da regole ben precise di cui ogni comunità si dotava. Esse stabilivano innanzitutto la data di inizio del pascolo, il limite superiore di pascolo primaverile e il limite inferiore di pascolo autunnale (dove esistevano i castagneti questi non erano certo incolti come oggi e le capre potevano abbassarsi al loro livello solo a raccolta completata).
Poiché era interesse comune evitare l’anarchia e turbare un equilibrio già abbastanza fragile tra ambiente e esigenze di sostentamento, le norme erano rispettate da tutti secondo uno spirito di civismo e di solidarismo (motivato dalla necessità) fortemente interiorizzato e, disgraziatamente, svanito con la modernizzazione consumista.

1) A. Carissoni, Pastori. Studi, documenti, testimonianze sulla pastorizia bergamasca. Edizioni
Villadiseriane, Ponteranica 1985, p. 110.

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