Site icon Pastoralismo alpino

La transumanza dei bergamì, una civiltà di allevatori-casari con lasciti profondi

di Michele Corti

L’evoluzione dell’economia zoocasearia orobica, che già nei secoli precedenti aveva visto l’aumento dell’importanza dell’allevamento bovino (testimoniato dalla presenza di malghesi con numerose “bestie grosse” svernanti in pianura), conobbe un’accelerazione nel Quattrocento in contemporanea con le trasformazioni agrarie delle basse pianure del lodigiano e del pavese. Qui, grazie allo sviluppo precoce dell’irrigazione, la monotona ceralicoltura venne sostitituita con le rotazioni agrarie in cui larga parte avevano le colture foraggere. L’irrigazione consentiva di effettuare sino a quattro tagli di fieno e di metterne a disposizione copiose scorte nei fienili. Un ben di Dio per i malghesi orobici, ovvero i proprietari di “malghe” di pecore, capre e vacche da latte che scendevano già da 2-3 secoli nelle “basse”. Grazie all’abbondanza di fieno essi si trasformarono sempre più in allevatori specializzati con nutrite mandrie di bovini da latte che, gradualmente, divennero sempre meno dipendenti dall’alimentazione al pascolo.

Essi lasciando che altri malghesi seguitassero a svolgere l’attività di “pecoraio” vagante che tese a concentrarsi sull’incolto residuo (e che è continuata attraverso i secoli sino ai nostri giorni). Questi allevatori di bovini vennero chiamati sino a tutto il Quattrocento “bergamaschi” o “permamaschi” prima che si affermasse la definizione moderna di “bergamini” nata e mantenutasi a lungo nel Pavese, Milanese e Lodigiano. I “bergamaschi” potevano anche provenire dalla Valsassina o dalla Valcamonica ma il termine si consolida in forza dell’identificazione dell’allevatore con il montanaro e del montanaro con quello delle valli di Bergamo. Il fatto è confermato dalla precisazione della provenienza (“de episcopato pergami” o “bergomensis”) quando serve chiarire che il “bergamasco” non è non solo un mandriano ma è anche effettivamente bergamasco. I “bergamaschi” utilizzavano frequentemente i contratti di soccida, che consentirono loro di allevare decine di vacche. All’inizio del Cinquecento un tale “bergamasco de Dossena” manteneva ben 300 vacche da latte. Nel Cremonese e nel Bresciano rimase il termine “malghese” per identificare i mandriani transumanti, termine che – a precisazione – era aggiunto a quello di bergamino anche a ovest dell’Adda per non confondere i mandriani proprietari di mandrie (spesso ricchi e, in ogni caso, imprenditori autonomi e indipendenti), con altre figure di minore importanza nella scala sociale che, nel frattempo, avevano assunto anch’esse la denominazione di “bergamini”. Si trattava di capi stalla, mungitori, garzoni di origine montanara, membri delle stesse famiglie che, a volte con lo stesso, a volte con altri rami, continuavano la transumanza.

La pianura dipendeva dalla montagna

Il processo di “affrancamento” degli affittuari delle grandi aziende della Bassa dai bergamini è stato più precoce nelle zone delle grandi aziende (come nella Bassa lodigiana e nel Pavese) mentre nello stesso comune di Lodi il ruolo dei bergamini nella gestione del latte era ancora prevalente ad Ottocento inoltrato (così come in certe aree del Milanese, per non parlare del Cremasco e della bassa pianura bergamasca). Per la rimonta del bestiame, però, gli affittuari della Bassa dovettero continuare a dipendere sino alla metà del Novecento dagli allevatori di montagna. Nelle condizioni igieniche e sanitarie della pianura una vitella non aveva grandi possibilità di sortire una manza robusta e quindi di essere fecondata e di avviare una carriera lattifera. Che il bestiame fosse allevato dai montanari svizzeri o valtellinesi o dai bergamini era sempre bestiame che aveva potuto trarre giovamento dall’alpeggio. Nel Novecento, quando i fittavoli della Bassa iniziarono ad allevare la rimonta, continuarono per decenni ad affidare le giovani manze ai bergamini perché le alpeggiassero nelle valli bergamasche. Solo con le nuove stalle “aperte” (fine anni Sessanta), che offrivano al bestiame la possibilità di movimento, la pianura divenne totalmente indipendente dalla montagna. Il processo di trasformazione della pianura irrigua è dipeso da una sinergia tra allevatori montanari – per lo più bergamaschi – capaci di allevare gli animali e di trasformare il latte, e i capitali e le competenze di proprietari e agricoltori di pianura. Più acqua significava più fieno ma anche più letame e quindi più fertilità dei terreni e maggiori produzioni. Queste ultime consentivano ai proprietari dei fondi, agli affittuari degli stessi e ai bergamini di disporre di più risorse da investire.

Così la cascina di pianura lombarda divenne quella strutture “moderna” con al centro la componente dell’allevamento zootecnico che (almeno in parte) ha mantenuto sino ad oggi la loro fisionomia, con la grande corte dove si affacciavano le stalle con i sovrastanti fienili, il “casone” (caseificio), i granai, le case dei contadini, quella padronale. Le grandissime aziende signorili medioevali, divise in tanti poderi affidati ad intermediari che – a loro volta – le concedevano a famiglie di mezzadri dediti alla coltivazione dei cereali, scomparvero così come scomparvero ampie zone di incolto e di bosco. Al loro posto le nuove aziende che integravano agricoltura e allevamento. Una rivoluzione che vedeva protagonisti anche i bergamini che contribuirono con il capitale bestiame, ma anche con le anticipazioni in moneta sonante per l’acquisto del fieno all’entrata a fine settembre in cascina e, altro fattore chiave, con la loro competenza casearia. Solo molto gradualmente e parzialmente i malghesi transumanti furono sostituiti da casari, capi stalla, mungitori stipendiati (che, normalmente, erano di origine “bergamina”). La “mobilità sociale” dei bergamini, però, non avveniva solo verso il basso. La classe dei fittavoli, come ebbe modo di osservare Carlo Cattaneo era essa stessa di origine bergamina (e in parte brianzola).

Lo stesso Cattaneo era discendente da bergamini dell’alta Valle Brembana (per la precisione di Valleve) che iniziarono a praticare la transumanza nel XVII secolo e che, nel corso del secolo seguente, diventarono affittuari di grandi aziende tra Milanese e Pavese. Va precisato che gli allevatori montanari hanno iniziato a stanzializzati e sono divenuti affittuari di fondi quando erano ancora “bergamaschi” ovvero non esistevano ancora le cascine “moderne” e i “bergamini” moderni. Il processo di stanzializzazione di bergamini e di entrata nel ciclo della transumanza di nuove leve di allevatori montanari è durato quasi sette secoli. Questa lunga durata fa sì che esso rappresenti uno di quei fenomeni sociali che lasciano il segno nell’identità del territorio anche se quasi sino ad oggi esso è stato largamente sottovalutato. A completare il quadro della relazione montagna-pianura va aggiunto che spessissimo il latte era lavorato nelle cascine da piccoli imprenditori autonomi (i lacé), anch’essi invariabilmente di origine bergamina. Questi casari che avevano spesso anche qualche vacca (e maiali) si erano stabilizzati da tempo in pianura. Il forte intreccio tra zootecnia della Bassa, transumanza e alpeggio è perdurato sino a Novecento inoltrato. La “fissazione” dei bergamini che, a differenza del processo graduale dei secoli precedenti, sono diventati – contemporaneamente e in gran numero – proprietari/affittuari di fondi agricoli o industriali/artigiani del latte o del salumificio si è verificata in due ondate successive alle due guerremondiali. Sino all’immediato secondo dopoguerra, però, qualche piccolo allevatore di montagna diventando bergamino compensava in parte quelli che si stanzializzavano in pianura o che, ma è era una minoranza, tornava alle montagne per restarvi. In seguito la figura del bergamino (e quella correlata del lacé) sono andate estinguendosi. Bergamini e formaggi

Il rapporto tra bergamini e le aziende delle Basse era ovviamente diversificato in relazione alle diverse strutture agrarie. Esso, in ogni caso, si basava sull’acquisto del fieno e sulla cessione del prezioso letame. In cambio dell’acquisto del fieno l’affittuario o proprietario (se gestiva direttamente l’azienda) forniva al bergamino e alla sua spesso numerosa famiglia la stalla, i locali di abitazione, una porcilaia, la paglia per la lettiera del bestiame, la legna per il caseificio e per gli usi domestici, generi alimentati, cruscami per i maiali. Il bergamino doveva come “appendizi” o “regalie” al conduttore la fornitura di un modesto quantitativo di latte e di stracchini ma gestiva autonomamanente la caseificazione e la commercializzazione del formaggio trattando direttamente con commercianti. Solo bergamini piccoli o in difficoltà pagavano il fieno con gli stracchini. Normalmente il bergamino versava in moneta sonante la caparra e le rate del fieno acquistato. È bene ricordare che i bergamini in pianura producevano normalmente strachìquader (detti anche “quartiroli” o “stracchini di Milano” mentre la denominazione “Taleggio” appare solo all’inizio del Novecento). Spesso, però, producevano anche stracchino erborinato (strachìtunt o “tondi” o “stracchino di Gorgonzola”) ma anche (Grana) Lodigiano. In alpeggio gli stessi bergamini potevano produrre stracchini (anche “tondi”), formaggio grasso di monte (variamente denominato secondo i periodi e le piazze commerciali Bitto o Branzi), formaggio semigrasso e formaggelle (in Val Seriana). Nelle grandi aziende lodigiane non era sufficiente un solo bergamino per consumare il fieno prodotto e in cascina erano presenti più bergamini che potevano lavorare il latte singolarmente o affidarlo ad uno di loro o ad un lacè. La necessità di unire il latte di più mandrie, sia che fossero di bergamini, laté, “mungini” (piccoli allevatori locali), affittuari era ovvi dove si produceva Lodigiano che richideva il “frutto” di 50-60 lattifere per la produzione di una grossa forma. Al contrario nella pianura bergamasca, dove i fondi erano più piccoli, il bergamino doveva spesso suddividere la propria mandria in più cascine in ragione delle limitate dimensioni delle stalle (e delle scorte di fieno).

In queste zone al bergamino/casaro, durante l’inverno, portavano le piccole quantità di latte prodotto anche i piccoli allevatori stanziali della pianura. In questo contesto (come nel Cremasco) si producevano per lo più stracchini quadri che necessitano di minori quantità di latte ed erano più facili da produrre. Dalle valli bergamasche i bergamini si dirigevano non solo nelle zone di pianura più vicine (la Gera d’Adda, l’alto Lodigiano, la pianura bresciana occidentale ma anche nel basso Lodigiano, nel Pavese, nel Milanese (Melegnanese, Martesana, Abbiatense), nel Cremonese, nel Novarese. I bergamini si dirigevano sino nel vercellese (nei primi secoli di transumanza anche nell’alessandrino e in Emilia) percorrendo a volte distanze di oltre duecento chilometri che collocano la transumanza dei bergamini tra le transumanze a pieno titolo “di lungo raggio”, accanto alle più famose transumanze ovine. Rimane in pagine di memorie e di letteratura e nella memoria di testimoni ancora viventi il vivo ricordo del passaggio delle carovane dei carri telonati dei bergamini, con il corteo delle vacche (aperto dalla batidüra, la vacca dominante, con la sua preziosa campana di fusione detta brunza de viacc’), le scrofe, uomini, donne, ragazzi, cani, qualche pecora. Uno spettacolo che dava l’impressione di un popolo nomade (quale in realtà in parte era quello dei bergamini), forte di una sua fiera diversità. Nelle diverse aree di svernamento i bergamini hanno “regalato” una tradizione di produzioni “tipiche” che sono instricabilmente e al tempo stesso patrimonio della pianura e della montagna, al tempo stesso milanesi, novaresi, cremasche e… bergamasche. Un patrimonio che è servito come piattaforma per la nascita e lo sviluppo dell’industria casearia lombarda. Novara, per molti versi legata alla Lombardia, è diventata il centro della fabbricazione dello stracchinino di Gorgonzola mentre la zona dell’Abbiatense (la Valle del Ticino) è diventata una culla (con tanto di sede del consorzio) del Quartirolo lombardo e il cremasco quella del Salva Cremasco. Va però sottolineato che nell’affermarsi del caseificio industriale, con l’uso della pastorizzazione, dei fermenti selezionati, della meccanizzazione, standardizzazione e automazione delle lavorazioni pur mantenendosi legati alla matrice della tradizione i diversi prodotti nati dal ceppo degli stracchini si sono inevitabilmente differenziati dagli “archetipi”. Un fatto evidente nel Gorgonzola che, a differenza dell’antico “stracchino di Gorgonzola” e dello Strachitunt (la cui produzione non è mai venuta meno a Vedeseta) non è più “a due paste”. Di qui il movimento innescato in anni recenti per valorizzare quelle produzioni di montagna (Strachitunt, Stracchino all’antica) che si sono mantenute in ambito artigianale. Un giusto riconoscimento per la montagna, che nel suo precario e contradditorio inserimento nella modernità sconta una serie di condizioni di svantaggio (non certo “naturale”) ma anche una strategia ntelligente di differenziazione e di sottolineatura di un patrimonio di storicità che possono avvantaggiare l’insieme della produzione casearia tipica.

Le origini medioevali (il Lodigiano/Parmigiano l’hanno inventato i bergamini?)

La “calata” dei montanari in pianura che si intensifica alla fine del Quattrocento e si consolida nei due secoli successivi non ha rappresentato un fenomeno improvviso. Abbiamo già ricordato che prima dell’affermazione della transumanza bovina (con il boom della produzione casearia) il malghese (definiti nei documenti ancora in latino malgarius) scendevano già da secoli in pianura per praticare un pascolo semibrado. Anche nell’alto medioevo la transumanza non era mai venuta meno anche se limitata al contesto dell’economia curtense (grandi aziende di signori laici o ecclesiastici con numerosi fonti sparsi sul territorio e tra loro complementari). Basata sugli ovini da latte la transumanza dell’alto medioevo comportava il trasferimento degli animali da un fondo all’altro dello stesso (grande) proprietario che poteva disporre di terreni lungo il Serio e l’Oglio e di alpeggi nella fascia prealpina. Con il XII-XIII secolo la transumanza coinvolse in prima persona (da imprenditori indipendenti) i montanari delle alte valli (prima escluse dalla transumanza). Nelle pianure utilizzavano con il pascolo le aste fluviali e gli ancora abbondanti incolti non coltivati perché non facili da bonificare. Il pagamento dei diritti di pascolo in pianura, così come in alpeggio, avveniva in parte in denaro in parte in natura (formaggio e agnelli). Per il ricovero dei pastori e degli animali erano utilizzate capanne, tettoie, recinti di legno non meno rudimentali di quelle d’alpeggio. Nei siti dove sorgevano queste tettoie (“tezze”) sorgeranno spesso nei secoli seguenti le cascine in muratura. Gli attrezzi e le tecniche del caseificio erano, e resteranno per secoli (anche quando verranno costruiti i casoni aziendali in muratrna nell’ambito delle cascine), le stesse utilizzate in montagna. Per questo è lecito affermare che le tipologie dei formaggi d’alpeggio, trasferite con la transumanza in pianura, costituiscono la base delle tradizioni casearie lombarde. Anche del “Grana”. Detto anticamente Piacentino o Lodigiano, ma anche Milanese (oltre che Parmigiano). venne citato dal Boccaccio nel Decamerone, ed era quindi già affermato nel XIV secolo quando il formaggio dei malghesi era, in generale, ancora in prevalenza ovino (ma sappiamo che erano capaci di produrre burro e di lavorare il latte bovino e che taluni si erano già specializzati nell’allevamento bovino).

La nascita del “Grana” si fa ascrivere allo sviluppo delle prime aree irrigue nella fascia delle risorgive in Lombardia e in Emilia in concomitanza con le bonifiche degli ordini monastici. Si citano i monaci cistercensi e le loro pionieristiche sistemazioni idrauliche (“marcite”), la presenza di vacarie presso le grange (i centri delle aziende agricole monastiche) e ci si rifà ad una ben documentata tradizione di “formaggi monastici”. Ma, a quei tempi, nella bassa Lombardia (e in Emilia) chi poteva gestire l’allevamento dei bovini da latte e il caseificio erano i malghesi che, come abbiamo visto, dal Trecento (e probabilmente anche prima) hanno iniziato a gestire mandrie di vacche da latte sia pure ancora alimentate al pascolo e, in molti casi, risalendo ancora in estate nelle valli di origine. Il “Grana”, però, è molto simile – guarda caso – ad un formaggio svizzero prodotto sugli alpeggi della regione di Brienz molto noto anche in Italia (lo Sbrinz) da cui per secoli è affluito sul mercato milanese attraverso i passi alpini.

È quindi difficile sostenere, aggrappandosi ad un origine monastica un po’ mitica, che non sia in qualche modo legato a competenze allevatoriali e casearie di origine montanara. Prima dello sviluppo dell’irrigazione la pianura sfruttava i bovini solo quali animali da lavoro nell’ambito dell’economia cerealicola, rigidamente divisa da quella pastorale dei transumanti e dipendeva dalla montagna per la fornitura degli animali. Il “Grana” è probabilmente nato come innovazione (stimolata dalla disponibilità di maggiori quantità di latte) di una tipologia di formaggio già prodotta in alpeggio è nato in pianura, ma chi lo produceva – almeno inizialmente – era figlio della montagna all’alpeggio. Nella Summa lacticinorum di Pantaleone da Confienza (pubblicata a Torino nel 1477) l’autore, a proposito del “formaggio piacentino” (de caseo placentino) riferisce di aver interrogato i “malghesi” (margarios) circa il nesso tra la bontà del formaggio e quella dei pascoli osservando come lungo le riviere del Po vi fossero pascoli “speciali per il latte” sia per quantità che qualità dell’erba. Prima di lui il poeta Antonio Beccadelli (1394-1471) aveva composto in latino una Elogia de caseo che si riferisce al Piecentino e prende avvio tra i pascoli delle anse del Po bramati da mille bovini ma frequentati anche da capre e pecore e dalle caratteristiche di incolto ricco di vegetazione spontanea. Di “malghesi piacentini” parla Teofilo Folengo nelle sue Maccaronee del 1517 e un riferimento ancora più preciso si trova nell’opera agronomica di Agostino Gallo che nelle sue Giornate di agricoltura edite per la prima volta a Brescia nel 1564 nel dialogo tra un “malghese” valligiano e un nobile proprietario bresciano della pianura (che ospitava i malghesi in inverno sui suoi fondi. Nel dialogo si discetta delle differenti caratteristiche dei formaggi “bresciani” (da identificare con il Bagoss) rispetto a quelli “piacentini” e “lodigiani”. Il malghese sostiene la superiorità del formaggio bresciano, che dalla descrizione corrisponde al bagoss che si distingue dal piacentino e lodigiano per lo scalzo più basso (il piacentino e il lodigiano erano alti “un palmo”) e che quindi può essere salato in modo più uniforme. Ne vanta l’esportazione a Roma, Venezia e Allemagna dove sarebbero stati più apprezzati dei concorrenti. Vale la pena di osservare che non più il là degli anni Sessanta del secolo scorso il Parmigiano-Reggiano era ben diverso dagli attuale P.R. e Grana Padano. La forma era unto di olio di lino che ossidandosi conferiva alla crosta la clorazione nera (come il Bagoss attuale). La pasta era gialla in quanto sia nel Parmigiano che nel Lodigiano si usava lo zafferano (come tutt’oggi nel Bagoss), lo scalzo era non solo molto più basso ma quasi diritto e di certo non bombato come oggi. Infine, circostanza sottolineata in particolare a riguardo del Lodigiano (del Novecento, non del Trecento), la pasta era occhiata e caratterizzata dalla mitica “lacrima”. Per secoli il “Grana” è stato qualcosa di diverso dall’attuale avvicinandosi più ad altri formaggi che a quello che è divenuto da poco più di mezzo secolo a questa parte. Bergamo sinonimo di latte e formaggi

Quanto alla somiglianza tra “Grana” e Formaggio di monte bergamasco pare utile riportare quanto il Cornalba, un ricercatore del Regio Istituto di caseificio di Lodi (che di “Grana” se ne doveva intendere) scriveva nel 1904 sul formaggio d’alpe (semigrasso) della Val Seriana.

La forma ricorda quella del grana, meno alto di scalzo; giovane si mangia come companatico, ma invecchiando diventa molto duro, specialmente e la crosta la massa interna diventa molto forte e piccante e serve piuttosto come condimento.

Al di là della verosimile derivazione del “Grana” dai formaggi d’alpeggio semigrassi ci interessa in ogni caso evidenziare come il malghese di Agostino Gallo, che produce il formaggio “bresciano” (Bagoss) sia un transumante e che nel dialogo i produttori del Lodigiano e del Parmigiano sono indicati come colleghi. Ma è passando alla stessa Emilia che le tracce degli allevatori-casari bergamaschi sono tali da far ritenere che proprio a loro (fatto salvo il ruolo dei monasteri quali promotori di innovazione agraria) si debba la nascita del Parmigiano. Gli statuti trecenteschi del comune di Parma (Statuta communis Parmae ab anni 1347) parlano di malgarius forensis:

De securitate praestanda a malgariis forensibus. Quilibet malgarius forensis volens tenere pecudes vel alias bestias grossas et minutas in episcopatu Parmae debeat dare securitatem [delle garanzie che devono essere fornite dai malghesi foranei. Qualunque malghese forense che che intende mantenere pecore o altro bestiame grosso e minuto nell’episcopato di Parma deve fornire garanzie].

Ma non potrebbero essere malghesi di altre origini? Perché bergamaschi? Su questo punto ci assiste la linguistica. L’associazione tra allevamento bovino da latte, i malghesi, le valli bergamasche ha portato non solo in area lombarda ma anche emiliana e piemontese a identificare i “bergamini” con i malghesi (o con i capi-stalla e i mungitori) e le bergamine (con le vacche da latte o la mandria di vacche da latte). Il nesso tra Bergamo, le vacche, il latte, i formaggi appare formidabile, tanto più che gli viene riconosciuto dagli altri. Forse quelli meno consapevoli di questa vocazione sono gli stessi bergamaschi. L’influenza dei transumanti delle valli bergamasche è arrivata, come ricordato, sino a Vercelli. E qui, nella cascina tradizionale precedente la monocoltura risicola, la casa del capo stalla era (ed è) chiamata “Casa del bergamino”. A Modena, in terra di Parmigiano Reggiano, nel dialetto locale bergamina equivale a vacca da latte. “Nel Contado nostro si evita per istudio questo nome [vacca] sostituendovi gli appellativi di Bacina o Vaccina o Bergamina” (conte Giovanni Galvani Studi su un glossario modenese, 1868). Va anche ricordato che, ancora nella seconda metà del Novecento, i malghesi dell’alta Val Trompia scendevano sino nel territorio reggiano. Il rapporto tra bergamì e “Grana” è indubbiamente stato meno stretto nel corso della storia successiva rispetto a quello “genetico” che li legana alla “civiltà degli stracchini”. Va però detto che la maggior parte del “Grana” prodotto nei secoli successivi in tutta la bassa pianura lombarda era opera di bergamini, di laté e di casari dipendenti di origine bergamina. Però, nonostante l’importanza che questo prodotto ha assunto per l’economia casearia è bene sottolineare che la produzione di “Grana” rimase a lungo a livello artigianale nell’ambito di un’economia non particolarmente dinamica di cui erano protagonisti gli affittuari conduttori delle cascine e degli annessi “casoni” e i commercianti. Mentre questa “economia del Grana” in cui il ruolo principale era sostenuto da figure “di pianura” per lungo tempo – dalla metà dell’Ottocento in avanti – andò interrogandosi sulle possibilità di modernizzazione, i bergamini o quantomeno delle figure provenienti dall’ambiente bergamino negli anni Ottanta dell’Ottocento si fecero protagoniste di un decollo di una nuova industria cesearia che fece leva sull’affermazione sul mercato internazionale dello “stracchino di Gorgonzola” e poi su prodotti molli “di lusso” che operavano delle ardite innovazioni (affinamento, confezionamento, marketing) ma innestandosi sul solco della “civiltà degli stracchini”.

In questa prima fase le nuove aziende operavano quesiesclusivamente sul piano della stagionatura facendo incetta di prodotti forniti dai bergamini (sia confezionati in pianura che in alpeggio). Grazie agli stracchini (riproposti nelle forme di robiole “firmate”, di “Certose” l’industria casearia lombarda – che tentò anche le carte dell’imitazione dei formaggi svizzeri e del burro – potè fare quel salto decisivo (tecnologico e organizzativo) che portò – attraverso lo spostamento dall’attività di stagionatura a quella di produzione – alla creazione dei primi veri e propri stabilimenti industriali (tra Melzo, Caravaggio, Pavia) e quindie le aziende di matrice bergamina assurgere all’importanza di primarie aziende nazionali.

L’alpeggio cambia

I bergamini non hanno contribuito solo a trasformare l’agricoltura della Bassa Lombardia imprimendole l’indirizzo zootecnico che tutt’ora la caratterizza. Hanno anche trasformato profondamente l’economia dell’alpeggio che se, da una parte, è antichissima, dall’altra ha seguito l’evoluzione sociale, politica e economica delle diverse epoche. Nessun errore è più grave con riguardo alla comprensione della realtà sociale, culturale ed economcia della montagna e dell’alpeggio che considerare economie totalmente determinate dalle condizioni ambientali, economie “naturali”, perennemente uguali a sé stesse. Nel Cinquecento e nel Seicento la transumanza dei bergamini si consolidò e si allargarono gradualmente le aree della Bassa interessate all’irrigazione che si estesero al Lodigiano non ancora irriguo e ad ampie zone del Milanese.

Con le crescenti possibilità di svernamento (in forza della maggiore produzione di fieno) il patrimonio bovino della montagna tese ad aumentare e, di pari passo, lo sfruttamento dei pascoli si fece più intensivo. I pastori ovini, privi di alpeggi in patria dovettero cercare pascoli in Trentino, Svizzera, alta Valtellina, Valsesia e sino sulle Alpi marittime al confine con la Francia). Si moltipicarono contemporaneamente le contese sui diritti d’uso dei pascoli (e di transito del bestiame). Esse coinvolgevano anche i comuni e sorsero anche liti tra bergamaschi e valtellinesi (sia privati che comunità) per i diritti dei pascoli orobici. Dal XVI-XVII secolo la crescente importanza commerciale dell’alpeggio determinerà, laddove le alpi venivano cedute in affitto ai bergamini, la lievitazione dei canoni d’affitto ma anche una crescente attenzione da parte dei proprietari (più spesso i comuni) alle condizioni dei fabbricati, specie di quelli adibiti alla lavorazione del latte. Per attirare ricchi bergamini, in grado di corrispondere elevati canoni di affitto, alla realizzazione di nuove cascine in muratura dotate di spazi per poter adeguatamente operare la lavorazione del latte e la stagionatura del forrmaggio. In val Taleggio in un documento che fa riferimento alla situazione all’inizio del XVII riporta che “anticamente” i pascoli: “non si affittavano a Bergamini non ancora usati in quella Zona, perchè ogni particolare riceveva il contingente del Monte alla sua quota di Bestie, che aveva, ò alla rata de’ beni divisi, pe’ quali sosteneva il Regio Carico”. Nel corso dei secoli i bergamini assunsero un vero e proprio monopolio degli alpeggi quasi ovunque nelle valli bergamasche, ma anche in Valsassina, nelle alte val Trompia e Caffaro. Va tenuto presente che intorno all’alpeggio ruotava l’economia e la vita sociale locale. La maggior parte delle entrate dei comuni sino all’inizio del Novecento provenivano ancora dagli affitti dei pascoli e dalla tassa bestiame (più elevata se le bestie erano “forestiere”). Questa dipendenza dai bergamini faveva si che essi avessero un forte peso nelle scelte del comune anche se erano assenti per la maggior parte dell’anno (tanto da indire le riunioni pubbliche importanti solo durarante la stagione d’alpeggio).

L’affermazione generalizzata della transumanza nella fascia prealpina lombarda provocò una polarizzazione tra transumanti (allevatori e casari a tempo pieno con decine di vacche da latte) e i “casalini”, i contadini-allevatori locali che si dovettero accontentare di mantenere uno o pochissimi capi bovini e qualche capo ovicaprino (laddove le leggi o la tolleranza sul loro rispetto lo consentivano). Una situazione che si acutizzò con l’aumento della popolazione e la forte pressione sulle risorse pascolive nel tardo Ottocento determinando un’aspra conflittualità sociale. Solo dopo la prima guerra mondiale, con la fissazione in pianura di parecchi bergamini (che colsero le opportunità di acquistare o affittare fondi in pianura) questa forte tensione si allentò. In alcune realtà (val Taleggio) i “casalini” approfittarono della minore domanda di pascoli dei bergamini e poterono aumentare il numero di bestiame allevato (tanto da dovere, in non pochi casi intraprendere a loro volta la transumanza non disponendo di scorte di foraggio sufficienti per l’inverno. In altre realtà dove l’unica forma possibile di allevamento era quella transumante (come in alta val Brembana, specie nei centri a quote più elevate, che arrivano con Foppolo a 1500 m). Il Maironi da Ponte nella sue famose Osservazioni sul dipartimento del Serio (1813) metteva in rilievo come:

[…] la emigrazione che ogn’anno succede delle nostre mandrie e greggi che passano a consumare i fieni durante l’inverno o ne’ vicini Dipartimenti o in estero Stato non ritornandone a consumar quelli della patria ed a pascolare i nostri monti che nella corta estiva stagione. Ad uso di pastoragio sonovi alcune montagne particolarmente nelle Valli di scalve Bondione Seriana superiore e d’Oltrelagocchia le quali per la troppa alpestre e fredda situazione non sono atte a dar fieno da taglio ma servono nel tempo suddetto a nudrire le mandrie e le greggi.

Analoghe considerazioni svolsero trentacinque anni più tardi i funzionari del Regno Lombardo-Veneto incaricati della redazione del nuovo catasto (anni Trenta dell’Ottocento). A proposito di queste località si osservava, da parte dei relatori delle note preliminari descrittive delle diverse località che: “per la troppa alpestre e fredda situazione non sono atte a dar fieno da taglio ma servono nel tempo suddetto a nudrire le mandrie e le greggi” e ancora:

Questo paese è abitato da Malghesi, cioè Bergamini nel tempo d’estate, per tre mesi dell’anno, nelli altri mesi dell’anno conducono le loro Mandre, alla pianura per altri Nove Mesi dell’anno come si è detto nella pianura di Lodi e di Milano per mantenere le loro Mandrie in discorso, e non si trattiene persona in questo paese cioè negli altri mesi, come si è detto, giacchè tutti si dedicano a questo ramo d’industria. Bergamini nella bassa pianura bergamasca.

Utilizzati sin dalle prime transumanze del XII secolo i pascoli e i prati-pascoli della Gera d’Adda furono sfruttati a lungo attraverso la concessione dell’erbatico ai “protobergamini”. Casirate sfruttò la propria posizione, sul passaggio della via bergaminia Bergamo-Lodi, per far rendere più possibile i propri pascoli. Il loro diritto d’uso, fino agli anni Trenta del XVI secolo, era concesso a malgari forestieri, per lo più d’origine bergamasca, dall’annunciazione alla festa di San Martino. In seguito la gestione dei pascoli fu appannaggio di un gruppo di malgari locali, che tuttavia erano membri delle famiglie che avevano affittati beni nei decenni precedenti, stabilitisi nel tempo a Casirate. Punto di riferimento per i bergamini della zona restò a lungo il mercato di Rivolta sul quale Cesare Beccaria scrisse che, al mercoledì“concorrono diversi bergamini con ceste di stracchini”. Da Rivolta gli stracchini erborinati erano trasferiti verso il centro della Martesana dove diventavano con la stagionatura (in passato molto più lunga che al presente) “di Gorgonzola”. Ciò mette in evidenza come dal territorio bergamasco i formaggi venivano esportati non solo a Rovato o verso la Valsassina ma anche verso il Milanese definendo il paradosso di un bergamasco “terra di formaggi”… carente di formaggi come Maironi da Ponte lamentava nelle sue Osservazioni. Egli, però, non teneva conto di questo fenomeno di esportazione di formaggio e attribuiva il deficit caseario bergamasco allo svernamento dei bergamini fuori dei confini del territorio. In realtà un certo numero di bergamini svernava anche nella bassa pianura bergamasca ma questa zona, sino a pochissimi anni prima, non era ancora parte del territorio bergamasco (e forse il da Ponte non ne tenne in debito conto). La Gera d’Adda, infatti, entrò a far parte del Dipartimento del Serio (e poi nella provincia di Bergamo) solo nel 1798 dopo essere stata parte dello Ducato di Milano e, per secoli, tipica terra di confine e di contrabbando. Fece quindi parte dell’effimero Dipartimento dell’Adda che durò in vita meno di due anni. Poi restò unita a Bergamo.

La Gera si estende tra l’Adda e il Serio ed è delimitata a Nord dal “Fosso bergamasco”, comprende tutta la zona a Nord-ovest di Crema (con Rivolta d’Adda, Pandino, Dovera, Agnadello, Vailate, Dovera) e, nella bergamasca, Treviglio, Caravaggio, Fornovo S.Giovanni, Mozzanica, Fara Gera d’Adda, Calvenzano, Misano, Arzago, Casirate). Ovvero le aree della provincia di Bergamo dove si concentra attualmente la produzione di latte. In passato essa era già vocata alla produzione di latte in quanto attraversata dalla linea delle risorgive e quindi con una porzione del territorio irrigua che consentiva un’ottima produzione foraggera (ancora a Novecento inoltrato si osservavano le più alte densità di bovini di tutta la Lombardia). La Gera, però, era favorita dalla presenza del confine. Essa favoriva la produzione casearia in quanto il sale era meno tassato nei domini veneti e quindi i casari della Gera milanese (il Trevigliese) approfittavano abbondantemente del contrabbando im barba alle ripetute e dettagliate grida emesse a Milano. La Gera rappresentò anche un’area cruciale per il fenomeno dei bergamini anche grazie alla sua posizione di crocevia sulle rotte della transumanza provenienti dalle vicine valli bergamasche (ma anche dalla Valle Camonica). La zona si trova sulla “via bergamina” (ex SS 472) che ancora oggi e chiamata in questo modo. La “bergamina’” tocca i centri di Casirate d’Adda, Arzago d’Adda, entra in provincia di Cremona, sfiora Agnadello e attraversa Pandino e Dovera. Entrata nel Lodigiano, la strada arriva in pochi km a Lodi. Località particolarmente frequentata dai transumanti era Caravaggio con i prati che si stendevano nei pressi del santuario e dove i bergamini sostavano diversi giorni (in autunno quando l’ultimo taglio di fieno viene normalmente utilizzato con il pascolo concesso gratuitamente per antica consuetudine). Questa importante tappa (durante la quale i bergamini avevano modo di sviluppare reciproche relazioni (affari ma anche accordi matrimoniali) precedeva l’ultima patte del tragitto verso le destinazioni più a Sud.

Così come accadeva a Gorgonzola, nei cui pressi avveniva la sosta delle carovane dei bergamini, anche a Caravaggio in autunno si verificava la disponibilità di grandi (ovviamente in relazione all’epoca) quantità di latte e di formaggi freschi. Viò ha stimolato la nascita di attività artigianali di caseificio legate al ciclo stagionale. Un ciclo che, peraltro, era obbligato dal momento che la produzione degli stracchini nel periodo estivo era ostacolata dal caldo mentre da novembre il freddo ostacolava la caseificazione rendendo difficile lo spurgo del siero (il bergamino riusciva invece a produrre anche in inverno sfruttando il calore delle stalle). Questi condizionamenti influirono pesantemente sull’attività di caseificio sino alla diffusione dell’uso delle celle frigorifere. Ma quando ciò accadde le aree cruciali per lo sviluppo del moderno caseificio erano già “decollate” grazie alla presenza di competenze e di reti commerciali già consolidate e seppero mantenere il loro ruolo anche per tutta la fase storica dello sviluppo industriale del caseificio che ebbe i suoi fulcri a Melzo e nel Trevigliese. La presenza dei bergamini nella Gera d’Adda era ancora molto forte negli ultimi decenni dell’Ottocento e diminuì solo gradualmente nel Novecento. Nella porzione bergamasca della Gera d’Adda i bergamini in inverno, ancora nel 1840, raccoglievano il latte dei vari ‘particolari’ (titolari di contratti di mezzadria). Va da sé che in estate – in assenza dei bergamini – il latte poteva essere utilizzato solo per il consumo alimentare, per ingrassare qualche vitello o per la confezione di qualche formaggetta ad uso domestico. In un’inchiesta amministrativa Lombardo-Veneta degli anni Quaranta dell’Ottocento si notava a proposito della Gera che:

Il formaggio viene fabbricato in ogni comune col latte delle vacche di vari particolari che lo portano giornalmente al Malghese stabilito nel rispettivo comune, dal quale si tiene conto del latte consegnato da ciascun individuo sino alla concorrenza di quella quantità che basti ad allestire una o più forme di formaggio per conto dell’individuo stesso.

La fine dell’epopea bergamina e i nuovi germogli

La produzione casearia bergamasca, ancora a fine Ottocento, era in larghissima misura realizzata dai bergamini in alpeggio. Quando, dopo la prima guerra mondiale, si ebbe la prima ondata di “fissazione” dei bergamini essa determinò dei “vuoti” non facilmente colmabili. Invertendo una tendenza secolare, che aveva visto i malghesi del versante bergamasco utilizzare pascoli sul versante valtellinese, numerosi caricatori d’alpe delle valli orobiche valtellinesi colsero l’occasione e presero in affitto pascoli in alta val Brembana (avviando una consuetudine che permane ancora oggi). La produzione di formaggi della montagna bergamasca conobbe, però, un declino solo in parte compensato dall’attività invernale delle Latterie sociali e turnarie che da poche unità alla fine dell’Ottocento raggiunsero il numero di una cinquantina alla fine degli anni Venti del Novecento per poi declinare. I lasciti della cultura bergamina non tardarono però a rigermogliare anche in montagna. Nel dopoguerra sorsero nuove latterie sociali tutt’ora attive (spesso caratterizzate da un marcato dinamismo) mentre la grande esperienza accumulata da generazioni di allevatori-casari, usi alla spola tra pianura e montagna e profondi conoscitori del latte e della sua manipolazione, ha favorito sia in ambito montano (specie in Val Taleggio nella frazione Pegherra) che in area pedemontana il fiorire di attività di stagionatura che, insieme alle aziende della pianura irrigua e il nuovo smalto della produzione di alpeggio definisce la complessa ma ricca struttura del settorie caseario bergamasco. Tutto in qualche modo tributario della civiltà dei bergamini.

Exit mobile version