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Pecora bergamasca e transumanza: note di storia

Antichità

L’allevamento ovino assunse notevole rilevanza economica sin dall’antichità, alimentando attività artigianali di trasformazione e commerci che andavano ben oltre il significato dell’allevamento per la produzione domestica di cibo (latte e carne) e vestiario (lana e pelli). Il commercio a lunga distanza stimolò la selezione (e la diffusione verso aree distanti) di tipi ovini con lana uniformemente bianca e con caratteristiche di finezza tali da favorirne la filatura e la realizzazione di tessuti pregiati (caldi e leggeri). Nell’Italia padana, sin da epoca preromana, emergono centri lanieri come Padova che conserveranno a lungo una notevole importanza. Non a caso, in area veneta, oltre a razze legate alla transumanza (oggi sostituite, attraverso un lento processo di incrocio nel secolo scorso, con la “gigante bergamasca”) esisteva una razza, la “padovana” a lana fine e adatta all’allevamento stanziale in pianura, che si è estinta nella seconda metà del XX secolo. Nel caso del Veneto, in epoca romana, è accertata la presenza di “vie armentarie” che collegavano la pianura all’altopiano di Asiago e ai pascoli del bellunese. A differenza della Lombardia, in Veneto, sino al 1765 (anno della loro soppressione) la transumanza regolata da norme giuridiche che metteva a disposizione delle greggi un sistema di “poste” (aree di pascolo in pianura) collocate lungo le rotte di transumanza. I titolari del diritto di pascolo erano soggetti diversi dai proprietari dei fondi e affittavano il diritto ai pastori. In Lombardia, dove la transumanza è sempre stata esercitata in assenza di istituzionalizzazione, ovvero di “tratturi” e “poste”1, elementi in grado di lasciare delle tracce di sé (iscrizioni, documenti legali), non abbiamo prove che fosse praticata in epoca romana. La presenza di grandi proprietà latifondistiche (e imperiali), che comprendevano fondi in pianura e in montagna, la rende però plausibile considerando anche l’efficiente rete viaria e la sicurezza garantita ai traffici per diversi secoli. Nel territorio dell’attuale provincia di Brescia, nei primi secoli dell’era cristiana sono numerosi i rinvenimenti di forbici da tosatura, con maggior frequenza in Valcamonica e nell’area di pianura tra il Mella e il Chiese il che potrebbe lasciar supporre che, come in epoche successive, anche in età antica fosse praticata una transumanza tra la grande valle alpina e la bassa bresciana.

Alto medioevo

Il monastero di fondazione longobarda di San Salvatore a Brescia. Inglobato nel complesso di Santa Giulia

In epoca longobarda il famoso testamento di Taido (774) mette in evidenza come il gasindo fosse proprietario di vasti terreni a pascolo sul Brembo e sull’Adda legati ad attività di allevamento verosimilmente transumanti, fatto che risulterebbe avvalorato dal possesso, da parte del medesimo personaggio, di proprietà in zona prealpina. Un secolo dopo, il “polittico di Santa” Giulia (un insieme di documenti relativi alle immense proprietà del potente monastero di San Salvatore a Brescia), come messo in evidenza da Angelo Baronio (1999) fornisce prove di una transumanza tra i pascoli di Clusone e della bassa val Camonica e quelli lungo l’asta dell’Oglio e sino al Po, attraverso “tappe” costituite da altrettante curtes (le grandi aziende) di proprietà del monastero.

Dopo il 1000

Notizie certe sulla presenza di una transumanza ovina, sia pure a corto raggio, si hanno a partire dall’inizio dell’XI secolo (Menan, 1993). La transumanza avveniva tra gli alpeggi in Valcamonica e in Valtrompia e le aree di pascolo in pianura dei monasteri di Sant’Eufemia e dei SS. Faustino e Giovita a Brescia. Anche potenti famiglie bergamasche con possedimenti sia in pianura che sugli alpeggi esercitavano a quel tempo una transumanza a medio raggio. Furono, però, i monasteri bergamaschi a praticare in modo sistematico la transumanza. Essa vide protagonisti, alla fine dell’XI secolo quelli di Pontida, Fontanelle, Altino, Vallalta, San Paolo d’Argon. L’allevamento ovino transumante rappresentava, nel contesto del boom economico successivo all’anno 1000, attività innovativa e trainante. Era reso possibile dalla grande estensione di incolti che ancora esistevano nella fascia collinare e di alta pianura. Il monastero più implicato nella transumanza fu quello di SanGiacomo di Pontida che possedeva pascoli in alta valle Imagna e, in pianura, sul Serio, sull’Adda e sull’Oglio. Lo svernamento delle greggi monastiche non si spingeva più a Sud della vasta “campagna” di Orzinuovi (terreni ghiaiosi non coltivati) che resterà, sino alle bonifiche della seconda metà del XIX secolo, un’area privilegiata per la transumanza ovina. Sia pure meno estese analoghe aree incolte, a boschi e pascoli soppraviveranno anche lungo il Brembo (“brughiera di Osio”) e gli altri fiumi. A fianco della transumanza monastica a medio raggio esisteva anche una transumanza a breve raggio che vedeva villaggi di alta pianura e delle prime pendici prealpine spostare le greggi del villaggio verso la montagna (es. Monte Bronzone) in estate e verso le aree incolte dalla pianura in inverno.

XII-XIV secolo

Le celeberrime miniature del Theatrum/Tacuinum sanitatis (XIV sec.) illustrano ovini dal profilo fronto-nasale convesso e dal padiglione auricolare lungo e pendulo: è la pecora bergamasca. Altra caratteristica determinante: il vello uniformemente bianco: carattere moderno (anche se presente in ceppi ovini sin dall’antichità) che la distingue dalle altre razze alpine che conservano, almeno a livello della testa e degli arti, pigmentazioni più o meno estese .

Dalla metà del XII secolo tutto cambia e la pastorizia bergamasco-camuna entra in una fase di grande sviluppo. La transumanza estende il suo raggio e arriva al Po (e oltre) perché gli incolti nella fascia pedemontana e di alta pianura diventano ormai scarsi. Aumenta anche la consistenza delle greggi (che possono superare i 1000 capi). Questa evoluzione risulta in parallelo con il decollo dell’industria laniera c he vede (fine XII secolo) moltiplicarsi i mulini a follone (fase importante del finissaggio dei pannilana che richiedea la disponibilità dell’energia idraulica). Ai monasteri subentrano intraprendenti personaggi delle valli. Va precisato che questi “malghesi” (ovvero proprietari di “malghe”, consistenti gruppi di animali da latte, soprattutto ovini, ma anche caprini e bovini), come parecchi proprietari di greggi ancora oggi, erano più operatori commerciali (e finanziari) che “pecorai” impegnati a condurre le greggi2. Lungo il percorso della transumanza, sfruttando anche le relazioni con ex-transumanti che si erano stanzializzati, i malghesi stipulavano contratti di diverso tipo. Intorno alla transumanza fioriva infatti un’economia dinamica: prestiti, soccide (affitto di bestiame), affitto di pascoli, vendita di bestiame pelli, lana, pannilana, formaggio. Attività artigianali e allevamento transumante erano strettamente intrecciati e grazie alle loro abilità commerciali i montanari che le controllavano, non pochi finirono per stanziarsi nelle città (Brescia, Crema, Verona) da dove continuavano a controllare i vari aspetti dell’economia della transumanza. La transumanza seguiva le aste dei fiumi ai cui lati esistevano ampie fasce ghiaiose incolte. Tutto lascia supporre che il tipo della pecora “gigante bergamasca” si sia sviluppato all’epoca dello sviluppo della transumanza a lungo raggio (XII secolo). Essa comportava la presenza, nelle aree di svernamento invernali, di greggi che ivi confluivano dalle diverse valli. A questa prima stabilizzazione di un tipo di pecora adatto alla transumanza (in relazione alla taglia, alla robustezza e alla conformazione “sgambata” da camminatrice) ma al tempo stesso caratterizzata da abbondante produzione di lana “grossa” ma uniformemente bianca. Tale carattere differenzia la bergamsca dalle “razze alpine primitive” che, tutt’oggi, sia pur ridotte a reliquie, sono caratterizzata dal vello pigmentato. Adatte per la produzione casalinga di articoli in lana “naturalmente colorata” le lane pigmentate mal si prestano alla tintura e quindi alla produzione commerciale. La lana della pecora bergamasca era adatta alla produzione di un panno alla portata di strati popolari che, pur non potendo permettersi il panno di lana fine (di importazione) disponevano di un certo reddito.

A Nord di Orzinuovi, in sponda sinistra Oglio, ancora a metà XIX sec. vi erano estesi boschi e incolti (mappa militare asburgica)

Le grandi aree incolte della media pianura lombarda, strategiche per la transumanza, si ridussero anch’esse nel corso dei secoli (sia pure molto più lentamente di quelle delle fascia di pianura alta e collinare). Però, ancora alla fine del XVI sec., la comunità di Soncino, in controtendenza rispetto ai “bandi delle pecore” che, già alla fine del secolo precedente, erano stati emanati per difendere un’agricoltura che si faceva più intensiva, chiedeva che venissero concesse licenze di pascolo ai pastori perché in questa zona, come in quella di Orzinuovi, a Est dell’Oglio, esistevano ancora pascoli asciutti e sassosi, zone umide, boschi. Essi sopravviveranno sino all’Ottocento.

Nel medioevo la transumanza era facilitata dalla presenza di ampi pascoli incolti, non falciabili, sia nella media che nella bassa pianura. Erano di pertinenza di grandi proprietari che li affittavano ai pastori non essendo possibile altra utilizzazione (oltre alla caccia e alla pesca). In queste aree era necessario trasferirsi a febbraio quando i campi erano banditi dal pascolo. Grandi pascoli esistevano lungo il basso corso dell’Adda e lungo quello del Po dove esistevano boschi e dove i fiumi, cambiando il loro corso, lasciavano vasti terreni che si inerbivano spontaneamente. In questi contesti i pecorai realizzavano capanne di rami intrecciati coperte di paglia e semplici recinti per gli animali. Qui le attività di caseificazione erano attuate con le stesse modalità e le attrezzature degli alpeggi. Il formaggio ovino, duro e stagionato, realizzato su questi pascoli della bassa pianura era trasportato poi, lungo il Po, sino a Venezia. Anche se, durante il XV secolo avviene (non solo in Lombardia, ma su buona parte dell’arco alpino – a Nord come a Sud – una graduale sostituzione delle pecore con le vacche da latte), la produzione di formaggi pecorini prosegue almeno sino al XVI secolo3.

XV-XVII secolo

L’aumento del bestiame bovino da latte tra medioevo ed età moderna determinò la differenziazione dei bergamini dai “malghesi” medievali. I bergamini erano allevatori di vacche da latte4 spinti ad abbandonare le pecore dalla crescente disponibilità di fieno. Dove i terreni potevano essere irrigati (il canale della Muzza che deriva l’acqua dell’Adda a Trezzo è stato scavato nel XIII secolo) si avviò con gradualità una trasformazione profonda dell’agricoltura della bassa pianura. Al posto dei grandi pascoli dati in affitto ai malghesi e delle unità poderali dei “massari” (mezzadri) dediti alla cerealicoltura (che, con la scarsità di concime animale e non inserita nella rotazione, aveva rese bassissime), sorsero le moderne cascine, dotate di stalle, fienili, casa del bergamino e, dalla metà del XVI sec. anche di veri e propri caseifici aziendali. Per l’allevamento ovino la conseguenza non fu solo la perdita di pascoli invernali, ma anche di quelli d’alpeggio. I bergamini, infatti,continuano, di regola, a risalire in montagna in estate. Ai pastori restavano le fasce più elevate degli alpeggi, quelle più dirupate, sassose, con erba corta. A meno di… ampliare il raggio della transumanza. Così i pastori bergamasco-camuni presero a dirigersi, in estate, verso le alpi piemontesi (non solo quelle a Nord che erano ancora parte dello stato di Milano, ma anche quelle a Sud-Ovest della provincia di Cuneo), verso la Valtellina (dominio grigione dal 1512), verso il Tirolo, verso la Svizzera. In inverno si dirigevano verso le aree di pianura e collinari del Piemonte e dell’Emilia. La presenza dei pastori bergamaschi in altre regioni dell’arco alpino ha determinato lo sviluppo di razze derivate: la biellese, la tirolese, la razza di Saas del Vallese, influenzandone anche altre (la carinziana kartner brillenschaft, analoga alla tingola trentina), la slovena sokavsko-jerzersta, l’appenninica). Un’area che ha giocato il ruolo di un vero e proprio crogiolo di fusione delle razze ovine transumanti è stato il mantovano. Nelle praterie mantovane confluivano, oltre ai pastori bresciani, quelli trentino-tirolesi, veneti (veronesi, vicentini, bellunesi) e persino friulani.

La necessità di ampliare il raggio di transumanza dipese dal fatto che la domanda di lana (ovviamente legata agli sbocchi del prodotto trasformato principe: il panno) restò elevata e continuò ad aumentare sino al XVII secolo. Un fatto da mettere in relazione con le caratteristiche della lana bergamasca. La sua domanda – data la destinazione del prodotto per il mercato locale popolare – non risentì della sostituzione, che avvenne sin dal XIII secolo nei principali centri lanieri cittadini ( partire da Milano), delle lane nostrane con quelle “fini” (pugliesi, spagnole, tedesche, inglesi). Non risentì neppure della crisi che colpì pesantemente i centri lanieri nel XVI secolo per via della sempre più agguerrita concorrenza estera. E’ significativo che, in quel secolo, i lanieri bresciani (tra i quali non pochi di origine bergamasca) cessano la produzione di panno e si dedicano alla commercializzazione di quello bergamasco. La domanda di lana nostrana resiste nell’ambito della manifattura rurale ma anche di centri come Gandino, in val Seriana, che si mantenne a lungo come centro laniero conoscendo anche momenti di ripresa ancora nel XIX secolo, prima con le commesse militari napoleoniche poi introducendo la meccanizzazione e la differenziazione di prodotto: da panno a coperte di lana (si ricordano ancora i famosi cuertì di Leffe che attuavano una forma di filiera corta ante-litteram attraverso la vendita ambulante).

La maestosa, internamente ricca di opere d’arte e decorazioni, basilica di Gandino

Punto di forza di Gandino, come del resto di Biella e di Valdagno, i centri lanieri del Piemonte e del Veneto, era la disponibilità della materia prima: le greggi che scendevano dalla val Seriana, ma anche quelle provenienti dalla Valcamonica, transitavano in primavera e in autunno da Gandino, dove venivano tosate presso le sedi delle aziende laniere; spesso le greggi erano di proprietà di queste ultime.

Nel XVII secolo, dopo il periodo di pesante crisi dovuto alle guerre ( in particolare di successione del ducato di Mantova e del Monferrato) ma, soprattutto, alla peste “manzoniana” del 1631, le pecore riuscirono per un certo periodo a riprendersi gli spazi ceduti in secoli di progresso dell’agricoltura. La terre lasciate incolte vennero prontamente pascolate dai pastori. Alla ripresa dell’agricoltura negli ultimi decenni del secolo, per reazione al baldanzoso “allargamento” dei pastori, si moltiplicarono i “bandi” contro di essi. Mentre, però, nello stato di Milano i bandi erano emessi dalle autorità locali, nello stato venetoebbero carattere generale anche se, come molte “grida” del tempo, restavano spesso inapplicati. Sulla carta le misure contro i pastori divennero draconiane. Il proclama del capitano di Bergamo del 1658 stabilisce che, eccettuati i tezzoni5 per la produzione del salnitro (necessario per la produzione della polvere da sparo e quindi per usi militari), il pascolo ovino in pianura era proibito. I trasgressori incorrevano in pene severissime  Le pene previste per i trasgressori erano severissime: “tutte le Pecore, e Capre, che saranno ritrovate nel Bergamasco […] siano e s’intendano immediatamente perdute”, chiunque le trovava poteva appropriarsene “ammazzarle, e convertire in proprio benefizio”. I pastori trasgressori

debbono essere fermati prigioni etiamdio con suono di campana a martello, al quale dovranno concorrere gli uomini de Comuni con le loro armi, perché si seguisca l’arresto a tutte le maniere

ed ai trasgressori “pene di Corda, Galera, Prigione o pecuniaria”. Al fine di troncare “sì perniciosa, et abborrita violenza” viene “proibito a chi si sia […] prestar ricetto, alloggio, o ricovero a Pecore, o Capre bandite, né a loro Pastori, Conduttori, o Custodi”. Si trattava di una vera e propria guerra alle pecore e ai pastori. Questi ultimi, peraltro erano ben armati (vedi le ripetute grida per impedire loro il porto di archibugi) e, spesso, godevano di coperture altolocate. In tutta la vicenda laniera bergamasca, con i dazi, l’imposizione dell’acquisto di materie prime nell’emporio Veneziano nonché altre misure che contribuirono a mettere in crisi il lanificio bergamasco (misure da cui Gandino sapeva abilmente sottrarsi grazie a provvidenziali esenzioni ottenute con i soliti maneggi) la politica veneziana non si dimostrò caratterizzata da quella proverbiale accortezza, misura e benevolenza per i sudditi bergamaschi che una vulgata convenzionale troppo spesso le attribuisce.

Un atteggiamento decisamente più prudente (e lungimirante) fu tenuto dalle autorità dello stato di Milano. Esse si rendevano conto che il conflitto tra agricoltura e vagantivo ovino non era semplice da risolvere. Vi erano anche qui terre di pianura dove le comunità locali, o almeno gli esponenti più influenti di esse, chiedevano a gran voce bandi generali. Ma, altrove, erano i potenti proprietari, i patrizi, che chiedevano licenze per accogliere i pastori; in altri casi intere comunità reputavano prezioso l’apporto del concime lasciato dai greggi e chiedevano che le pecore fossero ammesse liberamente. Piccoli coltivatori e grandi proprietari erano spesso favorevoli alle pecore ma l’atteggiamento ostile o meno delle comunità locali nei confronti dei pastori dipendeva molto, oltre che dalle dimensioni dei fondi, dagli ordinamenti agrari. Dove era importante la viticoltura, sia pure nelle forme “promiscue” del passato, le comunità tendevano a “fare barricate” contro i pastori. Come vedremo tra breve a Milano, nonostante le pressioni, non si emisero mai quei bandi generali contro le pecore (le classiche “grida” in stile “spagnolo”) che colpirono la Lombardia soggetta a Venezia.

XVIII secolo

Anche se i pastori transumanti bergamaschi già da secoli avevano dovuto adattarsi ai pascoli di alta quota è solo all’inizio del XVIII secolo che un naturalista svizzero (J. J. Scheuchzer) mette nero su bianco la descrizione dell’alpeggio “estremo”dei pastori bergamaschi sui pascoli della valle del Reno, ai limiti del ghiacciaio dell’Adula (3400 m). Eravamo in piena “piccola glaciazione”.

Questi pastori italiani, che ogni anno portano sulle alpi retiche diverse migliaia di pecore (con grande guadagno dei reti che per pochi mesi ricavano dai pascoli che affittano un canone elevato), conducono una vita semplicissima e infelice: il cibo è costituito da farina di miglio, [cotta con] aqua senza sale e non condita con burro e da carne semi putrida di carcasse di pecore che, per accidente, sono precipitate dalle rocce o di altre che sono morte colpite da qualche malattia. In quella estrema solitudine si può trovare dell’ottima ricotta di pecora che degustammo come fosse un dolce e che, per la sua morbidezza, supera qualsiasi formaggio vaccino o caprino. Il formaggio lo trasportano in Italia. Il ricovero è costituito da una capanna di sei piedi [1,8 m], costruita in pietra a secco, protetta in qualche maniera dalle sferzate del vento chiudendo le fessure con frammenti di pietre e assicelle. Il giacilio è costituito da fieno sottile, lo stillicidio è costante, tutto è misero, in sintonia con la condizione silvestre del luogo. Questa regione di pascoli dove abbiamo sostato, trattati con cortesia dal pastore italiano, sulla quale incombono i ghiacciai, è chiamata Paradisus e non ha derivato la propria denominazione dall’amenità del luogo né dalla fertilità né da qualche altra piacevolezza del paradiso terrestre ma lascia pensare a una forma di ironia.

La descrizione lascia trasparire l’ammirazione per il pastore bergamasco che, in Svizzera, ancora oggi, gode di grande reputazione di serietà e competenza e al quale vengono affidati greggi vaganti. Incidentalmente notiamo anche come la produzione casearia ottenuta dalla pecora bergamasca fosse ancora importante. I diari (pubblicati da Mario Berruti) di Omobono Zuelli, un grosso e ricco pastore di Pezzo, frazione di Pontedilegno (che li redasse a cavallo tra XVIII e XIX secolo), confermano che la produzione casearia, seppure modesta (le pecore erano munte per tre mesi dopo lo svezzamento dell’agnello), rivestiva ancora importanza nell’economia della transumanza. Omobono era anche banchiere ed esattore delle tasse che, nella sua vita, si barcamenò tra tre regimi: veneto, napoleonico e poi lombardo-veneto. Ciò a dimostrazione che il pastore, come nei secoli precedenti, poteva ancora essere personaggio ricco e influente.

La mappa originale di Scheucherz. Il Nord è in basso. In alto a destra la val Mesolcina. Zum Rhein è l’attuale Hinterrein. a sinistra Splügen

Il declino, nel corso del XVIII secolo, dell’allevamento ovino transumante è legato alla crisi dell’industria laniera (anche il panno “comune” veniva colpito da misure protezionistiche che finirono per limitarne l’esportazione verso il solo stato di Milano (in Veneto vi erano centri lanieri locali). Incideva negativamente, però, l’ampliarsi delle aree a prato artificiale nel contesto di un’agricoltura tra le più avanzate al mondo, sempre più orientata alle rotazioni. La “concorrenza” dei bovini la latte, che verso la secondà metà del XVIII secolo conobbero un aumento molto consistente rendeva sempre più limitati gli spazi per i transumanti. La concorrenza dei bovini da latte si fece forte anche per il mantovano, area privilegiata si svernamento dei greggi, dove anche i malghesi veneti scendevano in inverno con le loro mandrie.

In questo secolo si pongono le premesse per lo sviluppo di una nuova industria tessile che, nel secolo successivo, conobbe in Lombardia, un vero boom: quella del setificio. Anche in centri lanieri tradizionali, come quelli della val Seriana, le filande attraevano risorse che, nei secoli precedenti, erano indirizzate all’industria laniera.

Ciò nonostante l’allevamento ovino transumante continuava, a fine del XVIII secolo a essere considerato di “interesse nazionale”. Un editto milanese del 1772 definiva le pecore “animali così utili” e proibiva i pastori “tanto Nazionali che Esteri” di uscire dallo stato di Milano “senza prima aver lasciata la lana nel paese”.

Ciò al fine di porre riparo al pregiudizio che con tale clandestina Estrazione ne deriva al Commercio interno dello Stato, che, dopo aver somministrati gli alimenti nel tempo più critico dell’Inverno tanto a’ Pastori che alle loro Greggie, si priva d’una materia prima così necessaria.

Dal momento che i pastori “nazionali” erano pochi, allo stato di Milano continuava a interessare il loro arrivo per lo svernamento, a patto che la lana restasse entro i confini6. Nel 1775 un altro editto ribadiva il divieto di uscita di pecore non tosate e stabiliva che i pastori potessero usufruire dei pascoli solo in presenza di espressa licenza del proprietario del fondo. Era un modo per tutelare l’agricoltura, in una fase di grande sviluppo e intensificazione ma, allo stesso tempo si rigettavano le richieste di “bandi generali” come quelli in vigore nello stato veneto.

XIX secolo

Dalla fine del XVIII secolo in poi, però, il ridimensionamento dell’importanza economica dell’allevamento ovino transumante fu drastico. Nel XIX secolo l’aumento demografico, quello del patrimonio zootecnico bovino e della produzione casearia e, in generale, dei trasporti(basati sull’energia animale), spinsero all’aumento dei fieni e all’eliminazione quasi completa delle aree incolte residuali. Per valutare la contrazione del patrimonio ovino si possono confrontare gli estimi veneti con le statistiche lombardo-venete. Nel 1562 secolo sarebbero state allevate ben 100 mila pecore in Valcamonica. Nel 1617 la sola val Gandino contava 24 mila pecore. Nel 1857 l’intera provincia di Bergamo (compresa la Valcamonica) contava solo 58 mila pecore. La relazione per la provincia di Bergamo del Censimento del bestiame del 1881 tracciava un quadro impietoso dell’allevamento ovino:

Questi [capi ovini] costituiscono la così detta razza bergamasca di alta statura, con lana di mezzana qualità ed ottimamente lattifera. Sgraziatamente questa specie è in continua decadenza da parecchi lustri. La agricoltura spinta fin dove il lavoro della vanga più ricavare appena un frutto stentato, ha ristretto sempre più con un argine insuperabile lo allevamento di questi animali. Il vagante pastore, cacciato dai più pingui pascoli delle nostre prealpi, riservati agli animali bovini, erra l’estate sui più alti monti del Comasco, della Valtellina, e della Svizzera fin presso quasi alla stagione delle nevi perpetue dove la tenuità degli affitti prova con quali alimenti possa pascere il suo gregge; ed ove scenda a svernare al piano, è obbligato a contendere a ogni passo e per pochi sterpi, coll’agricoltore. Ed il più delle volte a stanziare il suo gregge in umidipascoli, donde risale ai monti colpito da chachesia

Il peggioramento della condizione del pastore transumante nel XIX sec. è riflesso nella scarsa dimensione dei greggi, ridotti a 100-150 capi in media. Tra XIX e XX secolo la Confederazione svizzera pose delle restrizioni (attraverso le visite veterinarie e la tassa di ingresso) all’alpeggio delle greggi transumanti bergamasche nonostante il canton Grigioni ribadisse che molti pascoli non potessero essere sfruttati se non dalle loro pecore. Nel 1901, venne presentata al camera una proposta di legge che vietava il pascolo vagante in Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia. La proposta non ebbe seguito ma era indicativa dell’avversione di alcuni ambienti agricoli della bassa pianura lombarda (segnatamente del cremonese e del lodigiano) nei confronti dei greggi transumanti. Persino in anni recenti, anche quando la politica agricola europea impose il “set-aside” ovvero il ritiro delle terre dalla coltivazione e, dall’esigenza di contendere ogni zolla alle pecore si passò alla necessità di utilizzare i greggi per evitare la trasformazione dei terreni agricoli in lande di sterpi, tale avversità non cessò mai del tutto ma, anche di fronte alla dimostrazione dell’eradicazione di malattie pericolose (trasmissibili ad altre specie) come la brucellosi, si continuò da parte di talune organizzazioni agricole locali a paventare la presunta “minaccia sanitaria” costituita dalla transumanza.

XX-XXI secolo

Giuseppe Facchinetti di Vallalta (val Seriana). Da pastore transumante divenne un ricco imprenditore con decine di garzoni-pastori alle sue dipendenze ed esercitando anche commercio di lana e pecore.

Il XX secolo è stato caratterizzato per l’allevamento ovino transumante da fase alterne. Alla fine degli anni ’20 la crisi economica mondiale e le scelte di politica economica nazionali determinarono (in relazione ad una caduta dei prezzi dei prodotti animali maggiore di quella dei prodotti vegetali e dei mezzi tecnici acquistati dagli allevatori) una sofferenza di tutti i comparti zootecnici. La politica autarchica e l’entrata in guerra nel 1940 determinarono un ritorno di interesse per l’allevamento ovino data la difficoltà di approvvigionamento dall’estero della lana grezza. Oltre allo sviluppo di fibre artificiali vennero avviate varie iniziative per il miglioramento delle razze ovine e il loro incremento numerico. Questo revival produsse, quantomeno, una serie importante di studi sulle razze ovine italiane, le loro caratteristiche, la loro diffusione.

centri di transumanza ovina a lungo raggio a Sud delle Alpi, ancora attivi nel XX secolo e direttrici della transumanza ovina (3 e 4 = val Seriana – val Borlezza – val Camonica media e alta). 1 = Roaschia; 2 = Biella; 5 = val di Sole – alta val di Non;; 6 = Tesino; 7 = altopiano dei sette comuni; 8 = Lamon

Nel dopoguerra, per tutto il comparto ovino dei paesi che costituivano il Mec, avvenne un fatto di enorme importanza che ha segnato il destino di non poche razze ovine condannandole all’estinzione o a ridursi a una condizione di “rarità residuale”. I trattatati costitutivi entrarono in vigore nel 1958 e decretarono l’abolizione di ogni dazio di importazione a carico della lana grezza. Era un modo per favorire l’industria laniera. Per compensare gli allevatori venne istituita, anche per la carne ovina, un sistema di sostegno dei prezzi. Nel giro di pochi anni le razze più pregiate per la produzione di lana fine (quelle “merinizzate”) dovettero convertirsi a razze da carne. Era infatti possibile per l’industria rifornirsi in Australia di lana merinos di qualità superiore e a prezzi enormemente più bassi (in relazione ai bassi costi di produzione dell’allevamento super estensivo di quel continente). La bergamasca non era una razza che produceva lana confrontabile con quella fine d’oltreoceano. Era diventata produttrice di lana da materassi (anche se sussisteva una certa produzione di ruvide coperte e di abbigliamento militare). Il crollo delle quotazioni della lana fine, però, trascinò al ribasso tutta la gamma merceologica e ne risentì molto anche la lana bergamasca. Al pastore, che anche da un piccolo gregge poteva ricavare dalla sola vendita delle lana un reddito superiore a quello di un operaio, non restò che aumentare il numero di capi e puntare sul solo reddito fornito dalla carne. Così negli anni ‘6o del secolo scorso il gregge medio salì di consistenza a 300 capi, che diventeranno i 1000-1500 di oggi.

Pastore di Parre con un giovane contadino

La gestione dei greggi più grandi è risultata possibile perché, nel frattempo, anche gli ordinamenti agrari subirono non pochi cambiamenti. Il già ricordato set-aside e una disordinata urbanizzazione misero a disposizione dei pastori molte superfici non coltivate. L’imporsi nella pianura della monocoltura maidicola per la produzione di silomais, pastoni, granella per l’alimentazione animale e, dai primi anni del XXI secolo, per la produzione di “bioenergie”, spinta da fortissimi incentivi) lascia, in autunno, qualora non venga praticata un’altra coltura, il terreno disponibile per il “ristoppio” e quindi per il pascolo. Il rovescio della medaglia è che, ad aprile, con la semina del mais, le campagne diventano off-limits per i pastori che sono costretti a contendersi le poche aree disponibili per il pascolo (per lo più nell’ambito di aste fluviali e parchi) per riuscire a “tirate” sino al momento di poter salire in montagna. La riduzione dei capi bovini allevati in montagna (una tendenza innescatasi giù agli inizi del XX secolo) e, soprattutto, la tendenza a mantenere in stalla anche in estate le bovine da latte (almeno quelle ad alta produzione), ha in qualche modo rappresentato, già negli ultimi decenni del secolo scorso, un elemento favorevole per l’allevamento ovino transumante che, dopo secoli, è tornato a utilizzare pascoli dai quali era stato allontanato. Molto spesso il pascolo con i grossi greggi ovini, sempre condotti da pastori e quindi in grado di utilizzare in modo razionale la risorsa pabulare, non solo ha impedito il degrado dei pascoli ma, spesso, ha consentito di recuperare superfici sottoutilizzate svolgendo pertanto anche servizi ambientali (dal punto di vista della regimazione delle acque superficiali che dello scorrimento delle masse nevose e, soprattutto, di quello della prevenzione degli incendi boschivi). Le premialità associate al pascolamento, pur nelle gravi distorsioni e speculazioni indotte, hanno rappresentato un ulteriore elemento di rafforzamento dell’allevamento transumante. La pecora bergamasca, da ormai diversi decenni, ha accentuata l’attitudine alla produzione di carne. Ha perso qualche centimetro in altezza e, contemporaneamente, ha guadagnato in peso (la pecora adulta pesa in media oltre 90 kg) e in resa alla macellazione. L’immigrazione islamica ha indotto una forte domanda per l’agnellone (maschio intero di 5-6 mesi del peso, vivo, di 45 kg). Quasi assente la produzione di agnelli da latte che ha senso solo nel contesto di un sistema in cui la pecora è allevata per la produzione del latte e che vede la razza bergamasca, a grande sviluppo somatico – ma, ovviamente, con i tempi necessari – penalizzata in termini di resa dell’agnello in carne per via della forte incidenza, nelle fasi giovanili di sviluppo, della componente di ossa e pelle.

Tiroler bergshaft. La pecora di montagna tirolese è nuyll’altro che una derivata bergamasca. Ancora oggi mantiene, come si può vedere, alcuni caratteri della bergamasca di “vecchi tipo”. E’ evidente la maggiore estensione del vello rispetto alla bergamasca attuale che ha la testa e il vetre scoperti

L’agnellone bergamasco rappresenta un prodotto di alta qualità per il consumo rituale (festa del sacrificio) anche perché garantisce al consumatore finale l’origine può verificare l’integrità dell’animale (dal momento che il sacrificio rituale non ammette mutilazioni e imperfezioni). L’agnellone bergamasco può essere allevato a costi relativamente contenuti (la transumanza, con il vagantivo invernale, consente di minimizzare i costi di alimentazione mentre l’affitto del pascolo d’alpeggio è più che compensato dai contributi del psr e dei titoli pac ).

La forte produzione di latte nei primi due-tre mesi di lattazione consente un rapido accrescimento dell’agnello a costi contenuti perché la pecora è alimentata al pascolo; successivamente l’agnello, gradualmente, si alimenta da solo, sempre al pascolo. Tenuto conto dei costi di produzione e della qualità è quindi un prodotto competitivo rispetto alla carne di agnellone o agnello pesante di provenienza estera (Nuova Zelanda ecc.). Circostanza che non si verifica nel caso di altre razze ovine italiane (a meno che si adottino efficaci politiche di marchio come si sta facendo per il tardun sambucano).

In provincia di Torino la bergamasca/biellese è ancora oggi munta regolarmente

Anche le pecore a fine carriera trovano sbocco presso consumatori di etnie extra-europee, abituati al consumo di carne ovina (indipendentemente da motivazioni religiose) che ne apprezzano i vari tagli, anche quelli poco apprezzati da altri consumatori (es. la testa e il quinto quarto in genere).

La focalizzazione sulla produzione dell’agnellone ha spinto in secondo piano la tradizionale produzione dell’allevamento transumante bergamasco: il castrato. Macellato a oltre un anno di età (in passato sino a 18 mesi) il castrato bergamasco, con le sue carni mature che si prestano a tagli anche inconsueti per la sezionatura delle carni ovine, ampliando anche la gamma delle possibilità di preparazione culinaria, rappresenta il top della produzione ovina, paragonabile alla chianina per quanto riguarda la carne bovina. Da qualche anno, oltre al tentativo di valorizzare dal punto di vista gastronomico la carne fresca di pecora bergamasca, a partire dal prodotto top, il castrato (vai a vedere) si sta assistendo a una valorizzazione molto interessante della carne trasformata alla quale si stanno dedicando le aziende di giovani imprenditori aperti all’innovazione (qui nel sito). Oltre ai pastori che si sono dotati di laboratori di lavorazione delle carni altri hanno impiantato dei piccoli macelli aziendali.

Rispetto ai periodi più bui della sua storia, l’allevamento ovino transumante bergamasco gode oggi di buona salute tanto che è ripresa qualche frizione tra pastori per l’uso dei pascoli invernali. Possono calcolarsi a 70 mila i capi allevati con il sistema transumante in una sessantina di greggi (alcuni di proprietà del medesimo proprietario).

Note

1Un sistema analogo alle “poste” fu istituito dalla Repubblica veneta nelle terre lombarde da essa dominate ma con una finalità ben precisa, di tipo militare. Dallo sterco ovino si estraevano I nitrati, necessari alla produzione della polvere da sparo e la Repubblica volle garanbtirsene la produzione istituendo, tra Bergamo, Brescia e Crema, una cinquantina di “tezzoni” (grandi tettoie dove le pecore dovevano essere ricoverate la notte per accumularne le deiezioni). I salnitrai che li avevano in appalto affittavano ai pastori il diritto di pascolo sui terreni assoggettati alla servitù del tezzone. Ogni tezzone poteva accogliere 200 pecore.

2Ancora sino al XIX secolo, per “pastore” si intendeva sempre il proprietario, spesso un imprenditore del settore laniero, un commerciante. Nei documenti dei secoli passati il conduttore del gregge è, appunto, il “pecoraio” (nella lingua parlata il famèi – garzone – o macìl).

3In seguito l’importanza della produzione di latte e formaggi4Ciò non toglie che per un periodo di transizionei bergamini mantenessero ancora un certo numerodi pecore da latte (come riferisce, nel XVI secolo l’agnonomo bresciano AgostinoGallo). In tempi recenti, ancora nel XX secolo, non pochi bergamini mantenevano un piccolo gregge per la produzione delle lana, articolo prezioso sino alla prima metà del secolo scorso tanto che non solo I piccoli contadini-allevatori di montagna ma spesso anche gli agricoltori di pianura mantenevano delle pecore per il fabbisogno famigliere di lana (ultimamente limitato a quella per i materassi).

5Vedi n 1.

6 I lanieri di Gandino, agli inizi del XIX secolo (quando la Cisalpina si riforniva di divise confezionate con pannolana gandinese si lamentavano che il Piemonte non lasciasse rientrare le pecore entro i confini se non tosate. D’altra parte, sempre in tema di “conflitti internazionali” intorno alla pastorizia transumante, un laniero di Biella, qualche anno prima, lamentava che il Re di Sardegna lasciasse entrare 12 mila pecore bergamasche (che comunque dovevano passare una tassa). Quel laniero, evidentemente, era anche un proprietario di greggi e voleva limitare la concorrenza bergamasca.

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