I bergamì descritti da Luigi Volpi

Luigi Volpi (Bergamo, 1904-1956). Laureatosi in veterinaria, preferì dedicarsi al pubblicismo. Studioso di scienze naturali, vantò buone conoscenze botaniche, geologiche e mineralogiche del territorio bergamasco. Socio dell’Ateneo di Scienze Lettere ed Arti di Bergamo lasciò una messe notevole di scritti, spazianti dal folclore al dialetto, dalla letteratura dialettale al costume, dalla storia ai temi naturalistici. Fra le sue opere monograche si segnala Usi, costumi e tradizioni bergamasche (1937)

 

Luigi Volpi,

I BERGAMÌ NOTE FOLKLORISTICHE

(Rivista di Bergamo, giugno 1930, pp 261-266)

VERAMENTE figli delle nostre montagne sono questi uomini rudi e solitari che portano il nome della nostra terra quasi a significarne una caratteristica. Originari dalla Val Brembana essi hanno costituito un’industria nomade che esercitano da secoli col più curioso degli attaccamenti, e dalla quale rivolgimenti sociali o mutate condizioni economiche non sono riusciti a staccarli. Per questo essi rappresentano rispetto alle altre attività sociali una strana forma anacronistica, una persistenza o una sopravvivenza del passato.

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Quando colla primavera alpina le vaste praterie, limitate fra gli ultimi boschi e le roccie, rinverdiscono al crescente tepore, e le alte vette, i picchi e le creste sembrano rinascere con novella possanza alla festa di verde tenue e di azzurro purissimo, i bergamini lasciano la pianura dove hanno trascorso l’inverno e dal basso milanese, dal cremonese o dal lodigiano vanno colle loro mandrie verso le nostre montagne.

Attraversano le città nelle vie meno battute portando ai cittadini chiusi nei loro alveari di case e nei loro labirinti di vie assolate la nota festosa delle loro campanelle che li annunzia con gravi tocchi cadenzati, ed il senso della loro vita semplice e libera.

È uno spettacolo quanto mai pittoresco il passaggio della lunga colonna di bestie che prosegue docilmente mentre i mandriani con esclamazioni aspre e gutturali dirigono ed animano, coadiuvati dal fedelissimo cane.

Chiudono il corteo i carri sui quali stanno le donne, i fanciulli e i neonati bovini, e gli attrezzi della loro industria grosse caldaie per la cottura del formaggio, zangole – i penacc – per il burro, secchi in legno, fasci di collari – i gambise – ed altre poche suppellettili.

Per tutta la buona stagione, sulle loro eccelse dimore essi si dedicano ai lavori della pastorizia e del caseificio.

Lassù in completa solitudine ove il silenzio è rotto solo dallo stillicidio dei nevai che si confonde col murmure dei ruscelli, la loro vita sembra sublimarsi in un sorriso delizioso di pace serena.

La famiglia composta dai bergamini, dalle donne, dai famigli e dai piccoli – i bocia – trova ricovero nelle «baite» costruzioni primordiali e diroccate ove si riposano su letti di frasche e di foglie secche sospesi per aria. Nella baita si lavora il formaggio, si fa la tradizionale polenta, loro cibo principale, e vi si ospitano le bestie malate. La mandria viene raccolta nel «barech» specie di fortilizio delimitato da muri a secco o da tronchi d’albero intrecciati con lunghi rami.

Ogni giorno i bergamini attendono al pascolo delle bestie, dirigendo gli sposta­menti della mandria verso le zone erbose non ancora sfruttate, o guidandole alla «posa» specie di vasca circolare ove si raccoglie l’acqua piovana.

Nelle lunghe ore di inattività essi riposano appoggiandosi ai loro bastoni di abete e c’è in questa loro positura caratteristica qualche cosa di. solenne e di grave, che ci fa pensare a statue messe là a rendere più maestosa la scena.

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Ogni tanto scendono al paese coi muli per vendere i prodotti della loro industria, il formaggio semigrasso di monte, il burro e la ricotta.

A settembre scendono in pianura per svernare. Questa speciale forma di vita nomade è detta transumante ed è comune ai pastori di molte regioni d’Italia.

La zona che i bergamini occupano nella stagione estiva è vastissima e si aggira sui 270 Kmq. Comprendendo quasi tutte le nostre Prealpi dai 2000 ai 2500 metri ed estesa dalle Valli di Valtorta o di Foppolo a quelle della Val Seriana e di Scalve.

Insieme con i pastori – nomadi nel vero senso della parola – i bergamini costituiscono una classe di persone che hanno mantenuto le loro abitudini di vita patriarcale e primitiva; isolati dalle altre classi sociali, con scarso senso associativo, legati alla loro attività da un eredità secolare di tradizioni e di pregiudizi.

In essi rivive un po’ della vita delle passate generazioni per le quali la pastorizia doveva essere una delle occupazioni preminenti.

Polibio ci descrive la pianura Padana cosparsa di acque stagnanti, solcata da fiumi, ricca di querce, di alberi resinosi, di noci, di miglio e di maiali. Le nostre vallate erano coperte di fitte foreste delle quali ora poco ci resta.

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I primi a salire le nostre valli furono forse quegli stessi che, come vuole la leggenda, si rifugiarono sui nostri colli dopo la distruzione della loro città – Barra – o furono invece popoli vicini che vi immigrarono.

Certo è che questi primi dovean essere pastori i quali utilizzarono i magri pascoli naturali delle nostre montagne. Le loro abitazioni erano capanne di sassi coperte di corteccie d’abeti; il loro soggiorno durava solo colla buona stagione; in seguito però alcuni di essi vi si saranno stabiliti costituendo i primi nuclei delle nostre popolazioni montane, mentre gli altri hanno preferito continuare la loro vita nomade; così i pastori. I bergamì ci ripetono abbastanza fedelmente questo sistema di vita. Montanari per origine e per abitudini, proprietari di bestiame ed allevatori, coll’aumentare delle loro mandrie essi hanno dovuto chiedere alla pianura il sussidio per l’alimentazione invernale della bergamina, trasmettendo poi di generazione in generazioni le abitudini di vita transumante. Sono quindi dei proprietari di bestiame, talora con capitale ingente che non hanno beni nè in pianura nè in montagna. Prendono in affitto per un periodo consuetudinario di nove anni i pascoli della montagna dai privati o dai comuni, e zone del piano dai proprietari di laggiù.

Questa continua spola fra le montagne ed il piano ha fatto sì che molte famiglie montanare si fissassero in pianura. Così i Magenes di Valleve, gli Avogadro della Val Seriana, i Papetti di Foppolo, ecc. Il fenomeno della fissazione dei bergamì al piano preveduto dal Jacini verso la metà del secolo passato, è ora notevolmente accentuato sì da segnare il lento scomparire di questa particolare attività.

Che gli Orobi si dedicassero in passato alla pastorizia ed all’allevamento del bestiame, è provato dal fatto che nel nostro dialetto si nota una ricchezza mancante nella lingua italiana ed in altri dialetti di voci e vocaboli riferentisi alla vita pastorale e cacciatrice, documenti altresì di vita nomade come negli slavi e nei magiari. I nostri vernacoli ritengono infatti un gran numero di vocaboli con riferimento a qualità o caratteristiche di ani mali, così: sgatinà, ranà, carognà, sluma, loc, furmigà. Altri documenti inoppugnabili sono: la tipica pecora bergamasca, ed il nostro cane pastore dagli occhi albini, dal pelo lungo, col mantello grigio-chiaro, la cui origine viene stabilita sull’Altipiano di Clusone. Ancora ci restano i ricordi di una reputatissima ed estesa industria della pannina.

I bergamì sono robusti, di carnagione fresca e vermiglia, non mai scalzi come del resto la gente di montagna, con rozzi vestiti e col tipico grembiale azzurro. Si vedono ancora nelle nostre valli dei vecchi con l’antico costume da pastore che abbiamo anche osservato nelle esibizioni dei costumi di Parre, il paese che più d’ogni altro ha conservato costumi pastorali. Cappello scuro e rotondo, giacchettino corto, calzoncini al ginocchio, uose che rivestono tutta la gamba, calze rosse, camicia bianca ricamata, ed i caratteristici anellini alle orecchie, immancabile è il capace ombrellone rosso.

Usato è pure il tabarro, o la «polaca» che anticamente aveva uno speciale significato specialmente come segno di lutto per questo veniva portato varie domeniche di seguito.

Le donne oltre alla cuffietta, portano il busto ed una lunga gonna pieghettata.

Nel loro linguaggio essi usano il nostro dialetto rustico con molte voci antiquate e molti vocaboli che fanno parte del furbesco, usato dai pastori anche oggi.

Il furbesco detto «gaì o spasèl» è un sottodialetto, una parlata convenzionale, esso è formato da voci di lingue antiche o straniere, dai furbeschi di Francia o di Germania oppure da parlate zingariche, o di popoli nomadi come gli slavi e gli ungheresi, infine da traslati, da svisamenti e da voci onomatopeiche.

Antonio Tiraboschi ha raccolto molte di queste voci in due opuscoletti dai quali togliamo questi pochi esempi:

«Gróle – castagne; monèl – ladro; stoblà – bere; io – sì (tedesco ja); barbina o fedola – pecora; loghit – svelto; cainà – rubare; tui – ucciso; raspancc – polli, galline; paper – carta, libri; fiais – carne; verdus -prato; bredà – piangere; Brodec – orso; ecc.».

I pastori usano il furbesco come mezzo di difesa contro le altre classi agricole che mal sopportano le loro ladronerie.

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Le fortissime tendenze conservative dei bergamini – comuni del resto a tutto il mondo agricolo – ci spiegano come essi non abbiano ancora adottato i nostri sistemi di misure, ma nei loro scambi usino solo pesi e misure antiquate o convenzionali. Così per il latte usano «ol pis» che equivale ad 8 Kg. e viene suddiviso in 100 parti dette «lire». Certuni usano ancora « ol bras, ol ster », e la libbra.

I pascoli vengono valutati in «paghe» e una «paga»equivale all’area sufficiente per mantenere un bovino adulto durante tutta lastagione d’alpeggio. Questa misura non è mai costante, cosicchè si hanno altremisure affini.

Tutte le loro manifestazioni cerebrali ci ricordanol’abito mentale delle genti di montagna che dalla pastorizia han tratto l’origine.

Nelle credenze dei bergamini persistono per quanto attenuati molti ricordi pagani e medioevali. Una grande importanza hanno per essi gli astri ed in modo speciale la luna, dell’influsso della quale è tenuto gran conto nella conservazione del formaggio e nel taglio della legna. Certe affezioni del bestiame sono ancor oggi chiamate «mal della luna»; molte malattie sono poi interpretate come dovute ad un particolare agente patologico e sono attribuite al così detto «cölp de morbe». La cura di esse malattie è totalmente empirica e spesso straordinariamente ingenua. Molta importanza hanno per essi gli elementi climatici che en­trano in quasi tutti i loro proverbi. Lo sfondo sul quale intrecciano le loro «storie» e le loro leggende è terrificante: draghi, streghe, orchi, animali dalle forme inverosimili e grottesche, le narrazioni delle gesta dei quali fa battere di paura il cuore dei piccoli. Vi è poi un vero florilegio di racconti di paurose visioni di anime di trapassati « confinate» o vaganti la notte per la montagna e che talvolta si fanno « sentire » anche nella baita.

Molte e varie sono anche le loro superstizioni.

Nulla di caratteristico nelle loro festic­ciole e nelle cerimonie. Quando alla Madonna d’agosto i mandriani scendono al paese per trattare l’affitto dell’alpe, e la compartita, cioè la partizione delle quote di ognuno, essi sogliono chiudere la giornata con una « sbornia » che se è solenne è invero poco austera. Quando nel paese si festeggia qualche avvenimento religioso, essi al tramonto accendono sui loro monti dei grandi fuochi – i falò – che fanno durare per lungo tempo; mescolando così inconsciamente ad una tradizione cristiana un simbolismo di marca pagana.

Accade spesso di osservare bastoni, «basoi», secchie, cucchiai in legno, inta­gliati con un paziente lavoro di coltello. Raramente questi lavori – che di solito consistono in ornamentazioni primitive – raggiungono forme di un qualche valore artistico. Essi lavori però ci rivelano gli inizi di una rozza arte rustica che colla sua evoluzione ci porterà alle pregevoli opere dei nostri artigiani.

Il tempo ha parecchio modificate le occupazioni della nostra gente di montagna. Più non echeggiano nelle nostre vallate i colpi dei magli, nè ardono i bracieri delle innumerevoli fucine. Poche vestigia ci restano delle antiche fabbriche d’armi e dei tanti forni dei quali parlano i documenti. I valligiani non convogliano più il loro legname per mezzo delle acque dei fiumi, e non vanno a prestare la loro forza nei porti marittimi.

Solo la pastorizia ci resta come un , vivente documento del passato.

E quando «i bergamì» chiudono la loro giornata raccogliendosi nella baita a pre­gare Iddio che ha loro dato prosperità e – salute essi devono sentirsi figli prediletti della terra nostra – che madre generosa – dà loro il pane e l’esistenza serena e libera.

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