Il lanificio bergamasco e la lana “nostrana”

da M. Corti, G. Foppa La pecora bergamasca. Immagini, storia e sistema di allevamento della più importante razza ovina delle Alpi Provincia di Bergamo, Bergamo 1999 (pp.60-64).

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Fino al XIII secolo la lana lavorata dalle manifatture di Milano e di Bergamo era prevalentemente di origine locale. Con il XIV secolo la manifattura della lana a Milano diventa monopolio dei mercatores facientes laborare lanam subtilem e anche a Bergamo, dove continuerà la produzione su larga scala di panni prodotti con  materia prima locale nonostante la cessazione della produzione delle case degli  Umiliati, diventa prevalente la lavorazione di lana importata. I documenti  dell’Archivio Datini di Prato (FRANGIONI, 1993) conservano un nutrito carteggio  commerciale tra la Casa Datini e i corrispondenti lombardi. La maggior parte delle  lettere riguardano la corrispondenza con ditte milanesi, cremonesi e cremasche, ma ve ne sono anche sei con la ditta Gherardo Bartolini e c. di Bergamo datate 1383 e 1384. Da questi carteggi si apprende che sul mercato lombardo affluiva lana pregiata inglese delle qualità “Marcia” (March), “Condisgualdo” (Cotswold”, “Indesiea” (Lindsay) e “Badia”. Dal punto di vista quantitativo prevalevano però le lane spagnole e in special modo la San Matteo. Bergamo si approvvigiona di lana  S.Matteo direttamente da Pisa, il grande emporio per l’approvvigionamento della lana e delle merci spagnole. La lana perveniva via un corrispondente cremonese.

Il mercante di Bergamo autore delle lettere acquistava prevalentemente lana nera ma era molto esigente dal punto di vista della qualità, lamentandosi sia del lavaggio che dell’asciugatura. Dai documenti datiniani si ricava anche che “panni grossi” bresciani erano collocati in Puglia, che panni comaschi erano venduti a Roma e ancora che  panni bresciani erano venduti in Sicilia e a Napoli. Nel XV secolo si hanno notizie  certe sulla lavorazione di rifinitura dei tessuti di lana (gualcheria) che si eseguiva con  poche e rudimentali macchine (RUDELLI, 1942) e l’industria laniera crebbe tanto che,  quando alla metà del XVI secolo si assistette ad una prima crisi del lanificio, vi fu una fortissima emigrazione di lavoranti verso lo Stato di Milano ed il Piemonte. Si  calcola che trentaduemila persone lasciarono le rive del Serio in seguito alla crisi  (BARBIERI, 1996). Essa fu determinata sia dallo scioglimento degli Umiliati (che pure non occupandosi più direttamente della produzione erano pur sempre impegnati nelle attività imprenditoriali e finanziarie attinenti il lanificio) e ad una politica di dazi eccessivamente protezionistica che limitava l’introduzione di lane estere e concentrava a Bergamo e ad Albino le tintorie (CANTÙ, 1859 ).

Il Podestà Priuli nella relazione del 1533 rivela che gli importatori bergamaschi ricorrevano all’importazione di contrabbando di lane spagnole da Vercelli (IST. STORIA ECONOMICA UNIVERSITÀ DI TRIESTE , 1978). Nel 1549 vennero introdotti balzelli così alti sulle lane estere (6% del valore della merce) che alcuni lanaioli bergamaschi (la relazione del Podestà Contarini, del 1579, parla di trecento famiglie) dovettero trasferirsi nello Stato di Milano (IST. STORIA ECONOMICA UNIVERSITÀ DI TRIESTE , 1978) mentre da Soncino, dove operavano 80 botteghe di panno, e da Cremona venivano introdotte di contrabbando, peraltro senza difficoltà, nonostante i 3 anni di galera vanamente minacciati, panni di lana più a buon mercato.  La crisi del XVI secolo fu però fu transitoria.  Il lanificio bergamasco conobbe per unanime riconoscimento degli autori che di esso si sono occupati il massimo dello splendore nel XVII secolo. Sempre dalle relazioni dei rettori veneti (IST. STORIA ECONOMICA UNIVERSITÀ DI TRIESTE , 1978) ci è noto che l’esportazione dei prodotti del lanificio bergamasco nel ‘600 si indirizzò verso la Romagna, le Marche, la Puglia, Napoli, Milano, l’Austria, l’Ungheria, i Grigioni e l’ “Alemannia”. Diverse furono le circostanze che contribuirono a questo successo. Nel 1662 Venezia vietava l’importazione di panni forestieri e ci fu anche l’immigrazione di lanieri comaschi che, per sfuggire agli elevati balzelli cui erano soggetti, si trasferirono a Gandino con aziende e telai (BELLOTTI, 1959). Già in questo secolo, però, si assiste ai progressi della produzione serica.  Nella relazione al senato veneto il capitano Alvise Capello il 19 luglio 1666 scrive: “Floridissimo è in bergamasca il negotio delle pannine di lana e nella loro fabbrica debbono sostenersi circa venticinquemila persone: D’alcuni anni in qua ha preso gran accrescimento ancora quello della seta e sempre più s’avanza applicando tutti con particolare studio in piantar moroni” (BARACCHETTI, 1993) Nella stessa epoca Francesco Bonduri di Gandino, uno di più importanti e noti mercanti di lana del bergamasco scrivendo da Verona al padre sostiene la necessità di applicarsi “ad altri negozij”: acquisto di case e terreni, ma soprattutto investimenti nel setificio (BARACCHETTI, 1993).

Giovanelli

L’architettura di Gandino testimonia le fortune delle famiglie locali che gestivano la lavorazione ed il commercio della lana.  Nella prima metà del ‘700 il declino del lanificio bergamasco diventa evidente perché, a causa della concorrenza di produzioni più qualificate di Francia, Inghilterra, stati tedeschi ed Olanda, si chiudono quelle direttrici di esportazione verso la penisola italiana e l’area alpina che avevano consentito il “boom” del secolo precedente.  In questo periodo, però, il lanificio bergamasco resta attività di primaria importanza. A Bergamo e Gandino secondo il Moioli (1988)  

… si è instaurato da tempo un sistema di lavorazione a ciclo completo, i cui punti di forza sono costituiti, oltre che dalla presenza nelle zone montuose di abbondante manodopera a buon mercato, dalla capacità di svolgere in loco, una volta acquisita la materia prima, l’intero processo manifatturiero, ma soprattutto di finalizzarlo alla produzione delle più svariate qualità di tessuti tra quelli meglio idonei ad un largo consumo di massa.

 

Nonostante la forte capacità tecnico- organizzativa e commerciale il lanificio bergamasco, alla metà del XVIII secolo, subisce un grave ridimensionamento che provoca un flusso di emigrazione di dimensioni molto superiori al passato. Le ragioni di questo declino sono riconducibili a motivi di politica economica, legati alla adozione di misure protezionistiche da parte degli stati italiani (a cominciare dal fortissimo protezionismo deciso dal Re di Sardegna), ma anche alla politica daziaria di Venezia. I produttori bergamaschi risultano penalizzati dalla forzata dipendenza dall’emporio veneziano al quale sono costretti a rifornirsi per i beni di produzione ad esso necessari (olio, sapone, materie tintorie) sui quale deve pagare le relative imposte di fabbricazione. La produzione, al contrario, non è protetta da misure protezionistiche che non vengono adottate perché la nobiltà veneziana desidera importare prodotti di lusso non gravati di dazi per il suo consumo. Le pressanti richieste di agevolazioni daziarie e fiscali non trovano accoglienza a Venezia dove, evidentemente era venuta meno la sollecita e attenta protezione accordata all’industria laniera bergamasca nel secolo precedente. Solo nel 1785 Venezia concesse il privilegio dell’esenzione del dazio per i prodotti necessari al lanificio, ma solo limitatamente a Gandino. Restarono fortunatamente aperte le esportazioni verso lo Stato di Milano poiché qui, nonostante alcuni vantaggi loro concessi, le locali manifatture stentavano a decollare. A dispetto della crisi, nel 1745, risultavano occupati nel bergamasco nell’industria laniera 24.000 addetti e, solo in Bergamo, vi erano 694 telai. Ventiquattro famiglie esercitavano l’attività laniera a Bergamo e altrettante a Gandino e in bassa Valseriana. (Gandino, Leffe, Peja, Casnigo, Alzano e Nese). Le lane più utilizzate erano quelle pugliesi, di romagna e quelle “succide” del lavante, ma arano ancora molto usate quelle “nazionali” offerte dai pastori bergamaschi e bresciani sul mercato di Clusone. (BARBIERI, 1996). All’inizio dell’800 le forniture militari diedero nuovo impulso al lanificio bergamasco dove risultava concentrata la maggior parte delle fabbriche di lana del Regno d’Italia napoleonico; esso seppe rispondere alle pressanti e massicce richieste di forniture milirari (COVA, 1988) metre, altrove, se si eccettuano le fabbriche di coperte di Iseo e Marone e la scarsa produzione dei telai di Lumezzane e Agnosine nella Val Trompia, non risultavano unità produttive in grado di fare altrettanto. MAIRONI DA PONTE (1803) nelle sue “Osservazioni sul Dipartimento del Serio” scrisse:  

Egli è fuor dubbio che il Lanificio sia stato lungamente la fonte principale della nazionale sussistenza e che, sfissatosi in alcuni villaggi della Valbrembana e principalmente in quelli della Valseriana, vi abbia introdotte delle ricchezze. Ma è ugualmente certo che questo Lanificio in allora fioriva principalmente del prodotto delle lane Bergamasche, il quale in que’ tempi era incomparabilmente più copioso, che non è oggidì (…)”.

Nel 1806 anche il vice prefetto di Clusone, in un rapporto al ministero dell’Interno , affermava che a Gandino   “le fabbriche di pannine sono delle più cospicue e oltre che hanno formato la ricchezza di molte riguardevoli famiglie che vi si contano e che mantiene in uno stato di agiatezza generale la popolazione del Cantone, offrono, mezzi di sussistenza anche a molti altri” (2)  MAIRONI DA PONTE nelle sue “Osservazioni” citava le numerose produzioni del lanificio gandinese “panni di varia finezza e di vario uso, peluzzi, mollettoni, spagnolette bianche finissime, mezzane e ordinarie, rattine di varia finezza e altezza, mezzi pani e saglie di molte sorti (…) e certa robba detta volgarmente peina perché primitivamente fabbricata in un nostro villaggio di Pea”. Secondo dati del 1806 dalle 142 fabbriche bergamasche uscivano 1,2 milioni di m di stoffa, 12.000 m di fettucce e 2.200 paia di calze per un valore complessivo di 7,16 milioni (COVA, 1988); Il MAIRONI DA PONTE individuava uno dei motivi della decadenza del lanificio nella forte contrazione del numero di pecore e quindi della lana grezza disponibile in loco. Tale diminuzione sarebbe stata determinata dalla diminuzione dei pascoli e dall’ “incarimento de’ fieni” dovuti ai progressi dell’agricoltura ed in particolare alla grande diffusione della piantumazione con gelsi per provvedere all’approvvigionamento del setificio. Che la materia prima “nazionale” fosse elemento importante per il rilancio del lanificio è dimostrato dal fatto che tra le varie misure invocate al Governo dai fabbricanti di Gandino figuravano oltre alla creazione di una Camera di Commercio e al miglioramento delle misure stradali la revisione degli antichi accordi tra Venezia e Torino che, in cambio di diritti di pascolo in Valsesia tra aprile e ottobre, prescrivevano la tosa delle pecore prima del rientro. Ma il Piemonte allora faceva parte dell’Impero francese e accondiscendere a questa richiesta voleva dire ledere gli interessi “imperiali” con timore di ritorsioni conto il vassallo Regno Italico. Non si ravvisò infatti opportuno “proibire direttamente l’estrazione delle lane, né (…) impedire le divisate tosature”, ma ci si limitò a suggerire di imporre una misura “meno provocante” e cioè un Dazio che rendesse non conveniente ad alcuni tale “estrazione”. Posizione come si vede del tutto pretestuosa dal momento che avrebbe dovuto sortire lo stesso effetto. Di fatto non se ne fece nulla. Il Rapporto della Sezione dell’Interno al Consiglio Legislativo del 6 agosto 1803 si esprimeva nei termini seguenti (2):   

L’uscita dal Territorio della Repubblica delle lane, che nate nel nostro paese nelle manifatture del nostro paese pare pur ragionevole , che a preferenza debban essere adoperate forma il principale soggetto delle lagnanze di detti Fabbricanti, ed insieme l’unico oggetto delle diverse loro rappresentanze necessariamente esigente il freno d’una legge. Al dire dei medesimi ha luogo tale estrazion per due parti principalmente una cioè per il Piemonte, e l’altra per gli Stati Ex Veneti ora Imperiali. Quella , che succede per il Piemonte la vostra Sezione ha esplorato essere antichissima, e procedere da una misura politica del Governo Piemontese, già sovrano di tutta la Vallesesia, il quale ne’ concedere ai Pastori Bergamaschi, allora Sudditi della Repubblica di Venezia, la facoltà di pascolare dall’aprile sino a S.Michele d’ogni anno più di 18 mila pecore sopra i gioghi de’ Monti di quella Valle, prescrisse la condizione assoluta, che tali greggie dovessero all’uscire, come tosate vi venivano dal Territorio Bergamasco con  lasciarne le lane ad alimento delle vicine Fabbriche di panni Biellesi a qualunque estero preferibile nel loro acquisto.. In oggi divisa la Vallesesia in due parti cosicchè la destra al Piemonte e la sinistra alla nostra Repubblica appartiene, restano per gli antichi rapporti di paese con paese variati a segno che, una diretta ed assoluta proibizione di tosare le pecore a que’ confini risulterebbe forse più che d’avvantaggio , di grave danno allo Stato, come dal seguente riflesso si può raccogliere. (…) deve temersi la ritorsione del Piemonte che priverebbe del diritto di pascolo sulla parte destra della Valsesia i pastori bergamaschi costringendoli a diminuire il numero delle pecore allevate. 

Secondo il rapporto del 6 agosto 1803 sarebbe stata quest’ultima la ragione che aveva spinto il governo Veneto a “soffrire la perdita della tosatura”. Da questo carteggio si deduce che all’epoca e, verosimilmente, più di un secolo prima (come è lecito dedurre dal riferimento ad “antichissima misura politica del Governo Piemontese”) le greggi bergamasche pascolavano in gran numero sia sugli alpeggi che sui pascoli di media montagna delle Valsesia. E’ evidente che il loro contributo al lanificio biellese fosse importante. Ai fabbricanti gandinesi venne comunque concessa una sovvenzione di 50.000 lire (ne avevano chieste 300.000 a titolo di partecipazione minoritaria dello Stato ad una nuova società) per l’acquisto di nuovi macchinari necessari a migliorare la qualità del prodotto ed a venire incontro alle esigenze delle commesse governative. Il Governo si impegnava anche ad acquistare 50.000 m di stoffa. (COVA, 1988).

 Nel periodo del Regno Lombardo-Veneto subentrò un nuovo elemento decisivo che determinò la decadenza del lanificio. Si trattò della diffusione dei cotonifici. Il prodotto del cotonificio risultava accessibile alle classi popolari grazie alla maggiore economicità e semplicità delle macchine per la sua lavorazione. Esso era in grado di sostituire non solo il lino e la canapa, ma per molti usi, anche la lana. Sulla diffusione dei tessuti in cotone dopo la metà del secolo Giuseppe Zanardelli nel 1857 scrisse che “(…) anche tra noi mutò ad un tratto la foggia del vestito dei nostri artieri e contadini, i quali alle rozze lane ad ai tessuti di lino e di canapa sostituirono i generalizzati fustagni” (TREZZI, 1988). Cesare Correnti (CORRENTI, 1844) riferì dei tentativi che si fecero a Gandino negli anni ’20 e ’30 dell’ ‘800 per introdurre innovazioni nel lanificio importando nuove macchine e maestranze dall’estero. Nel 1820 Marco Ghirardelli importò per primo macchine di cardatura e filatura dando il via all’industria moderna bergamasca (BARBIERI, 1996). Ne derivò una vera e propria rivoluzione.

La produzione prima decentrata in una casa su tre si concentrò negli opifici dove si utilizzavano i telai meccanici. Ignazio Cantù nella sua Storia di Bergamo e della sua provincia, edita nel 1859 scriveva:  

Ora sei fabbriche compiute, con macchine per cardassare, filare, tessere, feltrare, ridur a pelo e raderlo, e parecchie fabbriche piccole coll’antica filatura a mano si hanno in Gandino. Vi lavorano 515 telai, la Più parte riuniti in 27 opificj, e servono pei tessuti operati più fini, sussidiati da 45 macchine alla Jaquard, producenti sino a 8000 pezze annue di panno del valore complessivo di lire 600 mila, la massima parte grossolano, ottimo pel popolo. Onde è che in quel distretto si lavora più lana che in tutto il resto della provincia, e viene importata in gran parte dal Veneto, dalla Romagna, dalla Puglia, dall’Ungheria, dalla Russia, dal Levante, dall’Australia.  

La meccanizzazione della produzione della lana si sviluppò prepotentemente dopo la metà del secolo.  L’importazione nel Regno Lombardo-Veneto di macchine Houget e Teston, costituenti circa la metà del totale di quelle introdotte, passò da 1.600 nel 1847 a 131.758 nel 1867 (ROSSI, 1869). In queste condizioni le pur economiche produzioni artigianali dei contadini che continuavano ad essere realizzate con la “lana nostrana” entrarono in crisi determinando il ridimensionamento anche di questo sbocco della “lana nostrana”. Alla disponibilità di fustagni a buon prezzo si affiancò presto quella di panni di lana industriali.   Dopo la formazione del Regno d’Italia la concorrenza di centri lanieri di altre regioni si fece pressante e alla fine del XIX secolo non vi erano più nel bergamasco industrie laniere a ciclo completo. La locale industria dovette ripiegare su produzioni particolari tra le quali ebbero grande importanza le coperte. Il già citato Carlo Ghirardelli di Gandino era proprietario di numerosissime greggi che periodicamente faceva passare dei suoi stabilimenti per la tosa e, con la lana ricavata, fabbricava tre tipi di coperte: quelle grigie per l’esercito (esportate in diversi paesi), i panni da bigliardo e quelli per le tonache dei frati. (BARBIERI, 1996). A metà dell’800 la lavorazione della lana era in netta ripresa. A Gandino esistevano 6 fabbriche con macchine per cardassare, filare, tessere, filare feltrare, ridurre a pelo e raderlo, più varie minori ancora con la filatura a mano. Lavoravano 115 telai sussidiati da 45 macchine “alla Jacquard” che producevano 8.000 pezze annue di panno, in massima parte grossolano, per le classi meno abbienti. Si fabbricavano 15.000 coperte ordinarie più altre più fini per un valore di 36.000 lire l’anno. La produzione di coperte era attiva anche sul lago d’Iseo; anche qui la lavorazione della lana aveva tradizioni antiche. La lana “Si lava di solito con acqua pura di fonte o di lago. A Sale Marasino e a Marone, per purgarla meglio, si adopera anche una specie di terra detta follonica, che là si trova in abbondanza e che assai giova allo scopo” (BENEDINI, 1976)  Ma a cavallo del secolo si assistette ad un vero tracollo: da 60 stabilimenti del 1890 a 11 del 1911 (BARBIERI, 1996). La guerra con le forniture militari diede un po’ di respiro grazie al forte consumo di lane resistenti a basso prezzo. Dopo la guerra sorsero nel milanese lanifici moderni in grado di produrre con lane pettinate francesi e belghe stoffe di qualità sempre più ricercate dal mercato (TREZZI, 1988). Dopo l’ultima guerra le produzioni laniere tessili si concentrarono sempre di più nel comprensorio biellese e l’importanza del lanificio non solo bergamasco, ma anche lombardo cessò per sempre.  

Ai giorni nostri  

La produzione laniera gandinese subì un forte ridimensionamento occupando nicchie di mercato mentre molte ditte si riconvertirono ad altre produzioni, compreso l’utilizzo di fibre sintetiche, a dimostrazione di una inesauribile vitalità imprenditoriale.  La produzione di stoffe ordinarie a partire dalla “lana nostrana” andò sempre più declinando anche se, fino al 1997, la ditta Pasini (Lanificio Ariete) produceva ancora la stoffa per confezionare i gabà (o gabanòcc), il tradizionale mantello dei pastori. Già da tempo invece non si producevano più i pantaloni e i gilet di sàia un pannolana molto pesante e grossolano. I pastori furono gli ultimi consumatori di questi panni quando già era venuta meno la richiesta di altri prodotti per la cui manifattura era usata la lana delle pecore bergamasche. E’ così scomparsa anche la produzione delle coperte grossolane “di tipo militare” sostituite oggi da coperte calde e leggere prodotte con lane provenienti dall’Australia e dalla Nuova Zelanda (a Gandino sono ancora attivi i copertifici Rudelli e Zambaiti). Sino all’inizio degli anni’90 la lavorazione della lana nostrana trovava sbocco nella produzione dei materassi. Il raggiungimento di nuovi livelli di benessere aveva portato anche le famiglie rurali a sostituire l’uso dei cartocci di granoturco o di altri materiali di origine vegetale, con i materassi di lana. La concorrenza dei materassi in materiale sintetico ha gradualmente ridotto questa importante produzione laniera che è cessata a livello industriale nei primi anni ’90. In ragione delle caratteristiche della lana (capacità di assorbire l’umidità, forte potere isolante) vi è però una crescente domanda di prodotti da letto, diversi dai tradizionali materassi e coperte, che consentono nuovi utilizzi della lana. Si tratta di riempimenti di trapunte, coprimaterassi, cuscini. La lana utilizzata a questi scopi viene cardata e agugliata (3) e ne deriva un telo non tessuto di grande leggerezza che può trovare numerosi impieghi anche grazie alla sovrapposizione di più strati. Altra utilizzazione sono i cosidetti “teli pelliccia” ad imitazione del vello di agnello. Tali prodotti solo utilizzati per produrre teli antidecubito ma anche imbottiture per pantofole. La lana attualmente viene utilizzata anche per la produzione di tappeti e di moquette. Tali produzioni sono presenti anche a Gandino e in bassa Val Seriana ma utilizzano lane come quella delle pecore sarde molto grossolane e non adatte ad altri utilizzi. Le lane bergamasche, così come quelle delle altre razze alpine, trovano sbocco in larga misura presso il già citato Lanificio Ariete di Gandino che produce materiale per imbottiture e utilizza circa un milione di kg di lana succida. La materia prima “nostrana” (costituita da lane provenienti oltre che dalla Lombardia anche dal Piemonte e dal Veneto) rappresenta il 40% di quella totale (il 50% viene importato dall’Inghilterra e il rimanente dall’Italia centrale).  Sbocchi secondari della produzione di lana nostrana sono costituiti dalla produzione di feltri industriali che viene realizzata attualmente in bergamasca anche un feltrificio di Gazzaniga. Rispetto ai feltri in materiale sintetico quelli prodotti con la lana sono più resistenti alla temperatura e trovano diverse applicazioni specialistiche (GALLICO, 1993) . La feltrabilità della lana bergamasca rappresenta in questo caso un vantaggio e potrebbe renderla idonea anche per tessuti feltrati, un tipo di produzione tradizionale che, nell’arco alpino, è ancora molto attiva e, oltre tutto, viene spesso realizzata con pecore di tipo derivato dal bergamasco. La possibilità per la lana di recuperare valore è legata sia alla proposta di nuove utilizzazioni basate sull’immagine naturale della lana e alle sue proprietà igieniche e di comfort, ma anche sulla possibilità di sfruttare un “valore aggiunto” di tipicità e di tradizione che rappresenta per molte produzioni   agricole l’unica possibilità per sfuggire alla logica del mercato mondializzato e delle produzioni di massa. La capacità della moda dell’abbigliamento di ridare valore a un prodotto come la seta è stata sorprendente e non ci si dovrebbe meravigliare se anche per le lane nostrane si dovesse assistere a riproposte.  E’ interessante riportare l’esempio della Sambucana del Piemonte che, sull’orlo dell’estinzione ha saputo riprendere consistenza numerica grazie ad iniziative di valorizzazione commerciale dei prodotti da parte del Consorzio Escaroun (in occitano “piccolo gregge”) che, oltre alla valorizzazione dell’agnello, (UBERTALLE ET AL. 1993) ha recentemente intrapreso quella di prodotti di maglieria realizzati con lane sambucane commercializzate direttamente dagli allevatori (GALLICO, comunicazione personale). La valorizzazione della lana delle pecore trentine per la produzione di coperte tipiche (Federazione Allevatori di Trento) rappresenta un altro interessante esempio di riscoperta di un utilizzo delle lane nostrane per svariate produzioni in grado di trovare valorizzazione nell’ambito di iniziative di promozione turistica o di commercializzazione diretta.

 1 Da: COVA (1988)

2 ASM Commercio p.m. cart. 185

3 Operazione meccanica realizzata mediante “uncinatura” dei fiocchi lanosi al fine di favorire il loro intreccio.

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