La capra. Una storia culturale (e sociale)

cultura

 

di Michele Corti

(18.12.16) La simbologia e la rappresentazione della capra si prestano a considerazioni interessanti sui rapporti tra la cultura (ideologia, credenze), economia, società e ambiente. La “demonizzazione” della capra appare moderna perché, nel medioevo, il diavolo era rappresentato nelle forme più varie. Essa ha agevolato, insieme alla supremazia del razionalismo scientista e tecnocratico, la messa al bando delle capre nel XIX secolo. Vittima della modernità la capra si è presa le sue rivincite con il declino della disciplina sociale industrialista, con l’appannarsi dei miti e delle illusioni della scienza e con la rivalorizzazione neovitalista della natura. Un vero cerchio che unisce preistoria e postmodernità.

Cap.1 – Esiste una connotazione chiaramente negativa della capra nella Bibbia?

Cap. 2 – La svolta del medioevo

Cap. 3 – La connotazione positiva che emerge dal substrato culturale

Cap. 4 – La demonizzazione

Cap. 5 – La guerra alle capre

  1. Conclusione – Una rivincita clamorosa su tutti i fronti

Note

  1. Esiste una connotazione chiaramente negativa della capra nella Bibbia?

All’origine del discredito delle capre è opinione comune che vi sia la loro scarsa “popolarità” nell’ambito della tradizione giudeo-cristiana. Ma le cose stanno veramente così? Anche a prescindere dalla presenza di diversi stratificazioni culturali nella sacra scrittura (i profeti, per esempio, esprimono un contesto completamente diverso da quello più antico) può essere interessante verificare come la famosa pericope di Matteo sulla divisione operata da Gesù tra “capri e pecore” , in occasione del Giudizio finale, possa essere considerata una prova sulla precoce equiparazione nel cristianesimo tra la capra e il male.

Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra (Mt 25: 32-33).

Questo famoso passo ci pone di fronte, almeno in apparenza, ad una identificazione della capra con la negatività che pare non lasciare molta speranza per la reputazione di questo animale nelle società influenzate dal cristianesimo.  Katleen Weber (1) ha voluto però analizzare a fondo il significato di questa apparente valutazione oppositiva tra i due animali. Si è posta pertanto due domande: 1) la tradizione precedente veterotestamentaria giustifica la “dannazione” della capra? 2) cosa intendeva veramente far comprendere ai propri ascoltatori palestinesi Matteo?
La  Weber mette innanzitutto l’accento sul contesto culturale al quale si rivolgeva l’evangelista, a coloro cui si rivolgeva compilando il suo vangelo. Nel mondo siriaco-palestinese – a differenza di quello greco-romano – capre e pecore pascolavano insieme durante il giorno. Solo di notte, quando faceva più freddo, venivano divisi “i capri dalle pecore”,  perché i caprini hanno maggiore necessità di riparo e venivano ricoverati in modo diverso dagli ovini. Ne consegue che il significato dei due animali non poteva essere molto diverso, dal momento che erano parte di un unico sistema pastorale. A conferma di ciò si osserva che la lingua ebraica aveva un unico termine per indicare il singolo animale appartenente al gregge. Esso era applicato indifferentemente alle capre e alle pecore. Nelle poetica ebraica antica pecore e capre – sempre secondo la Weber –  rappresentano, senza assumere alcun significato oppositivo, il simbolo della prosperità pacifica. In ogni caso nella Bibbia non c’è una identificazione della capra (o meglio caprone) con il male. Capre e caproni erano offerti in sacrificio a Dio quindi non potevano essere graditi esseri “negativi”.

Il capro espiatorio Lev 16 :5-22 si caricava sì dei peccati e veniva inviato nel deserto (offerto al demone Azazel) ma nello stesso complesso rituale un altro capro veniva offerto dai sacerdoti a Dio (Lev. 16: 7-9). D’altra parte la capra non era l’unico animale ad essere utilizzato come “capro espiatorio” nei rituali del vicino oriente.

Nell’antico testamento non vi è altro che alluda ad una opposizione tra capre e pecore anche se Ezekiele (34: 17-22) è stato citato come precedente di Matteo. Si tratterebbe, però, di equivoci di traduzione perché il significato originale non rimandava ad un giudizio tra capre e pecore (come riportano le traduzioni moderne, specie dopo la riforma protestante) ma tra animali “grassi” e “magri”. Semmai sono gli animali maschi ad essere simboleggiati nell’antico testamento come esempi di arroganza e ingiustizia, ma da questo punto di vista l’ariete non ha un trattamento migliore del becco. In Daniele (8: 1-12, 20-21) l’ariete simboleggiava l’impero persiano, il becco Alessandro il grande. Nella cultura ebraica antica in conclusione capre e pecore condividevano una comune connotazione positiva in quanto elementi di una stessa, essenziale, economia pastorale.

Sant’Appollinare, Ravenna (VI sec.). Il mosaico risale all’epoca di Teodorico, prima della conquista bizantina

La  Weber interpreta quindi il passo di Matteo sul piano della paradossalità (quella che porterebbe un cammello a passare dalla cruna dell’ago). Per i suoi  ascoltatori di ambiente palestinese questa opposizione tra pecore (i buoni salvati) e capre (i dannati) è inaspettata, difficilmente comprensibile sulla base di quanto precedentemente osservato. Sottolinea la radicalità della giustificazione e la forza dell’esortazione al bene dell’evengelista. Le capre vengono distinte solo per una differenza apparentemente poco percettibile, perché la salvezza corrisponde ad un impegno coerente e senza cedimenti.

Del tutta diversa la percezione in contesti in cui pecore e capre pascolano in modo separato affidati a pastori differenti. Qui (ma Matteo non poteva prevederlo),  la parabola è stata intesa come identificazione della capra con il male. Si tratta, però, di elaborazioni posteriori. La Bibbia quindi non condanna le capre e la loro equiparazione al demonio deve spiegarsi al di fuori della scrittura.

Basilica dei ss. Cosma e Damiano a Roma (VI sec.), mosaico absidale, particolare dell’ordine inferiore

È però indubbio che l’immagine di Matteo, una volta estrapolata dal contesto palestinese, insieme a quei passi del nuovo testamento che esaltano il valore sacrificale dell’agnello identificandolo con il Salvatore (2), ha creato le premesse per la svalutazione della capra all’interno di un confronto oppositivo con la pecora.

Il Buon pastore. Aquileia, mosaico della basilica paleocristiana del IV sec.

Nelle sue prime espressioni, però, e poi vedremo ancora nel medioevo, l’arte cristiana non sembra accogliere e trasmettere un giudizio netto. Nelle più antiche raffigurazioni del Buon pastore prevale il realismo (tanto che a volte è raffigurato anche con il flauto del “demoniaco” Pan), per via della preoccupazione a voler sottolineare il carattere umano di Gesù. Così esso è stato anche (raramente) raffigurato con delle capre (a giudicare dalle caratteristiche corna) (sotto).

Roma, catacombe di Priscilla (III sec.)

Del tutto differente l’iconografia successiva quando, in contesto già bizantino, lo stesso Buon pastore è raffigurato in modo regale. Nel mosaico del mausoleo di Galla Placidia (sorella dell’imperatore Onorio) a Ravenna (V sec.), Gesù-pastore appare come il re e le pecore rappresentano il popolo. Nel contesto di un’ideologia imperiale risulta ovviamente conveniente far leva su motivi di legittimazione teologica della disciplina e obbedienza dei sudditi.

Mausoleo di Galla Placidia, Ravenna, V sec. Gesù re-pastore.

L’apoteosi della pecora nell’iconografia cristiana è però raggiunta, sempre a Ravenna,  nella basilica di Sant’Apollinare. Nel catino absidale l’affresco con al centro il santo – in qualità di intercessore – vede la presenza di dodici pecore che non rappresentano gli apostoli ma il popolo che si rivolge al proprio pastore. Altre pecore rappresentano gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni. Al di sopra del catino, nell’arco trionfale altre dodici pecore, in questo caso gli apostoli, convergono verso il Cristo (opera più tarda del VII-IX se).

L’importanza della raffigurazione della pecora nell’arte musiva ravennate attraversa i tre periodi: imperiale, ostrogotico e bizantino. Non influenzata da differenze etniche e religiose (gli ostrogoti seguivano l’eresia ariana ed erano germanici). La costante è rappresentata dall’ideologia della regalità, di certo accentuatasi nel periodo giustinianeo.

  1. La svolta del medioevo

Con l’alto medioevo l’influenza delle culture “barbariche” e guerriere presso le classi dominanti si rafforza e trova espressione anche nell’arte. Accanto a questo elemento ne va considerato uno ancora più rilevante, di carattere socioeconomico ma anche ecologico: si assiste – già alla fine dell’era antica – ad un ritorno all’economia pastorale anche laddove erano già state praticate le bonifiche e il territorio , in epoca protostorica o storica, era stato regolarmente oggetto di pratiche agricole (l’ager). La riduzione della popolazione e delle superfici coltivate, l’estensione del saltus (il territorio silvopastorale) eliminava le ragioni del conflitto tra pastoralismo e agricoltura e quindi della rappresentazione negativa della capra quale elemento di selvaticità, di disordine, di arcaicità, di marginalità in opposizione all’ordine della civiltà agricola, quella delle messi e dell’olio che la cultura antica greco-romana celebrava come espressione di civilizzazione.

Il paesaggio del saltus in un mosaico bucolico della Villa Adriana (residenza imperiale), Tivoli (II sec.)

D’altra parte, con l’affievolirsi del potere centrale, specie in epoca longobarda, era giocoforza che all’immagine dominante dell’agnello e del popolo-pecora si affiancassero una selva di simboli zoologici in cui si esprimeva la cultura della caccia e guerresca sotto tenui riferimenti cristiani. Di qui un fiorire di aquile, pavoni, cervi, leoni, lupi, chimere espressione di un immaginario che troverà poi espressione nella straordinaria e fantastica fioritura di immagini dei bestiari e nelle decorazioni delle cattedrali romaniche e gotiche. A quale significato cristiano faranno riferimento le capre delle formelle della basilica di Santa Maria Assunta di Aquileia? Qui le capre sono raffigurate “rampanti”, ovvero nell’atteggiamento tipico di brucatura delle fronde arboree o arbustive (in seguito fissato dall’araldica). Sono capre dai particolari realistici, però: le corna anulate, la codina all’insù, la barba. Un proposito che intende far escludere, grazie a dettagli “discriminanti”, sia etologici che morfologici, qualsiasi scambio con la pecora.

Pluteo longobardo con formelle quadrate raffiguranti simboli della cristianita, periodo del patriarca Massenzio, basilica patriarcale di Santa Maria Assunta. (VIII sec.).

Nel medioevo la connotazione negativa (comunque “blanda” in epoca paleocristiana) della capra si “rilassa”. Ed essa trova largo spazio nelle decorazioni, ad alto e basso rilievo, che hanno fatto delle cattedrali non solo delle straordinarie “bibbie dei poveri” ma anche vere e proprie enciclopedie di pietra, ricche di narrazioni laiche e civiche di vario tipo.

Battistero di Verona, fonte battesimale (fine XII sec.): altorilievo con pecore e capra (in alto)

Basilica di Santa Maria Maggiore a Bergamo alta. Decorazioni con scene pastorali e di caccia. Capre inseguite dal lupo (XIII sec.) (orizzontalizzato)

Ancora nel XIV sec. le capre sono ben presenti nell’arte sacra cristiana.  Le raffigurazioni della natività di Gesù e l’annuncio ai pastori presentano (realisticamente) greggi misti di capre e pecore. Non è senza significato che quelle che diventeranno con la modernità candide pecorelle, rigorosamente acorni e senza ombra di pigmentazione (secondo il modello tardo antico e bizantino che abbiamo visto nell’arte basilicale), nel medioevo sono ancora pecore “realistiche”, di colore indifferentemente nero o bianco e provviste di corna ritorte. Corna “scandalosamente” simili a quelle delle divinità cornute demonizzate (ispirate tanto al toro quanto all’ariete e al becco). La stessa considerazione vale per la distinzione tra il bianco (fragilità/ debolezza/ purezza) e il nero (robustezza/ forza/ fecondità/ malvagità), che presenta evidenti parallelismi con il simbolo delle corna. L’opposizione tra il bianco e il nero si ritrova in tante culture, spesso, però, con simbologia invertita tanto che il nero e il bianco appaiono alternativamente –  persino nelle nostre stesse culture etnografiche – quale simbolo della morte. La cultura occidentale (ma non a livello popolare) è sicuramente stata influenzata dalla fondamentale distinzione praticata nella Grecia classica, tra animali bianchi, da offrire in sacrificio agli dei celesti (olimpici) e animali neri, da sacrificare agli dei inferi (3). Il cristianesimo da parte sua ha poi assegnato agli inferi un connotato demoniaco associato invariabilmente alla presenza di demoni cornuti.

Grotta di Lascaux (Francia). 13.000 anni fa.

Il corno rappresenta un simbolo di grande importanza associato al toro, alla capra, all’ariete un  simbolismo antico che risale alla fase della pre-domesticazione di questi animali simile ma che si ricollega al paleolitico quando s esprimeva attraverso figure dotate di palchi del cervo (il cui rinnovo annuale – a divverenza del corno dei bovidi – rimanda ad ulteriori significati). Rimandiamo però ad altra sede la trattazione del simbolismo del corno (che ha così importanza nella storia culturale della capra) limitandoci qui a ricordare come le corna a partire dai Signori degli animali paleolitici, per passare agli dei e sovrani, sono simbolo di forza e fertilità e di protezione dagli influssi maligni che trova larghissimo riscontro presso vari popoli e in varie epoche. L’uso di elmi da guerra ornati di corna trova riscontro presso etruschi, greci, romani (4). Significativamente esso è stato rimosso ed identificato con i “barbari” nel contesto di un complessivo ribaltamento culturale che ha anche portato, fin dai tempi della Grecia classica a ridimensionare il ruolo del dio cornuto a divinità “specializzate” (Pan, i satiri), relegate nell’ambiente silvano, poi – ma siamo già alla fine del medioevo – a fissare, nel contesto cristiano, l’associazione tra le corna e il diavolo e quindi, specie in ambiente mediterraneo (nel Nord Europa il marito tradito è identificato con il cucolo), a identificare le corna con un simbolo di disonore (5).
Si tratta di una lunga parabolA. Tanto che non deve meravigliare che, ancora nella più celebre natività giottesca (sotto), quella della cappella degli Scrovegni di Padova (ca 1305), si nota chiaramente una capra di colore bruno con corna e barba a breve distanza dalla sacra famiglia. Insieme a pecore dalle vistose corna.

Giotto, Cappella degli Scrovegni, Padova (ca 1305)

Giotto e bottega. Chiesa inferiore di San Francesco d’Assisi. Natività (ca 1310)

Anche nella  natività di Giotto e bottega della chiesa inferiore di Assisi (ca 1310) l’artista ritrae un gregge misto di pecore e capre. Alcune pecore sono nere e cornute (come l’attuale pecora massese). La capra è raffigurata in modo molto preciso e realistico, con pelo corto, senza bioccoli, e la testa chiaramente conformata. Si nota anche una capretta (vicino al cane). Ancora più interessanti le scene di annunciazione degli angeli ai pastori. Sotto quella affrescata nella basilica di Sant’Abbondio a Como (ca 1320).

Maestro di Sant’Abbondio. Basilica di Sant’Abbondio, Como (ca 1320)

In questa raffigurazione, come in altre dell’epoca, le pecore sono presentate in modo emblematico con la testa in basso. Incuranti della presenza degli angeli continuano a brucare. La capra, invece, guarda verso l’alto. Partecipa della visione dell’angelo insieme ai pastori e al cane. Un modello di raffigurazione che troviamo anche in altre opere. In forma ancora più esemplare nella miniatura sotto riportata (della fine del XIII sec.). Qui le pecore, sempre a testa bassa e in gruppo (a sottolinerne il carattere gregario) brucano l’erba, mentre la capra non solo guarda in alto, verso l’angelo, ma con la zampa strattona la veste del pastore che, avvertito dall’animale, ruota il capo verso la visione. Un comportamento per nulla fantasioso se solo si conosce l’etologia della capra e la sua capacità (condivisa solo con il cane e il cavallo, almeno secondo quanto risulta dalle attuali conoscenze etologiche) di rivolgersi all’uomo con il linguaggio del corpo o con lo sguardo (6).

Annonce aux bergers.  Livre d’images de Madame Marie Hainaut, vers 1285-1290. Paris BnF Naf 16251

Molto bello anche l’affresco, sempre sul tema dell’annunciazione ai pastori. Affresco nella chiesa S. Giorgio, Rhäzüns, nel Canton Grigioni (1400 circa). Qui, ancora una volta, il cane e le capre guardano in alto con la bocca aperta (espessione di gioia e di stupore). Le pecore (che si distinguono per il disegno del vella ma sono anche qui, realisticamente, cornute, in quanto appartenenti a ceppi alpini relativamente “primitivi” (come sappiamo dell’etnologia zootecnica), guardano avanti o verso terra.

Anonimo. Annunciazione dei pastori. S. Giorgio, Rhäzüns, nel Canton Grigioni (1400 circa)

Non si può non concludere osservando che la capra, in queste raffigurazioni dell’arte medioevale cristiana,  è presentata in modo più positivo della pecora.
Con il tempo questa presenza delle capre nelle scene legate alla natività si fa rara. Se le capre sono presenti è solo in funzione “paesaggistica” e, comunque, al margine della scena. Si distinguono le natività e le annunciazioni ai pastori della scuola dei Bassano (la famiglia Dal Ponte di Bassano del Grappa). Sotto una natività di Francesco il giovane (attribuita) della fine del XVI secolo. In questo caso, però, si tratta della sopravvivenza di una “tradizione di famiglia” di una dinastia di pittori (attiva dal XV sec.) specializzata nella pittura di genere (pastorale) secondo moduli che sono reiterati nel tempo. Non si può comunque fare a meno di osservare come nell’opera qui riportata la capra osservi con la curiosità e l’atteggiamento vigile, tipico della specie la scena.

Francesco Dal Ponte il giovane (attribuita) Natività. (fine XVI sec.). Brescia, Musei Civici di Arte e Storia. Pinacoteca Tosio Martinengo

  1. La connotazione positiva che emerge dal substrato culturaleA margine della nostra breve rassegna sulla presenza della capra nell’arte cristiana è utile citare un esempio di arte minore, tratto da quella ricca e stimolante fonte di documentazione iconografica rappresentato dagli ex-voto. L’esempio proviene da un santuario alpestre dell’alta Valcamonica – area di radicata tradizione di allevamento caprino poco influenzata dalle politiche anticapre della modernità – ma anche da un contesto al di fuori di un rigido controllo sulla congruità dei contenuti con l’ortodossia della dottrina che caratterizza le opere “ufficiali” destinate ad essere esposte nei luoghi di culto (specie nei centri importanti o comunque nelle chiese parrocchiali).

Ex. voto. Santuario alpestre (quasi 1800 m slm) di San Vito e Sant’Anna Incudine (Valcamonica) XVIII sec.
Emerge così alla superficie una “teologia popolare” che esprime i livelli più profondi delle credenze di “lungo periodo”. Se nelle raffigurazioni dell’annuncio ai pastori da parte degli angeli l’apparizione dei messaggeri celesti è concepita come reale (le pecore non si accorgono perché nella loro insensibilità, preoccupate di continuare a brucare) qui la visione dei santi martiri, intercessori presso la Vergine, è immateriale (ce lo ricordano le nuvolette). Risulta pertanto del tutto eterodosso il farne partecipi le capre. Eppure si nota chiaramente nel dipinto come le capre, compagne di quella che giace a terra ammalata, e per la quale è stata richiesta la grazia della guarigione, sollevano anch’esse – come i pastori – gli occhi al cielo quasi a supplicare anch’essi le potenze celesti. La capra viene qui rappresentata come non solo capace di sentimenti nei confronti dei conspecifici ma anche in qualche modo partecipe di una sfera soprannaturale coerentemente con una visione animista che ha continuato a permeare la cultura occidentale e cristiana sino al XVII sec. (7)
In queste espressioni di un simbolismo della capra, connotato positivamente,  non è difficile scorgere l’influsso, a livello di substrato culturale, delle mitologie più antiche mediato, con buona probabilità da quella germanica, che largo spazio assegnava alla capra (8) e che larga eco ha lasciato nel folklore. Anche in questo caso rimandiamo ad un successivo approfondimento il tema della capra nella mtologia (nordica, ma non solo) e in questa sede ci limitiamo ad alcune considerazioni.
Tanngnjóstr e Tanngrisnir. Spilla in bronzo dell’età del ferro da uno scavo a  Tissø presso Kalundborg. Museo nazionale danese.

Indubbiamente la mitologia nordica assegna alla capra un ruolo importante. Un fatto che può essere interpretato con una considerazione positiva “senza se e senza ma” del ruolo dell’animale in un contesto ben diverso da quello del Meditterraneo. Un contesto con agricoltura poco estesa e sviluppata, e quindi con il mantemimento di una cultura pastorale. La capra, in ambiente nordico, è la provvidenziale alleata dell’uomo nell’opera di sottrazione alla foresta e di mantenimento di spazi agropastorali.
Due capre (Tanngnjóstr e Tanngrisnir) trainano il cocchio di Thor, divinità di primo piano (dopo Odino) che riunisce il ruolo di divinità celeste del tuono e della fertilità (quest’ultimo come riflesso sincretico che assorbe il livello religioso arcaico neolitico).  L’arcaicità delle rappresentazione più antiche di Thor, in grado di spiegare appieno il nesso con la capra, simbolo pr eccellenza di fertilità, emerge dalle incisioni rupestri di Bohuslän nella Svezia meridionale e risalenti all’età del bronzo (sotto). Il dio, che si riconosce dal martello, è raffigurato in forma itifallica, con lunghe corna a luna, una testa animale molto allungata.
Il carro di Thor. Incisione rupestre (ca 1000 a.C.). Bohuslän. Svezia.

Un’altra capra, nel wahalla, fa sgorgare di continuo idromele per dissetare i guerrieri, brucando continuamente l’albero cosmico Læraðr.  Un modello che fa della capra un simbolo di prosperità, fertilità e abbondanza e che trova un riscontro emblematico nella Cornucopia, il corno dell’abbondanza originato da un corno della capra Amaltea, l’animale che aveva allattato Zeus nascosto dalla madre in una caverna del monte Ida, nell’isola di Creta.
La capra Heiðrún. Manoscritto islandese del XVIII sec.

Nonostante il ruolo della capra nella mitologia nordica la cristianizzazione ha comportato anche qui una demonizzazione della capra (e del cavallo) e  l’identificazione della capra con il diavolo ha permeato, come da noi, le leggende popolari. La forte presenza della capra nella mitologia (a differenza della pecora che è assente dai racconti mitologici e dalle rappresentazioni figurative), ha lasciato tracce ben visibili nell’immaginario popolare.
La capra di Yule (Yule è la festività sulla quale si è innestato il Natale nei paesi scandinavi) nella sua funzione di dispensatrice dei regali ai bambini rappresenta la sopravvivenza del ruolo simbolico di dispensatrice di abbondanza e fertilità. Anche se spodestata da Babbo Natale (diventandone l’animale che traina il carro dei doni), la capra di Yule, in forma di bambola da donare o appendere all’albero di Natale o come enorme fantoccio di paglia eretto nelle piazze, rappresenta ancora una tradizione viva (o tornata viva) in Svezia. Essa rappresenta un esempio dei nessi tra fertilità animale e quella vegetale e appare come un riflesso dei riti legati allo “spirito del grano”,  identificato anche nel folklore europeo – ancora vivo ai tempi di Frazer – con un animale, spesso la capra, di cui veniva realizzato un simulacro (una bambola, come la capra di Yule) utilizzando l’ultimo mannello, o del legno, o ponendo delle corna o dei fiori sull’ultimo covone, o identificando anche con la capra l’ultimo mietitore (9).

Echi di un ruolo benefico della capra sopravvivono, però, anche nelle nostre tradizioni folkloriche, nonostante che esse, dopo la controriforma e l’epoca della caccia alle streghe, siano state fortemente pervase dalla equiparazione della capra con il demonio. Vi sono però sopravvivenze dell’ aspetto benefico dei caproni fatati così “screditati” nei racconti del sabbah delle streghe. In Carnia una leggenda narra di un merciaio ambulante (un cramar) che, trovandosi in Baviera desiderando tornare a casa monta in groppa a un caprone che lo fa volare sopra le Alpi (10). Un’altra leggenda, in cui la capra ha un ruolo benefico, è collocata in Valcamonica: un orso terribile aveva la sua tana sotto la rupe di Castel òrset (Angolo). Uno scoiattolo, in cui si era incarnata l’anima di una vittima, suggerì di preparare una pozione da far bere alla belva preparata con sangue di falco e latte di capra rossa. Ma i pastori non avevano capre rosse. In una notte insonne un vecchio pastore ode un belato. Lo segue ai piedi della Presolana e appare una capra rossa su una parete rocciosa. Il vecchio faticosamente la raggiunge e munge. Tutto va bene e l’orso non si fa più vedere (11). L’uso di applicare sopra stalle e fienili corna e teschi di capra, con significato protettivo (dal malocchio) e propiziatorio (della fertilità), è ben vivo ancora ai nostri giorni.

Ardesio (Valseriana). Sopra la porta di una stalla (foto Ruralpini)

  1. La demonizzazione

Pan insegna al pastore Dafni come suonare il flauto. Copia romana rinvenuta a Pompei di statua greca del II sec. a.C.

Pan è stato spesso indicato come il calco del diavolo cristiano. Ma questa non può rappresentare la sola o principale spiegazione della corrispondenza demonio-capra per il semplice fatto che, nonostante l’indubbio influsso della cultura ellenistica (che termina con la nascita dell’impero romano) sul cristianesino nascente, quest’ultimo, per secoli, non ha utilizzato l’immagine del dio-capra come simbolo del demonio. È anche verosimile che diverse divinità dell’antichità abbiano contribuito a costruire l’immagine del diavolo nella religione cristiana: l’egizio Bes, l’etrusco Charun, dio dei morti oltre a divinità e demoni del vicino oriente.
Breviario, Rouen, XV sec. Biblioteca di  Besançon, bibliothèque municipale, ms. 69, p. 269

Affermatasi solo in epoca ellenistica, la raffigurazione di Pan (e dei satiri) con zampe e altri attributi caprini (in epoca classica il dio e i semidei ricalcati sulla sua immagine erano raffigurati in forma antropomorfa o anche con attributi equini), non ha influenzato l’arte paleocristiana (che tende a rappresentare il diavolo in forma antropomorfa) e nemmeno quello medioevale.
Bodleian Library, MS. Douce 134, f. 100r (i diavoli torturano i dannati). Livre de la Vigne nostre Seigneur. France, c. 1450-1470

Il diavolo medioevale assume sembianze teriomorfe e ibride dagli effetti mostruosi e orripilanti anche se, al di là delle corna, l’aspetto animale rimanda più frequentemente agli uccelli, non tanto per le ali da pipistrello o da uccell – che richiamano antiche divinità e gli angeli decaduti – quanto per le zampe, sia che siano palmate o artigliate. Pedocca (piede d’oca) era una delle più comuni allusioni al diavolo lella parlata milanese.
Afrodite, bassorilievo, periodo classico (ca 450 a.C.)

È solo con la caccia alle streghe, che inizia nel 1330 – dopo la peste che sconvolse l’Europa – ma che ha il suo apice in piena modernità, che il diavolo del sabbah è identificato con il caprone. Un’identificazione favorita dalla tradizione iconografica dei demoni cornuti e dalla qualificazione della capra quale animale lascivo. La personificazione di Satana, però, ha rappresentato un salto di qualità, una discontinuità.
The Dunois Hours, France (Paris), c. 1339 – c. 1450, Yates Thompson MS 3, f. 172v

Satana-caprone è protagonista nei racconti del sabbah oggetto di venerazione, in particolare attraverso l’obsculatio ani, il bacio all’ano, che viene documentato nelle xilografie dell’ epoca come stigma satanico, omaggio delle donne al caprone-demonio e comunque al cosiddetto signore del “zuogo” (12), colui il quale sovrintende agli incontri di sesso e dissoluzione, che si tengono – secondo le deposizioni degli inquisiti – nelle radure discoste dai centri abitati. Dove e quando nasce questa identificazione tra capra e Satana? Il rito dell’obculatio ani di caproni-diavoli appare nel XV secolo, nell’ambito di processi per stregoneria in Francia (13).
Streghe con una capra. Hans Baldung Gien (1515). Tra le varie associazioni della capra alla stregoneria e al demonio va ricordato che una delle “specialità” delle streghe (come emergeva dalle confessioni estorte con la tortura) consisteva nella trasformazione in animali. Dopo il gatto era la capra l’animale in cui più frequantemente si trasformavano le streghe. Evidentemente vi era uno scambio e sovrapposizione di immagini tra le streghe, il diavolo e le antiche divinità  pagane.
Le descrizioni delle streghe e del sabbah, che tanto influsso hanno avuto sull’arte e la letteratura furono largamente influenzate dall’opera dei domenicani Heinrich Institor (Krämer) e Jakob Sprenger: il Malleus Malleficarum (14). Edita per la prima volta a Strasburgo nel 1486, l’opera ebbe un grande numero di edizioni, non solo nei primi decenni ma anche nei secoli successivi (ebbe 28 edizioni fino al 1669). Era il manuale degli inquisitori cattolici e protestanti, per quanto – va sottoineato –  la chiesa cattolica (molto più prudente e moderata in fatto di persecuzione delle streghe dei protestanti e delle autorità laiche) non l’abbia mai ufficializzato.
Nelle numerose opere sulla stregoneria e nell’iconografia che ne derivò il povero caprone (con l’aggravante di essere nero) diventa in modo indiscutibile la personificazione di Satana. Salvo rappresentare anche “demoni minori” nelle scene più complesse e con vari personaggi diabolici (15).
Frontispiece from Johannes Praetorius, Blockes-Berges Verrichtung, 2nd ed. (Leipzig: J. Scheibe, 1669). (University of Chicago Library, Special Collections Research Center.)
La capra è veicolo delle streghe verso il sabbah, circostanza che riprende, in forma demonizzata, il ruolo della capra quale veicolo delle divinità (lo abbiamo visto nel caso di Thor, ma ciò vale anche per Afrodite e le baccanti e Agni, la divinità indù del fuoco).
La Strega di Albrecht Dürer. Incisione su rame, ca 1500

L’identificazione della capra con il demonio è ampiamente presente in opere di artisti rinascimentali famosi come Dürer e del suo allievo  Hans Baldug Grien (che fu molto prolifico in rappresentazioni del sabbah). Secondo la Davidson (16) questi artisti raffiguravano le streghe non come realtà immaginarie ma, in sintonia con il loro secolo, ben reali, circostanza che sconcerta le idee “moderne” sul rinascimento ma che non fa altro che confermare come la visione imposta dalla modernità (tutt’ora, almeno in parte, ancora accettata) del medioevo e rinascimento sia smentita dalla storia (e in larga misura ribaltata). È anche interessante constatare come l’arte rinascimentale recuperando l’immaginario della mitologia classica metta a disposizione delle forme artistiche più popolari il materiale iconografico per la rappresentazione del diavolo in forma caprina. Quella rappresentazione che tenderà a consolidarsi nella successiva e più acuta fase della caccia alle streghe nel tardo XVI e  nel XVII secolo e diventa “standard” nel XVIII secolo.

Un satiro in una incisione su rame di Albrecht Dürer (ca 1505)

Annibale Carracci, Pan e Diana, Palazzo Farnese, Roma (fine XVI sec.). Mentre l’èlite aristocratica si dilettava di mitologia greca il caprone, Pan, Diana (protagonista delle demoniace “cacce selvagge”) diventavano materiali per alimentare la caccia alle streghe e la paura nei ceti popolari
Più tardi si impegnò nel genere del sabbah e del “caprone” anche Goya con due opere famose. Questi artisti, sia che raffigurassero personaggi mitologici per i ricchi committenti appassionati dell’arte classica, o che ricreassero con la fantasia artistica le scene del sabba descritte dagli inquisitori, contribuiranno a creare un immaginario di “paure”.  Esso si diffuse attraverso la tecnica “popolare” della xilografia (da non confondersi con l’incisione su metallo), in grado di raggiungere ampi strati di popolazione influenzando il folklore.

Da qui una fioritura di leggende dove il demonio assume sembianze caprine. In un filone di leggende, diffuse su tutte le Alpi, una donna tentatrice rivela la propria natura demoniaca lasciando intravedere zampe e pelo di capra sotto le vesti muliebri, in in altro filone il demonio si rivela lasciando impresse nella roccia le impronte degli unghielli caprini, in un altro ancora un cacciatore (o un pastore) si carica un caprone (ferito o ucciso) sulle spalle. Quest’ultimo diventa sempre più pesante e l’uomo lo deve posare a terra e resta terrorizzato nel vedere il caprone risanato fuggire lontano sghignazzando. Vi sono poi numerose leggende che raccontano di un essere mostruoso, in parte o in toto con aspetto di capra, protagonista di imprese malvagie. A queste “paure” che dovevano indurre i frequentatori della montagna (pastori e cacciatori) a non abbandonare le pratiche di pietà o a cadere in tentazioni quando si trovavano in montagna, si aggiungeva quella del suono di campanelle di capra che, udito in assenza di capre che le portassero, rappresentava un sinistro avvertimento della presenza di anime “confinate”, morti che non riuscivano a trovare posto neppure all’inferno e che quindi tornavano sulla terra. Quanto alone di sospetto attorno alle povere capre.
Francisco Goya, Il grande caprone (Sabba) (1795). Museo Lázaro Galdiano, Madrid

5. La guerra alle capre

A cavallo tra XVIII e XIX sec., la modernità illuministica e tecnocratica lancia   la “guerra alle capre”, palesemente motivata dalla volontà di favorire gli interessi economici delle élites e di annullare “ammortizzatori sociali” e potere decisionale sull’ utilizzo delle risorse locali. Un fenomeno che si registra sia in Francia (17) che in Italia (18) e che interessa soprattutto le comunità di montagna che erano riuscite a mantenere sino all’ora ampi spazi di autogoverno (e l’allevamento caprino già in larga misura bandito dalle pianure).
In Lombardia ad interessarsi della questione dei boschi e delle capre troviamo un noto esponente dell’illuminismo: Cesare Beccaria. Egli, nel 1783, espresse in seno al governo milanese (il Magistrato camerale) una posizione in materia di boschi nettamente a favore degli “interessi forti” dell’epoca. Suggeriva di obbligare i comuni a vendere i boschi ai proprietari delle fucine (i grandi consumatori di legna) e di limitare drasticamente l’allevamento caprino (19). Le “riforme” proposte da Beccaria furono approvate, anche se solo in parte. L’editto del 9.5.1784 proibiva il pascolo delle capre “in qualunque altro sito, fuorché nella porzione di fondo che verrà destinato dal comune” e assegnava al governo la decisione sul numero di capre allevabili in un comune. Definita la quota di boschi indispensabili ai bisogni dei residenti, il resto doveva essere periodicamente tagliato, con diritto di prelazione da parte da parte dei proprietari delle miniere e delle fucine.  L’editto cadde nel nulla, come tante grida precedenti. Lo stato non aveva ancora strumenti coercitivi e di controllo abbastanza forti e le comunità erano ancora agguerrite e decise a difendere i loro diritti e le loro autonomie (20). Ma ancora per poco.
Cesare Beccaria. Uno dei fautori dell’eliminazione delle capre con il chiaro intendimento di favorire l’industria dell’estrazione e della prima lavorazione del ferro, forte utilizzatrice dell’energia delle biomasse legnose
La tempistica della “guerra alle capre” è soprendentemente parallela in Francia e negli stati italiani di antico regime e della restaurazione.
Il XVII secolo è caratterizzato, sia in Francia che in Italia, da bandi contro capre e pecore senza distinzione (più “tollerante” il Ducato di Milano). Tra XVIII e XIX secolo avviene qualcosa di simile al giudizio universale di Matteo: le pecore – cui sono interessati grossi proprietari terrieri e che possono alimentare l’industria laniera – sono dichiarate utili alla nazione e da incoraggiate, le capre andavano eradicate. In realtà, fatto più evidente nel sud della Francia, l’affermazione dell’orientamento commerciale dell’allevamento ovino, legato alla produzione di lana e l’affermazione di un capitalismo mercantile risale alla fine del medioevo e con essa quella della competizione per i pascoli tra le capre e i greggi ovini commerciali (21).Non dobbiamo, però, pensare che nell’Italia settentrionale le cose fossero molto diverse.  A perorare la causa dell’allevamento ovino nel XVI-XVII secolo nello Stato di Milano sono personaggi di rilievo, non solo proprietari aristocratici che intendono allevare ovini sulle loro terre ma anche imprenditori della transumanza come Ognibene Grassello, Cremonese (che spingeva le proprie greggi sino all’astigiano) definito “persona benemerita di sua Maestà” che ottiene una “patente” in grado di  proteggerlo dai “fastidi” procurategli dalle comunità (22). Nel corso del periodo tra XVI e XVIII sec., in ogni caso le pecore transumanti lombarde furono costrette – sotto la pressione dell’mpliamento dell’allevamento bovino da latte, ad utilizzare pascoli alpini sempre più marginali e a dirigersi per l’alpeggio in Piemonte, Svizzera e Tirolo e fu solo nei primi anni del XIX secolo, con il tentativo dell’introduzione delle pecore merino in Piemonte e in Lombardia che l’atteggiamento delle autorità governative verso la pecora si fece favorevole differenziandosi da quello, sempre più negativo verso la capra (23).  In Francia, invece (dove nelle Alpi e prealpi del Sud secche non vi poteva essere concorrenza con i bovini da latte, i greggi espandendosi e spostandosi verso aree marginali, entravano direttamente in conflitto con le capre. Qui, inoltre, veniva innescato un conflitto anche con l’aristocrazia interessata all’uso dello spazio silvopastorale per scopi venatori (24).

Rudere di un antico forno fusorio a Fiumenero (Valseriana)
Da noi, invece, il conflitto era legato alla forte richiesta di biomassa legnosa per i processi industriali, a partire da quelli dei forni di fusione del minerale di ferro. La competizione con altre industrie che, alla fine del XVIII sec. caratterizzavano il panorama di una prima timida industrializzazione (vetro, ceramiche, seta) spingeva ad uno sfruttamento intensivo dei boschi cedui che venivano sottoposti al taglio con turni di pochi anni. In queste condizioni il conflitto con la capra (che poteva effettivamente provocare danni gravi ai polloni di ridotto diametro) era acuto (25).
L’economia, però, non è che una spiegazione. La componente culturale è indissociabile da quella sociale ed economica in tutto questo processo e non è possibile separare cause ed effetti.

La caccia alle streghe, la riforma protestante e quella cattolica sono alla base dello sradicamento (e folklorizzazione) delle manifestazioni di religiosità cosmica, della desacralizzazione della natura, della svalutazione di ogni sapere contestuale che sfugge al controllo delle strutture di potere.   Esse sono da intendere come la componente ideologica  di un grande processo di  disciplinamento sociale finalizzato all’imposizione delle strutture della modernità: la centralizzazione politica, l’istituzionalizzazione della cura della salute e dell’assistenza, il dominio del mercato, il peso crescente della fiscalità, la fabbrica. La perdita di capacità di controllo sulle risorse locali e quindi la compressione dell’autonomia delle comunità rurali è passata attraverso l’usurpazione delle terre comuni, l’abolizione degli usi civici, dei diritti di pascolo, la trasformazione della gestione forestale da criteri di di utilizzo multifunzionale da parte delle comunità a criteri di ricerca del massimo profitto, la perdita di controllo sul territorio in forza dello svuotamento degli istituti dell’autonomia locale e della crescita di potere delle agenzie tecnico-amministrative dello stato.
Il ruolo dell’allevamento caprino nella società preindustriale era troppo importante per non essere oggetto di attacco da parte della modernità e delle sue istituzioni (politiche, scientifiche, religiose). La capra era strumento di sussistenza prezioso all’interno di un’economia integrata di piccolo allevamento. “Va detto che le capre, in generale,  esistono per il vantaggio di coloro che non hanno proprietà a spese di coloro che le hanno” osservò un prefetto francese del periodo successivo alla rivoluzione (26). Un concetto analogo era espresso anel 1820 dalla Delegazione provinciale di Brescia (organo con funzioni simile alle prefetture): “tutta l’utilità delle capre deriva dal non costar nulla il loro mantenimento, vivendo a spese altrui” (27).

Una guardia forestale del Regno di Sardegna
Nella Francia pre-rivoluzionaria, così come negli stati italiani di antico regime, le misure anti-capre erano come le grida manzoniane. Dovevano essere continuamente reiterate, erano oggetto di  deroghe e negoziazioni. Il trionfo della borghesia non però poteva ammettere questi metodi. Rispetto alle antiche classi dirigenti le nuove non erano influenzate dal sentimento religioso e da concezioni “organicistiche” del corpo sociale, per esse valeva solo un freddo interesse di classe senza troppi scrupoli.  La borghesia al potere poteva contare non solo sui rafforzati strumenti coercitivi dello stato ma anche sull’indebolimento delle strutture di solidarietà e sugli ammortizzatori sociali che avevano condizionato i rapporti di classe nell’ancient régime.
Le capre  rappresentavano non solo una risorsa per la sussistenza, e quindi una condizione da eliminare per forzare l’entrata delle comunità rurali nel mercato, ma anche un simbolo di disordine opposto al progresso razionalizzatore. Simboleggiavano tutto quello che la borghesia e la razionalità amministrativa e tecnocratica volevano spazzare via in nome della potenza della nazione: l’arretratezza contadina, i confusi diritti sui beni comuni che condizionavano il diritto di proprietà privata, la resistenza all’autorità statale. Lo stato post-rivoluzionario disponeva anche di strumenti ideologici decisamente superiori a quello di antico regime che furono messe in atti anche per dimostrare che i nuovi credi basati sullo stato-nazione, sul mercato, sul progresso, sulla scienza erano in grado di spezzare la resistenza popolare.

Oggi sappiamo che la deforestazione, argomento utilizzato per la “criminalizzazione ecologica” della capra nel contesto delle nuove ideologie laiche, era da attibuire ai processi di industrializzazione e urbanizzazione che inducevano una forte nuova domanda di legname da opera e legna da ardere. La capra era un ottimo “capro espiatorio”. Ancora nell’epoca dei “lumi” venivano  messe in campo contro le capre – siamo già nel XIX secolo –   non solo argomenti catastrofisti (tra cui il cambiamento climatico) (28) ma erano riciclate accuse “medioevali”. Il morso della capra fu a lungo considerato “velenoso”.
J.M.W. Turner. Una valanga nei Grigioni (1810). Questo dipinto romantico esprime bene il quadro drammatico che il Gautieri nel suo trattato anti-capre attribuiva alle conseguenze del pascolo caprino: “Franati i monti, intisichiti pel freddo alle loro falde gli alberi, alzato il letto de’ fiumi e reso incapace a contenere le loro acque che già traboccano e inondano le sottostanti campagne, aumentati ed abbassati i nevali ed i ghiacciaj, fulminati i tuguri degli alpigiani, inaridite alla pianura le messi, mal sicure le case”.  Una vera Apocalisse.
Giuseppe Gautieri, Ispettore capo ai boschi sotto il Regno d’Italia e il Regno Lombardo-Veneto, nel suo trattato (ferocemente ) anticapre, ma che si sforza di apparire bipartisan e ragionevole, rigetta come credenze diffuse ma non dimostrate quelle relative alla velenosità del morso della capra salvo poi riferire che: “L’ispettore Spini osa asseverare che il morso della capra è tanto fatale all agricoltura quanto è velenoso all’umano genere quello dell aspide” e concludere con una considerazione che, se da scienziato non può avvalorare la tesi della “saliva velenosa” di fatto conferma l’opinione sugli effetti esiziali del solo “tocco”: “Il guasto che recasi dalle capre alle piante è tanto grande che, tocche appena dal loro morso se ne risenton moltissimo, spesso rimangono mostruose e soventi muoiono”  (29).
La capra dell’età dei lumi: esclusa, bandita, condannata, sottoposta a “strumenti di contenimento”.  Una proposta di “educatore” per capre del 1788. Non sfugge l’analogia con i “poveri” e i “marginali” ai renitenti della disciplina industriale, anch’essi oggetto di esclusione, confinamento in istituzioni concentrazionarie (manicomi, case di lavoro, case dei poveri).

Il successo delle politiche anti-capre (che non fu mai ovunque totale ma che conseguì l’eliminazione delle capre anche da alcune aree montane) non può però spiegarsi solo con la forza delle strutture statali (l’affermarsi delle strutture di command and control) e dell’ideologia progressista che rappresentava una legittimazione di fronte alla stessa opinione publbica borghese ma che non aveva certo presa sul popololo. Esso ha potuto essere conseguito grazie alla svalutazione simbolica e alla demonizzazione operata nei secoli precedenti e quindi dal ruolo di “modernizzazione” esercitato dalla chiesa con – e non deve affatto apparire paradossale – le “paure”, le mitologie infernali, le superstizioni. Questa la tesi avanzata da Siddle (30) per spiegare, attraverso meccanismi psicologici di lungo periodo, la quasi inspiegabile “docilità” con la quale le popolazioni rurali (non tutte) hanno accettato di disfarsi delle capre.
L’ideologia anticapre presenta quindi uno strano connotato: da una parte invoca la razionalità scientifica, dall’altra sfrutta un retaggio di superstizione. Sino in tempi recenti era ancora avvertibile l’eco che, in forma più o meno consapevole, metteva in relazione le “devastazioni”, il comportamento dispettoso della capra, ad un che di “demoniaco” .

La capra spizzica tutto, tocca tutto, germogli di piante legnose o erbacee. Chi non ha visto questo animale dall’occhio strano, demomiaco secondo alcuni – ricordo della assimilazione poiù o meno cosciente al Maestro cornuto – disdegnare l’erba grassa di un prato per cercare di raggiungere le fronde più basse di un melo o di un gelso rizzatasi sulle zampe posteriori? (31)

L’agilità della capra, la possibilità di usare gli arti anteriori per afferrare, spostare, quelli posteriori per ergersi in posizione bipedale fanno della capra uno degli animali, insieme all’orso, più simili all’uomo nell’immaginario tradizionale. Una circostanza che ha favorito un immaginario di “ibridi” e credenze che non potevano che ingenerare sospetti e… puzza di zolfo (foto Ruralpini)

Con la crescente differenziazione nell’ambito delle stesse comunità rurali di montagna (che nell’ancient régime avevano conservato margini di egualitarismo sulla base dell’uso dei beni comuni) lo strato superiore, i proprietari dei boschi e di più significative superfici di terreno coltivato tendono ad associarsi alle élite tecnocratiche, agli scrittore di cose d’agricoltura, ai forestali, alle società d’agricoltura nell’invocare e sostenere misure restrittive dell’allevamento caprino. Oltre all’interesse economico saranno elementi culturali a condizionare la ricusazione delle capre da parte di intere comunità che, nel farlo, si sentono gratificate di uno status superiore rispetto alle comunità più povere, quelle delle valli più impervie cui restava impresso lo stigma di inferiorità. Si dimentica che la capra è stata la balia di una ininterrrotta serie di generazioni e i contadini più benestanti e le comunità più fortunate ci si sentono partecipi di una società “ordinata”, “per bene” che impone di non confondersi con le capre puzzolenti, e i loro “miserabili” proprietari (nel XIX secolo viene concesso solo alle “famiglie miserabili” di tenere 1-2 capre per famiglia) (32).

Il Delegato Provinciale di Bergamo (figura analoga al prefetto) nei primi anni del Lombardo Veneto auspicava che le amministrazioni locali collabossero ad una politica restrittiva dell’allevamento caprino temperata dal “concedere eccezionalmente 1 o 2 capre e sotto opportune cautele” previo vaglio delle “situazioni delle singole famiglie”. Queste concessioni erano suggerite da motivi di ordine pubblico:

imponenti motivi di convenienza non potendosi agevolmente prevedere fino a quali eccessi possa giungere lo spirito di malcontento di quelle rozze e povere popolazioni ove con tutto il rigore e sull’istante si mandasse ad effetto un generale ed assoluto bando alle capre (33)

L’associazione tra capre, marginalità sociale (e territoriale) con quanto di irregolare e disordinato comporta, non fece che agire da rinforzo del pregiudizio anche con riguardo all’equiparazione della capra (e dei suoi allevatori) con comportamenti “antisociali”, devianti, peccaminosi, in definitiva “diabolici”.  La polemica con i caprai si colora degli stessi argomenti utilizzati in clima di rivoluzione industriale contro i “poveri”, ritenuti colpevoli della loro condizione, oziosi, parassitari, potenzialmente socialmente pericolosi. Una polemica che nell’ambiente dei paesi protestanti trovava sicuramente terreno più fertile, ma che interessava anche i paesi cattolici. Come è noto la svolta nella policy sulla povertà ebbe luogo, in piena rivoluzione industriale, con la riforma della Poor law nel 1834 (34). I poveri “incapaci” (malati, anziani, invalidi) vennero distinti dagli “oziosi” per i quali le istituzioni “assistenziali” le poor houses dovevano divenire strumenti di pena, tali da costringere i poveri ad accettare condizioni di lavoro abominevoli e bassi salari pur di evitare di finirvi reclusi. Ma se il dibattito inglese ebbe eco continentale giova ricordare come una nuova politica dei poveri era già stata avviata sulla base delle nuove idee dell’illuminismo e nel clima “riformistico” anche il Lombardia in epoca giuseppina (35) mentre nel periodo del Regno d’Italia, in piena guerra alle capre (il tentativo di bando generale è del 1806, il regolamento generale dei boschi che esclude il pascolo delle capre del 1811) viene attivata da parte delle autoritàla realizzazione di “case di lavoro” (36) . Non va dimenticato che il problema della povertà era acuito dalla soppressione delle istituzioni benefiche di antico regime ad opera dei regimi filofrancesi (37). Ai caprai quindi si applica la nuova “ideologia del povero” di ispirazione borghese.Il La Delegazione provinciale di Brescia nel 1820 assimila in blocco, senza mezzi termini, i caprai agli oziosi:

Si nelle montagne, che nella pianura vi è travaglio sufficiente per procurar mezzo di sussistenza a ciascuno che non voglia essere ozioso come sono tutti i capraj, questa Provincia, anzi in alcune stagioni dell’anno ha bisogno di braccia straniere (38).

Di il giudizio moralistico (ma è solo uno dei tanti esempi) del relatore per il corcondario di Breno, Valcamonica, della Inchiesta agraria (siamo

Né possono dirsi veramente miserabili le famiglie de’caprai e meritevoli di compassione chè pur troppo invece 1’apparente miseria é quasi sempre il risultato dell’essere avversi ad ogni fatica, incalliti nella poltroneria, rozzi ed immorali. Col sopprimere le capre, insomma non solamente si gioverebbe alla condizioni dell`agricoltura, della selvicoltura e d e l l a pastorizia ma, si contribuirebba anche al miglioramento delle condizioni morali della popolazione, ed a quelle della sicurezza della proprietà, col fare scomparire, anche il ceto dei caprai; ceto che, dedito dapprima unicamente ai furti campestri, a poco a poco si abbandona , poi al ladroneggio in genere e senza limiti (39)

La letteratura dei primi decenni del XIX che conosce anche altre opere anticapre oltre al più celebre trattato del Gautieri, è ricca di echi della guerra alle capre “razza malefica”. Così si esprimeva il De Ambrosya, scrittore di cose agricole nonchè segretario della prefettura del dipartimento (ligure) degli Appennini in una sua memoria anticapre:
I proprietarj di queste bestie inquieta per un inveterata impunità hanno contratta l’infelice abitudine di nuocere senza riflessione, e quasi senza interesse: privo di direzione. e di guida le lasciano vagare e pascolare a discrezione intanto scorticano le piante rodono i germoglj d’ frutti degli alberi, e de vegetabìli, troncano e fanno perire le viti, distruggono li boschi, devastano le proprieta ed in mille altri modi sono perniciose al pubblico ed inquietano, e danneggiano il privato. Se l’opinione generale si consulta, si troverà che è ben pronunciata contro di esse, e che soltanto l’interesse privato, di coloro che nulla possiedono, trova il suo conto di trattenere questa razza malefica  a scapito grande dell’agricoltura e delle proprietà. (40)

Ancora una volta si deve osservare la difficoltà a districare l’interesse economico da un conflitto che non è neppure solo sociale ma anche di tipo culturale e che rimanda a uno “scontro di civiltà”, di visioni (sia pure implicite) della vita e del mondo. L’accanimento del perseguire capre e caprai trovava alimento nella resistenza sorda (e non sempre passiva) dei proprietari delle capre costretti dalla privatizzazione dei beni comuni (da parte di rapaci speculatori che si impossessavano dei beni dei comuni e delle terre confiscate al clero) a immettere le loro bestie in una proprietà privata che percepivano frutto non solo di ingiustizia sociale ma di vero e proprio abuso e illegalità. D’altra parte il pascolo abusivo interessava anche le resideue superfici comunali, non solo perché non rimanev altro ma anche perché il comune. che era subentrato in molti casi alle proprietà collettive dell’ancient régime (vicìnie ecc.) era diventato un organo politico, articolazione del potere centrale e da esso controllato, percepito quindi non più come “cosa nostra” ma come “cosa loro”.  Si trattava quindi anche di una forma di protesta e di resistenza sociale nelle uniche forme possibili.  Il pascolo abusivo assumeva le forme di una resistenza sociale di massa (41)  presupponendo, in analogia con il furto campestre e alle palese violazione delle norme sulla raccolta di materiali nel bosco (42), forme di solidarietà e di resistenza passiva collettive (il “muro di omertà” nei confronti dei rappresentanti dello stato a protezione dei membri del villaggio che regge sin quando non prevalgono spinte disgregatrici). Queste manifestazioni  possono essere interpretate, analogamente al contrabbando, come una forma di sfida e di vaga resistenza politica (43) che si manterrà, attraversando il periodo dei regimi filofrancesi e la restaurazione, anche nei regimi post-unitari, per tutto il XIX secolo. Si tratterà, però, di una “guerriglia di disturbo”, non in grado di invertire i processi messi in moto dalla modernità che potevano contare su un complesso forte di strumenti politici, amministrativi, economici, sociali, ideologici, e culturali.

  1. Una rivincita clamorosa su tutti i fronti

Gli intellettuali e tecnocrati borghesi hanno contribuito non poco, insieme alle norme che restrigevano l’autorizzazione ad allevare le capre alle famiglie miserabili a creare la stigmatizzazione dei prodotti della capra, in precedenza considerati favorevolmente anche dagli scrittori. Così Giuseppe Gauteri, Ispettore capo ai boschi  restato al suo posto dopo la Restaurazione, che insinuava che il formaggio di capra fosse cibo da “miserabili”, che così “rispamiano sul sale”, “pizzica ed è per palati rozzi” (44). Se è vero che il pregiudizio sociale (rafforzato da tutti gli elementi culturali sopra discussi) è riuscito a disincentivare il consumo di prodotti caprini in forza dello stigma attribuito alla capra e ai caprai, va anche detto che la contestazione dell’utilità e persino della superiorità del latte e dei prodotti caprini ha rappresentato l’elemento più debole del “partito anticapre”. Il noto economista e statistico dell’epoca napoleonica, Melchiorre Gioia, coevo del Gautieri e partecipe della stessa ideologia tecnocratica, a proposito  del pregio dei formaggi di capra si esprimeva nei seguenti termini  “Quello che è [il formaggio] formato dal latte caprino  è preziosissimo allorché non riceve qualche battesimo d’acqua, o d’altro latte straniero” (45).  Opinione confermata dal celebre storico Cesare Cantù che, nota, a proposito della Valsassina che: “I valligiani preparano nelle loro baite (cascine) le  robiole e gli stracchini caprini di cui fanno grande esportazione” (46).

Oggi i formaggi di capra li troviamo al centro del “banco gastronomia” dei supermercati (foto Ruralpini)

La sua riabilitazione in Francia risale al periodo tra di anni Venti e Trenta del secolo scorso quando, grazie alla valorizzazione dei formaggi caprini tipici, l’ufficialità agricola si è convinta a riservare alla capra un trattamento non più da paria ma da animale suscettibile di contribuire al reddito agricolo eall’economia agroalimentare dell’Exagon (47). Nello stesso periodo (1927) in Italia si imponeva una supertassa progressiva sulle capre (R.dl del 16.1.1927 n.100) (48)

Per la riabilitazione in Italia (e in altri paesi) si è dovuto aspettare il ’68 o meglio i movimenti di “ritorno alla terra” che già negli ann Settanta vedevano protagonisti reduci e delusi di quel movimento.
I suoi prodotti sono oggi ricercati e spuntano buoni prezzi. I prodotti alimentari e i cosmetici che contengono latte di capra sono di moda e possiamo tranquillamente concludere che il pregiudizio negativo si è ribaltato in positivo. Questa tendenza è comune all’insieme dei paesi occidentali. Persino dove l’allevamento caprino era pressoché scomparso, come nel paesi anglosassoni e scandinavi (con l’eccezione della Norvegia che ha sempre mantenuto una radicata tradizione di allevamento) oggi la capra gioca un ruolo chiave nel rilancio di produzioni agroalimentari artigianali e di filiere corte. Un fenomeno che si osserva al giorno d’oggi  in paesi come gli Stati Uniti e la Svezia (49) dove la produzione casearia artigianale era stata spazzata via.
La vacca da latte ha subito un ribaltamento di immagine speculare che ne ha fortemente eroso il presitigio sociale.  Nel XIX e XX sec. essa era stata associata all’emancipazione da sistemi agricoli pre-industriali, allo sviluppo della moderna industria casearia (in grado di fornire prodotti igienici, nutrienti e poco costosi a larghi strati di popolazione) ma che oggi subisce un appannamento di immagine in quanto degradata a “macchina da latte” senza contare il grave scandalo alimentare della “vacca pazza”, le polemiche sulla somministrazione dell’ormone della crescita (vietata in Europa ma lecita altrove).

Oggi la capra, cadute le accuse “scientifiche” di flagello dei boschi,  è divenuta il simbolo positivo di un’agricoltura più “naturale” e meno industriale, mentre dalla California alla Francia alla Spagna le si riconosce il ruolo di “guardiana dell’ambiente” in forza dell’impiego del pascolo caprino  per la prevenzione degli incendi boschivi (43).

Una pubblicazione del Dipartimento dell’agricoltura – Servizio foreste – degli Stati Uniti.

La stessa  natura poco disciplinata, ma anche curiosa e intraprendente è considerata con favore in un’epoca di crescente omologazione, assoggettamento al mercato globale, alla tecnoscienza, alle multinazionali di quello che rimane delle “campagne” del mondo.
Simbolo di resistenza contadina, autosufficienza, la capra – animale intelligente e capace di relazionarsi all’uomo – è anche il veicolo della riaffermazione di una visione che, superato il meccanicismo razionalista e materialista, riassegna valore alla vita, rifiuta di considerare gli animali oggetti, cose, prive di quell’anima naturale (soffio vitale divino) che la religione e la scienza ufficiale continuavano a riconoscere loro sino al XVII secolo. Questo e molto, molto altro rappresenta la “lezione della capra”, una lezione di saggezza e di umiltà che induce a diffidare degli stereotipi e del valore delle ragioni di chi ha, dalla sua, il potere.

Note

  1. K. Weblen “The Image of Sheep and Goats in Matthew” in The Catholic Biblical Quarterly, 59, 4 (1997):657-678 2. Giovanni il Battezzatore aveva indicato con “Ecce Agnus Dei qui tollit peccata mundi” (Gv 1, 29). Inoltre vediamo il Cristo come nell’Apocalisse quando afferma “Et vidi et ecce Agnus stabat super montem Sion” (Ap 14,9)3. Mircea Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, Rizzoli, Milano, 2016 (ed or. Paris, 1975), p. 313

    4. J. H. Turnurer “Etruscan Ritual Armor : Two Examples in Bronze”, in American Journal of Archaeology, 69, 1 (1965):39-48.

    5.  Una prolifica serie di contributi è stata suscitata da un articolo di Anton Blok  “Rams and billy-goats: A key to the Mediterranean code of honour”. Man, 16, 3 (1981):427-440. Blok ha ricevuto molte smentite circa la non generalizzabilità alla “cultura pastorale meditterranea) delle sue osservazioni in Sicilia. Le sue considerazioni sul minor vigore sessuale dei becchi rispetto agli arieti e sul comportamente dei becchi che “lascerebbero fare” ai rivali trovano smentita non solo nella pratica zootecnica ma anche in studi etologici sperimentali che mostrano come in presenza di “rivali” i becchi copulano con più intensità, a differenza degli arieti. E.O. Price, R.E. Borgwardt, M.R. Dally,  “Male-male competitions fails to sexually stimulate domestic rams”, Applied animal behaviour science, 74 (2001):217-222. Vero che questi lavori sono successivi al tempo di Blok ma sarebbe stato sufficiente consultare qualche testo di zootecnia per constatare che il numero di femmine “servite” da un becco è indicato come pari o superiore a quello delle pecore “servite” da un ariete.  L’ipotesi “fisiologico-etologica” delle corna è quindi senza fondamento e rappresenta un nuovo capitolo del pregiudizio anticapre (normale in pastori di ovini, meno in un antropologo che assegna valore cognitivo a questi pregiudizi). Torneremo sul tema in un ulteriore contributo in materia di simbolismo delle corna. Qui osserviamo che sono state sin qui avanzate quindici diverse ipotesi per spiegare il perché il mariti tradito vengono definiti “becchi” (o cabrones) in apparente contraddizione con le accuse di lascivia ed eccessiva esuberanza genesica dei maschi della specie caprina.

    6. Nawroth, C., Brett, J. M., & McElligott, A. G. “Goats display audience-dependent human-directed gazing behaviour in a problem-solving task”. Biology Letters, 12, 7 (2016) 20160283.

    7. R.Sheldrake. Le illusioni della scienza, Urra, Milano, 2013, p.4, ssg.

    8. K. Jennbert “Sheep and goat in Norse Paganism.” Pecus: man and animal in antiquity: proceedings of the conference at the Swedish institute in Rome. Vol. 1. The Swedish Institute in Rome, 2004

    9. J.G. Frazer, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, Bollati-Boringhieri, Torino,  1990 8ed. or. London 1922), pp. 544-548

    10. A. Delbosco, C.Brughi, Entità fatate della Padania, Edizioni terra di mezzo, Milano, 1993

    11. G. Gaioni, Leggende di Val Camonica e Val di Scalve, Quetti, Artogne, 1990

    12. La “donna del gioco” (sabbah)è un personaggio molto diffuso nel folklore. Trattasi di una strega spesso terrificante ma la leggenda, come spesso avviene, sovrappone il tema del sabbah con quello della “caccia selvatica” dove appare come trasposizione delle divinità della caccia e della fertilità delle antiche religioni. A Pontedilegno esiste una località “Case del gioco”.

    13. C.H. Lea, Material Toward a History of Witchcraft, Vol I, Thomas Yoseloff, New York, 1957, pp.231-232, cit. da J.P. Davidson, “Great Black Goats”, in Journal of Rocky Mountain and Medieval and Renaissance Association, 6 (1985):141-158.

    14.  H. Institoris (Krämer), I. Sprengero, Malleus Malleficarum, riproduzione dell’originale, Gruppo editoriale Castel Negrino, Aicurzio, 2006

    15 J.P. Davidson, op. cit.

    16. J.P. Davidson, op. cit. Su questi temi si veda anche: L. Roper, ‘‘Witchcraft and the Western Imagination,’’ in Transactions of the Royal Historical Society, 16 (2006): 117–141

    17. D. Solokian “De la question des chevres en France au XVIIIe siecle”, in  Ethnozootechnie, 41 (1988)  pp.33-46; C. K. Matteson  “Bad citizens” with “murderous teeth”: Goats into Frenchmen, 1789-1827 in: Proceedings of the Western Society for French History, 34 (2006) : 147-161

    18. M. Corti., “Risorse silvo-pastorali, conflitto sociale e sistema alimentare: il ruolo della capra nelle comunità alpine della Lombardia e delle aree limitrofe in età moderna e contemporanea” in: SM Annali di S. Michele, 19 (2006): 235-340

    19.  G.Coppola, “Equilibri economici e trasformazioni nell’area alpina età moderna», in: G.Coppola e P.Sciera, Lo spazio alpino: area di civiltà, regione cerniera, Quaderni di Europa Mediterranea, 5, Gisem /Liguori Editore, Napoli, 1991 pp. 203-222.

    20. Ivi.

    21. D.Siddle, “Goat, marginality and the ‘Dangerous Other'” Environment and History, 15 (2009): 221-236

    22. M. Corti, G.Foppa, La pecora bergamasca, Provincia di Bergamo. Settore agricoltura, Bergamo, 1999, cap. 7.

    23.Ivi.

    24. D. Siddle, op. cit.

    25. M. Corti, op. cit.

    26. D. Solokian, op. cit.

    27. “Le capre difese da guardiani accorti e possenti minacciano di scacciare le vacche e le pecore dalla montagna. Distrutti dalle capre i boschi, le miniere giacciono inutilizzate nel seno della terra, i forni e le fucine non fuman più e i seminatori, gli scavatori, i carbonai, i fonditori ed altri operai, esausti dalla fame, sono astretti ad emigrare dalle montagne. Franati i monti, intisichiti pel freddo alle loro falde gli alberi, alzato il letto de’ fiumi e reso incapace a contenere le loro acque che già traboccano e inondano le sottostanti campagne, aumentati ed abbassati i nevali ed i ghiacciaj, fulminati i tuguri degli alpigiani, inaridite alla pianura le messi, mal sicure le case. […]” G. Gautieri. Dei vantaggi e dei danni derivanti dalle capre in confronto alle pecore, Milano, Tipi di Gio. Giuseppe Destefanis, 1816

    28. Ivi, p. 75

    29.  P. Lieutaghi, L’environnement végétal, Flore, végétation, civilisation, Neuchâtel, 1972, cit. da Solokian, op. cit.

  2. M. Corti., op. cit.
  3. Archivio di Stato di Milano, agricoltura p.m. c. 81
  4. D. Englander, Poverty and Poor Law Reform in Nineteenth-Century Britain, 1834-1914: From Chadwick to Booth, Routledge, London, 2015. Vedi anche
    R.G. Fuchs, “Beneficenza privata e assistenza pubblica” in A M.Barbagli e D.I. Kertzer (cura di) Storia della famiglia in Europa. Il lungo ottocento, Laterza, Roma-Bari, 2002, pp. 232-283
  5. Una grida del 1784 prevedeva che i  “poveri nazionali” sorpresi a mendicare fossero arrestati e carcerati  per tre giorni a pane e acqua e quindi il rilascio con diffida di dedicarsi al lavori, in caso di recidiva la detenzione per più lunghi periodi nella casa di forza di Pizzighettone (C.Capra, La Lombardia austriaca nell’età delle riforme, Torino, 1987 pp. 393-395
  6. La Prefettura di Bergamo intendeva aprire case di lavoro ovunque e nel 1810 vennero interrogate le municipalità circa la presenza di mendicanti. Ne furono segnalati molto pochi dal momento che “Il problema non era legato a una vera marginalità sociale, quanto alla fine, per così dire, degli ammortizzatori della società tradizionale. I sindaci non a caso notavano come non vi fossero, in molti casi, mendicanti ma famiglie intere «semiquestuanti» e «ridotte alla vera miseria», nell’impossibilità di sostenere l’onere della tassa personale […] Testimonianza del genere provenivano in particolare dalla montagna, una realtà che di lì a poco sarebbe stata colpita dalla carestia del 1811.”. E. Bressan ,
    “La Lombardia veneta”, in G.Rumi (a cura di): La formazione della Lombardia contemporanea, Cariplo- Laterza, Milano/Roma-Bari, 1998, pp.15-58
  7. Ivi
  8. Archivio di Stato di Milano, agricoltura p.m. c. 79
  9. Giunta per l’inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola
    “Relazione sul Circondario di Breno”, in Atti, Vol. VI, Forzani, Roma 1883 ,  p. 292
  10. De Ambrosya, Memoria sui danni dei pascoli delle capre e sulla migliorazione dell arte pastorizia presentata alla società dì economia, Per i tipi di Giuseppe Pilla, Chiavari, 1809, p. 3
  11. Gautieri, op. cit.
  12. ” Il pascolo abusivo delle capre sui fondi comunali, nonostante i divieti, era una realtà continuamente sottolineata dalle deputazioni censuarie del distretto di Piazza [brembana]” A.Moioli, “I sistemi agricoli della Lombardia orientale durante la prima metà dell’Ottocento. Il caso delle zone ex-venete (Provincie di Bergamo, Brescia e Cremasco)” in: Rivista di Storia dell’Agricoltura, 18 (1978), pp. 15-70, p.21.
  13. “Il furto campestre del resto assumeva i contorni del fenomeno di insubordinazione di massa”. (M.Meriggi , Il Regno Lombardo-Veneto, Utet, Torino, 1987 p.202); “[…] i comunisti  [da intendersi “residenti nel comune”] in gran parte poveri corrono insieme nei boschi comunali ad estirpar il brugo, gli sterpi e le radici […] invece di accusatori e testimoni si trovano dei difensori e dei complici “ (M.Gioia, Discussione economica sul dipartimento del Lario, Lugano (CH), 1837, p. 14).
  14. H.G. Rosenberg, Un mondo negoziato. Tre secoli di trasformazioni in una comunità alpina del Queyras, Carrocci editore/MUCGT, Roma/San Michele all’Adige (Tn), 2000, p.167
  15. M. Gioia, op. cit., p. 81
  16. C.Cantù, (a cura di), Grande illustrazione del Lombardo-Veneto, ossia Storia delle città, dei borghi, comuni, castelli, ecc. fino ai tempi moderni, Vol. III, Corona & Caimi, Milano, 1858, p. 990.
  17. R. Lovreglio, O. Meddour-Sahar, V. Leone, “Goat grazing as a wildfire prevention tool: a basic review” in  iForest -Biogeosciences and Forestry, 7 (2014): 260-268
  18. L’art. 1 fissava la tasa in ragione di L. 10 (fino a 3 capi), L. 15, (da 3 a 10 capi) e L. e 20 (oltre 10 capi). Questi importi vanno confrontati con quelli delle tasse di pascolo riscosse dai comuni (1-2 L. per capra). Il provento della tassa era devoluto per i tre quarti allo Stato e solo per un quarto al Comune (art. 2).
  19. C. Delfosse, C. Chèvre des champs ou chèvre des villes? Sélection et élevage caprins dans l’entre-deux-guerres. Ruralia. Sciences sociales et mondes ruraux contemporains, 20 (2007)
  20. P. Rytkönen , M. Bonow , M. J. , Y.Persson  “Goat cheese production in Sweden – a pioneering experience in the re-emergence of local food”, in Acta Agriculturae Scandinavica, Section B  – Soil & Plant Science, 63, sup1 (2013): 38-46
  21. R. Lovreglio, O. Meddour-Sahar, V.Leone “Goat grazing as a wildfire prevention tool: a basic review”, in iForest – Biogeosciences and Forestry, 7 (2014): 260-268