di Michele Corti
Già dal primo del neolitico (nel sesto millennio a.C.) i nostri antenati hanno iniziato a produrre formaggi . La produzione di formaggio semiduro o duro è però successiva e appare nel Sud della Francia. La cultura a cui si fa risalire questa innovazione è quella medio-neolitica di Chassey della fine del V e prima metà del IV millennio (4000-3500 ca.). Essa ebbe grande influsso su quella padana di Lagozza (Besnate, Varese) chiamata anche Chassey-Lagozza (3900-3100 ca.). Dalla cultura di Lagozza le innovazioni (tecnologiche e linguistiche) si diffusero verso la penisola italiana e verso Nord. Quando si parla di culture che si sviluppano in area “padana” è bene ricordare che la pianura vera e propria era occupata dalle acque (il toponimo “lagozza” rimanda a bacini palustri poco estesi). Questa e successive culture sono basate su insediamenti palafitticoli presenti in modo particolare nella fascia dei laghi prealpini a contatto con l’area montana.
La (limitata) pianura era occupata da ampie foreste e acquitrini e le zone dove il pascolo era possibile erano quelle fluviali dove le esondazioni dei fiumi (che sono stati “intubati” solo in epoche recenti) non consentivano la crescita di una vegetazione permanente (alberi). In montagna, oltre il limite della vegetazione arborea si estendevano praterie naturali che consentivano il pascolo dei bovini, animali che non riescono a trovare il loro nutrimento in ambienti boschivi (come invece le capre e, almeno in parte, le pecore). In montagna, inoltre, la temperatura più bassa e la stagione vegetativa più breve rendono molto più lenta la ripresa del bosco una volta che l’uomo lo ha eliminato con il fuoco o con strumenti da taglio efficienti e diffusi (che appariranno solo l’età del ferro). Sono, però, gli stessi animali che, una volta creato il pascolo sono in grado di mantenerlo e di estenderlo. A partire dall’inizio del neolitico gli studi sui pollini fossili e i microcarboni indicano la presenza di un “disturbo antropico”, ovvero la presenza di gruppi neolitici in quelle aree che saranno poi utilizzate in modo sistematico per l’alpeggio. Nel neolitico l’uomo si limitava ad interventi localizzati a spese della foresta che hanno comportato comunque la formazione di carboni e ceneri. Questi interventi sono evidenti nel sesto e quinto millennio.
Nel neolitico l’utilizzo dei pascoli alpini era comunque realizzato in modo saltuario (lo spazio era abbondante in relazione al numero di uomini e di animali). In seguito all’aumento dell’importanza dell’allevamento nell’età del rame, quando si affermò la tecnologia del formaggio duro e semi-duro (in grado di conservarsi quindi dall’estate alla primavera successiva) iniziarono a salire ogni anno su determinati pascoli le mandrie e le greggi delle diverse tribù. Esse erano affidate ad appositi pastori-guerrieri consentendo agli altri membri del villaggio di dedicarsi a valle ai lavori agricoli. Era nato (o stava nascendo) l’alpeggio. Il raduno delle mandrie/greggi favoriva, però, la diffusione di malattie e determinava il rischio di razzie da parte di tribù nemiche. La storia di Ötzi (la “mummia del Similaun), morto 3.300 anni fa, racconta di una delle tante di razzie d’alpeggio e ci fa capire come fare il pastore significò per molto tempo (ancora alla fine del medioevo in epoca di guerra civile tra guelfi e ghibellini) essere pronti a difendere in armi il bestiame. Tra la fine dell’età del rame e l’età del bronzo antico (2.200-1.600 a.C.) si accentuano i disboscamenti e migliorano le tecniche casearie ma il peggioramento climatico rallentò temporaneamente questi sviluppi.
Nell’età del ferro, iniziata verso il 900 a.C. e proseguita sino alla romanizzazione, la disponibilità di più efficaci strumenti di taglio e il miglioramento climatico portano a un nuovo sviluppo dell’alpeggio che assunse caratteristiche molto simili a quelle attuali. Appaiono costruzioni in pietra a secco (in precedenza si utilizzavano ripari sotto roccia e le tende) e si perfezionano le tecniche casearie ormai molto vicine a quelle attuali. Il quadro qui delineato è il risultato di indagini su diversi siti alpini. Per le Alpi lombarde sono state importanti le indagini pionieristiche di Francesco Fedele in alta valle Spluga. Indagini dello stesso tipo, basate sull’analisi dei pollini fossili e dei microcarboni sono state eseguite anche in alta val Brembana (i risultati sono solo parzialmente disponibili) e confermano l’antichità dei fenomeni della transumanza alpina e dell’alpeggio. Risalgono al primo neolitico anche i più antichi resti di ossa di caprovini rinvenuti anche in area orobica. Recentemente alle prove indirette sulla presenza di queste attività in epoca preistorica si sono aggiunte anche prove dirette basate sulla presenza di Dna animale in vecchi sedimenti lacustri (lago Anterne ad oltre 2000 m in alta Savoia). Qui si trovano anche testimonianze archeologiche della tarda età del ferro (una capanna in pietra) dove sono state rinvenute anche ossa di capre, pecore e polli (non di bovini perché evidentemente non macellati in alpeggio). Nei sedimenti il Dna bovino è stato rinvenuto in epoche corrispondenti al 4800 a.C. (neolitico) e poi con maggiore abbondanza tra la fine dell’età del ferro e l’inizio della romanizzazione e quindi dal Duecento all’età moderna. Il Dna ovino, ben presente in epoca preistorica e antica e verso il Duecento poi non è più presente. Il periodo di più intenso sfruttamento (con fenomeni si sovrapascolamento ed erosione) in questo sito si è osservato nel periodo tra l’età del ferro e la romanizzazione. L’intensificazione dell’alpeggio nell’età del ferro, il declino nel tardo antico e nell’alto medio evo e l’intensa ripresa verso il 1000, la presenza prepondente dei bovini nei (migliori) pascoli alpini con produzione di latte dalla fine del medioevo appaiono fenomeni comuni a buona parte delle Alpi.
Il binomio formaggio-alpeggio
L’evoluzione dell’alpicoltura si accompagna a quella dell’arte casearia. Se in pianura i formaggi bovini (precursori del Parmigiano/Lodigiano/ Piacentino) appaiono verso il XIII secolo, sostituendo gradualmente i formaggi ovini e affermando una tradizione casearia che gradualmente si rende autonoma dai fenomeni della transumanza e dell’alpeggio, in montagna il binomio caseificio-alpeggio ha continuato ad essere inscindibile sino all’Ottocento quando hanno iniziato a sorgere, prima in Svizzera e poi anche il Lombardia, i caseifici di fondovalle. Essi presero a lavorare il latte anche in inverno disponendo di quantitativi di latte che mettevano in condizione anche i piccoli e piccolissimi allevatori, unendo il latte a quello dei compaesani, di disporre di formaggi anche nel periodo invernale. Questi caseifici di paese, però, chiudevano i battenti in estate quando tutte le bovine salivano all’alpeggio. Spesso il casaro non faceva che trasferirsi dalla latteria sociale del paese all’alpeggio (vedi il caso di Abramo Milesi, famoso casaro all’Alpe Camisolo e alla Latteria sociale di Valtorta). Oggi si fa fatica a comprendere la centralità dell’alpeggio. Oggi le bovine inviate all’alpeggio sono molto spesso verso la fine della lattazione e il massimo della produzione di latte si ottiene in inverno. Per millenni, invece, è accaduto il contrario: le vacche da latte fornivano il massimo della produzione (ma si parla di medie di 5 litri di latte per capo e di “picchi” di 10 litri al giorno) a giugno-luglio quando venivano monticate. In autunno la produzione era già in fase declinante. Seguiva poi l’“asciutta” (di due mesi) e il periodo di allattamento (ovviamente naturale) del vitello. La scarsa produzione di latte nel periodo autunno-invernale consentiva di alimentare le vacche con il poco fieno disponibile (spesso integrato dalle foglie degli alberi – opportunamente capitozzati (“sbroccati”) – fatte essiccare e dal “fieno selvatico” raccolto in alta montagna e nei boschi). Per capire la realtà del passato, basata sulla transumanza invernale verso la pianura e sulla centralità dell’alpeggio bisogna anche considerare che, sino all’Ottocento, quelli che oggi sono prati da sfalcio (quando non riconquistati dalla boscaglia o divorati dall’edificazione) erano troppo preziosi (in quanto vicini alle abitazioni e relativamente pianeggianti) per essere “sprecati” per produrre fieno. Quei terreni erano perciò arati e seminati e servivano per produrre cereali per l’alimentazione umana (ma anche lino e ortaggi). Il fieno era ottenuto sui “maggenghi” dove, però, gli animali lo consumavano in larga misura sul posto. Le difficoltà di trasporto facevano si che fosse molto più semplice portare l’animale dove si produceva fieno e non viceversa come si fa oggi grazie alla facilità con la quale – grazie al sistema dei trasporti – si acquista il fieno (in pianura o anche in altre regioni e sin dalla Francia). In autunno e in primavera con lo scarso latte disponibile i montanari che non praticavano la transumanza verso la pianura (e che disponevano di 1-2 vacche, raramente di più) potevano confezionare, per autoconsumo, qualche formaggetta o stracchino.
Durante l’inverno, però, essi potevano utilizzare per autoconsumo le scorte di formaggio (adatto alla conservazione) prodotto in estate in alpeggio. Le vacche dei tanti piccoli allevatori riunite in un’unica mandria (malga come tutt’oggi si dice in lombardo occidentale e in bergamasco) della comunità o di un’associazione di allevatori locali o affidate a un “caricatore d’alpe” professionale detto cargamut (nelle valli bergamasche erano quasi sempre “bergamì” transumanti), fornivano importanti quantità di latte, consentivano ai casari di confezionare grosse forme di formaggio grasso o semigrasso in grado di essere adeguatamente stagionate. Un sistema che, nelle sue linee fondamentali, ha funzionato così dalla preistoria. Alla fine dell’alpeggio i proprietari delle vacche affidate “a guardia” erano ricompensati sulla base della produzione delle loro bestie (sottoposta a pesata in determinati giorni durante l’alpeggio). A volte, però, l’alpeggio era gestito in modo “dissociato”: ogni famiglia saliva in alpe e conduceva al pascolo le sue poche vacche. Anche in questo caso, però, si poteva ricorrere – in alternativa alla lavorazione casalinga di piccole quantità di latte – alla lavorazione “cooperativa”: si affidava il latte ad un casaro professionista e quando la quantità di latte conferito dai singoli in diverse giornate successive equiparava la quantità lavorata complessivamente in una giornata il “conferente” aveva diritto alla produzione di formaggio (burro e ricotta) della giornata. Nacquero così le latterie sociali che, a fine Ottocento si affermarono, come già accennato, anche nei paesi in fondovalle e poi in pianura (in provincia di Bergamo piuttosto tardivamente). Qualunque fossero le modalità di “ingaggio” il casaro d’alpeggio aveva grandi responsabilità.
Negli statuti comunali medioevali l’investitura del casaro dell’alpeggio comunale gli conferiva il ruolo di “direttore tecnico” e, spesso, anche di amministratore. Fino a tempi non lontani una grande caldaia di rame rappresentava un forte investimento ed era responsabilità del casaro conservarla. Anticamente al proprietario della caldaia (che fosse un nobile o il comune) era riservato il diritto di scumaria (che era poi la ricotta liquida, il fiurì, a fronte dell’uso della caldaia (altri diritti erano riservati alla parrocchia o a qualche chiesa o santuario locale e consistevano solitamente nel prodotto di una giornata d’alpeggio (a volte il primo). Queste consuetudini si sono conservate in qualche località sin quasi ai giorni nostri. Una fama di lunghissima data
La fama dei formaggi d’alpeggio risale (almeno) all’epoca romana. Plinio il vecchio (I secolo d.C.) elenca tra i formaggi apprezzati a Roma il Vatusico proveniente dalle Alpi Graie (alta Savoia-valle d’Aosta-valli torinesi). Per poter essere trasportato per 1000 km sino a Roma doveva essere non solo un formaggio ben stagionato e duro ma anche un formaggio di valore. Nell’Historia augusta (raccolta di biografie di imperatori) IV secolo si raccconta che l’imperatore Antonino Pio mangiò tanto avidamente il formaggio alpinus che di notte vomitò e il giorno dopo fu preso da febbre e morì. C’è chi identifica nel formaggio alpinus un formaggio grasso d’alpeggio (della famiglia della Fontina, Gruyere, Bettelmat, Bitto, Formai de Mut). Il formaggio grasso d’alpeggio è pregiato perché conserva tutta la materia grassa (da cui dipendono molte proprietà nutrizionali e organolettiche) valorizzando la qualità particolare del latte ottenuto da animali che si alimentano con essenze pabulari ricche non solo di grassi e proteine ma anche di oli essenziali (costituiti da composti volatili aromatici come i terpeni). È pregiato non solo perché per produrlo si deve rinunciare al burro ma anche perché richiede la mano di casari professionali e cure più attente del formaggio magro e semigrasso. La produzione del formaggio grasso di grande dimensioni, che non va confusa con le quella formaggelle di rapida maturazione, è solo apparentemente più semplice rispetto a quella dei formaggi magri e semigrassi. È vero che non è necessario disporre di ambienti particolari per l’affioramento del latte (ambienti a bassa temperatura o con acqua di sorgente fredda dove immergere le bacinelle con il latte). Però è vero anche che il latte si deve lavorare immediatamente dopo la mungitura (nel caso del Bitto la lavorazione avviene sul pascolo nei calecc’, recinti di muro a secco sormontati da una tenda) e che bisogna farlo due volte al giorno invece che una (per i formaggi semigrassi la munta della sera viene lasciata sostare per ricavare la panna per la burrificazione e il latte così parzialmente scremato, e parzialmente acidificato, viene aggiunto a quello della munta mattutina).
I formaggi grassi a lunga conservazione richiedono la cottura della massa caseosa dopo che essa è stata lasciata sostare sul fondo della caldaia di rame. Le temperature impiegate sono piuttosto alte (anche sopra i 50°C) e ciò richiede un dosaggio sapiente (e paziente) del calore e della velocità di riscaldamento nonché l’accurato mantenimento in agitazione della cagliata (per evitare che restando a contatto sul fondo della caldaia i granuli ricevano troppo calore e formino a causa della scottatura una pellicola impermeabile che poi non lascia fuoriuscire il siero). Si tratta di una lavorazione lunga (sino a 3-4 ore) e complessa che, in caso di errori, porta a compromettere la qualità di un prodotto di grande valore, di una grande quantità di latte e di lavoro. Non deve fare meraviglia quindi se solo in aree pastorali ricche di buoni e abbondanti pascoli si sono sviluppate le capacità professionali, la specializzazione che consentivano di produrre i formaggi grassi d’alpeggio da stagionare. Alta Savoia, Val d’Aosta, alcune famose aree svizzere, la Val Formazza, le Orobie, la zona del Montasio rappresentano comprensori pregiati dove l’alpeggio sin dall’antichità è stato orientato alla produzione commerciale. Dove i potenti del tempo hanno cercato nel corso della storia di accaparrarsi la proprietà degli alpeggi (dagli imperatori romani, ai latifondisti dell’età tardo antica, alla corte longobarda, ai vescovi-conti, alle abbazie, ai feudatari e poi ai ricchi patrizi e borghesi). Un documento molto importante sull’economia della transumanza e dell’alpeggio il Breve de terris del potentissimo monastero di Santa Giulia di Brescia (879-906). Pur testimoniando dell’importanza dell’alpeggio nelle valli bresciane per il rifornimento di formaggio al monastero questa fonte non ci fornisce indicazioni sulla qualità del formaggio. Anche il vescovo di Bergamo possedeva alpeggi in val Brembana e in val Seriana che poi passarono ai suoi vassalli. Ad Ardesio (Alta Valseriana) era lo stesso vescovo di Bergamo proprietario di un alpeggio sul Monte Secco a caricarlo nel XIII secolo con proprie greggi (allora produttrici di latte). I conti di Calepio pretendevano una forma di formaggio ogni otto prodotte nel mesi di giugno e luglio in cambio del diritto di sfruttamento dei pascoli d’alpeggio compresi nella loro giurisdizione. Erano proprietari di alpeggi anche i vescovi di Brescia, Como, Milano e Pavia così come gli importanti monasteri di queste città. Sant’Ambrogio a Milano riceveva per l’affitto di alpeggi nelle valle orobiche occidentali della Valtellina (secoli XI-XIII) canoni in formaggi di cui si precisa che Siffatta temporaria emigrazione prodotta invincibilmente dalla deficienza de foraggi toglie al paese oltre il lucroso ramo di commercio che si potrebbe fare de formaggi
[…] I Latticinj che con tanta ampiezza di uso entrano nella umana economia per la poca dimora delle mandrie sul nostro territorio effettivamente ci mancano nella maggior parta. Il butirro segnatamente noi lo dobbiamo tirare del Lodigiano dal Milanese e della Valsassina […] I pochi nostri formaggi i quali per la loro eccellenza a fronte del gran vuoto che lasciano in patria sortono per la massima parte e vanno ad essere consumati in varie Città d’Italia formano per avventura un po’ di commercio attivo su questo articolo. Ma la utilità che tiriamo da questo picciolo traffico non arriva giammai a compensarci della perdita di danaro nazionale che d’altronde facciamo per procurarci i formaggi della Lodigiana e della Piacentina provincia e senza de’ quali non possiamo sussistere.
Pochi ma d’eccellenza i formaggi bergamaschi quindi. Quasi esclusivamente formaggi d’alpeggio. In realtà la transumanza non era l’unica sola causa del deficit caseario bergamasco. Alla metà dell’Ottocento Ignazio Cantù, che redisse la parte sulla Provincia di Bergamo nella Grande Illustrazione del Lombardo-Veneto (1859) riporta che:
“I mandriani svernando quasi tutti fuori fanno cacio nella provincia bergamasca solo pei quattro mesi estivi e lo vendono generalmente nel settembre ai mercati e alle fiere della provincia”. Da qui, però, il formaggio d’alpeggio veniva trasferito in gran parte per la stagionatura a Rovato: “Di questi formaggi si asportano nella Bresciana quelli non pure di Valcamonica [già parte del Dipartimento del Serio unita a Bergamo sino al 1859] e Valle Scalve ma parte di quelli di Val Seriana e Brembana”.
Quindi…la maggior parte. Cantù riporta questo prospetto ripreso dallo storico Gabriele Rosa (e riferito al 1856).
Località/Fiera |
Quantità/valore |
Lire.000 |
Venduti a Bienno |
circa duemila formaggi di due pesi e mezzo ognuno ad austriache lire 9 al peso |
45 |
della Val di Scalve venduti a Castione |
Tremila formaggi simili a quelli di Bienno |
67 |
idem |
2,400 pesi di formagelle o piccoli formaggi bianchi pecorini che a lire 8 al peso |
19 |
Ogna |
circa mille formaggi a lire 9 il peso |
23 |
Ardese (Ardesio) |
1200 grassi e 600 magri a lire 10,50 il peso |
7 |
Gromo |
3000 grassi e 1000 magri allo stesso prezzo di lire 10,50 |
105 |
Colarete |
2400 misti come sopra |
63 |
Val Gandino |
2000 magri a lire 9 il peso |
45 |
Val Zambla |
3000 grassi a lire 12 |
90 |
Val Taleggio |
pesi 2,500 di stracchini a lire 10 |
25 |
Val Brembana si vendono ai Branzi |
10,000 a lire 25 |
250 |
Mezzoldo |
3000 simili a Branzi |
75 |
Totale valore prodotto |
856 |
Con la cessazione del fenomeno dei bergamini (che conobbe un graduale declino dopo la prima guerra mondiale sino agli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso) l’economia degli alpeggi bergamaschi subì un notevole ridimensionamento. Il mancato carico degli alpeggi da parte di questi esperti allevatori e casari non fu facilmente rimpiazzato dall’elemento locale tanto che in Val Brembana molto alpeggi sono tutt’oggi caricati da valtellinesi. I bergamini che per secoli avevano costruito la tipicità e la qualità del formaggio d’alpe avevano anche alimentato una significatva filiera economica. Non solo essi erano in relazione con i commercianti di bestiame (che poi lo spacciavano come “svizzero” agli agricoltori della Bassa) e con quelli di formaggio (di Bergamo) ma in qualche modo “tenevano in piedi” i comuni che incassavano gli affitti dei pascoli e le tasse sul bestiame (cespite principale delle entrate dei comuni).
La crisi degli alpeggi bergamaschi e della produzione casearia d’alpeggio è stata nelle valli bergamasche più profonda che altrove a causa del venir meno del fenomeno della transumanza. Essa, però, è dipesa anche da altri fattori che si riscontrano anche altrove nella montagna lombarda e non solo. Nella prima fase dell’affermazione dell’economia agroalimentare e consumistica il formaggio d’alpeggio ha subito un deprezzamento di ordine “socio-culturale”. Il formaggio fresco, confezionato, asettico, bianco, sempre uguale a sé stesso, si faceva portavoce dei miti della modernità, dell’igienismo, della dietetica. Il formaggio d’alpe – grasso e giallo – veniva pagato meno di quello bianco e più magno invernale. Una mesto declino per l’ “oro degli alpeggi”, per l’ “oro delle Orobie”. Non si sapeva ancora che il grasso contenuto nel formaggio d’alpeggio non solo non contribuisce ad aumentare il “colesterolo” (ovvero ad aumentare il rischio di patologie cardiovascolari) ma è uno “spazzino delle arterie”, ricco – inoltre – di fattori protettivi e di proprietà antiossidanti. La rivincita del formaggio d’alpeggio
La rivincita del formaggio d’alpeggio è legata alla complessiva rivalutazione delle tecniche tradizionali capaci non solo di realizzare prodotti inimitabili, che recano l’impronta del territorio e del “mastro artigiano” che ne è l’artefica ma anche di garantire migliori caratteristiche organolettiche e ottimi standard igienici (qualora si osservino elementari precauzioni e si operi con professionalità, scrupolo e passione). La nuova cultura gastronomica attraverso le figure di noti chef ha contribuito ad affermare un’immagine del formaggio d’alpeggio come prodotto di prestigio mentre, dal canto loro, produttori e stagionatori, puntando anche su lunghe e lunghissime stagionature di formaggi come il Bitto storico e il Formai de Mut (che negli ultimi anni raggiunge anch’esso invecchiamenti di 4-5 anni) stanno diffondendo una nuova percezione del formaggio attraverso forme “millesimate” che recano impresso il nome dell’alpeggio e la firma del casaro. Un modo di equiparare i migliori formaggi d’alpeggio a quello che, nel mondo enologico, rappresentano i Grand cru. Contribuendo ad offrire anche a più ampi segmenti di produzione casearia artigianale le opportunità di una nuova considerazione del formaggio quale prodotto in grado di raggiungere vertici di qualità.