L’area tra Adda e Serio era caratterizzata da vaste aree di “paduli” o “mosi”, aree paludose che, molto estese nell’alto medioevo a causa di fenomeni climatici, della crisi demografica, della contrazione delle superfici agricole e l’abbandono delle attività e opere di bonifica.
Sulla base di questa realtà si è in diverse epoche fantasticato sulla presenza di un lago che si sarebbe esteso da Brembate alla foce dell’Adda. Valerio Ferrari, nella scheda che qui presentiamo, “smonta” una mitologia che continua ad affascinare. La storia del territorio resta comunque affascinante e ancora per molti versi da scoprire. Anche senza ricorrere a laghi impossibili.
La realtà storica, in ogni caso, ci conferma che le aree umide e paludose, nonostante le attività di bonifica intraprese con il grande sviluppo economico e demografico successivo al 1000, erano ancora piuttosto estese. All’inizio dell’Ottocento è significativo che il conte Barni di Roncadello, per avviare un’attività zootecnica e casearia sulle sue terre, dovette preliminarmente attuare delle bonifiche. Ancora nella prima nel XIX secolo, oltre ai “mosi” (di Trescore, Bagnolo e Vailate) vi erano anche altre aree minori lungo il Tormo e attorno a Pandino, a volta associate ai boschi come quello della Barbusera (Madonna del Bosco di Spino d’Adda). Resti di un paesaggio, ora scomparso, che era molto più diffuso nei secoli precedenti.
Queste caratteristiche del territorio, con ampie zone umide, boscose, incolte, gradualmente bonificate spiegano perché alla fine del medioevo, la transumanza, qui molto attiva ma ancora caratterizzata da connotati del tutto pastorali, iniziò ad evolversi nella forma integrata alle attività agricole (consumo di fieno prevalenti rispetto all’uso del pascolo), ovvero nel tipo di transumanza “dei bergamini” con vacche da latte ospitata presso le cascine.
Le caratteristiche del territorio, l’abbondanza delle acque di risorgiva, la presenza di terreni umidi con falda acquifera superficiale, poco adatti alla cerealicoltura spiega anche perché tra Adda e Serio l’attività agricola mantenne e mantiene un carattere fortemente indirizzato alla foraggicoltura e della zootecnia da latte.
“Mare Gerundo”
a cura di Valerio Ferrari
È del 1204 l’unico documento finora noto in cui si nomini il “mare Gerundo”, la cui citazione, che quindi giunge ad attestarne in qualche modo la trascorsa conoscenza, si può leggere nel secondo volume del Codice Diplomatico Laudense compilato da Cesare Vignati e pubblicato a Milano nel 1883.
Il 28 settembre di quell’anno 1204, infatti, in occasione di una ricca dotazione di beni immobili fatta a favore della chiesa di S. Martino dei Tresseni di Lodi Nuovo, dal nobile Fanonus capitaneus de Trexeno, questi, tra le altre cose, donava alla suddetta chiesa anche un sedime, con alcuni edifici, che vien detto giacere in civitate nova Laude prope dictam ecclesiam, coheret a mane costa et ripa Maris Gerundi…
Sulla base di questa episodica e isolata citazione, nei secoli successivi fu costruita una mirabolante nonché fantasiosa storia, accresciuta via via di nuovi dettagli ad opera di diversi autori a mano a mano che prendeva forma, riguardante un “lago” mai esistito, popolato da un drago ‒ a nome Tarantasio ‒ di singolare crudeltà, che solo l’intervento di S. Cristoforo sarebbe riuscito a debellare.
Già lo stesso Cesare Vignati, del resto, da serio storiografo qual era, in calce al documento che andava pubblicando, aveva annotato: «Qui per la prima volta nelle carte di Lodi compare il nome di Mare Gerundo, che venne dato al grande avvallamento dell’Adda da Cassano fino alla sua foce nel Po. Del Mare Gerundo furono fatte molte congetture e dette cose favolose».
E non diceva male, il Vignati, poiché quelle cose favolose iniziarono ad essere propalate, benché senza alcuna base credibile, a partire dalla metà circa del XVI secolo, quando un cronachista cremasco, Alemanio Fino, annotando alcuni passi relativi alla storia di Crema compilata da Pietro Terni e al tempo ancora inedita, ritenne di identificare, tout court, il Mare Gerundo con le paludi che avrebbero circondato l’originaria e ipotetica isoletta su cui sarebbero sorte le prime abitazioni di ciò che sarebbe divenuta Crema.
L’iniziale indeterminatezza topografica del nostro “lago” trovò, poi, nei secoli successivi chi si prese la briga di definirne i confini, andando a configurare un bacino sempre più ampio, che da Brembate ‒ ossia dalla confluenza tra Adda e Brembo ‒ giungeva sino al Po, incamerando, oltre alla valle fluviale di pianura dell’Adda, anche i Mosi di Crema e le presunte rovinose tracimazioni del Serio, ma espandendosi generosamente anche sul livello fondamentale della pianura, per larghi tratti, risparmiando solo l’isola su cui si riteneva fosse nata Crema.
Come si può facilmente capire, una simile raccolta d’acqua, estesa per oltre 60 chilometri in senso nord-sud, con un dislivello tra i due estremi di circa 130 metri (Brembate 173 m s.l.m. ‒ Foce Po 35 m s.l.m. all’incirca), non può esistere, se non negando in modo illusorio le leggi della fisica.
Una simile estensione lacustre, che secondo la testimonianza duecentesca citata avrebbe dovuto esistere ancora in piena epoca basso-medievale, in quanto testimoniata esclusivamente da un’occasionale e peregrina notizia documentale certa, avrebbe dovuto insospettire chiunque se ne fosse voluto occupare. Ma tant’è, e, purtroppo, la mitografia di questo immaginario lago prosegue tuttora vivace e trova sempre qualcuno disposto a sostenerla e rinfocolarla. E se tutto ciò può tranquillamente rientrare nella narrativa di matrice fantastica che oggi piace tanto, sembra invece poco responsabile che una simile storia, priva di ogni presupposto storiografico e scientifico, circoli tuttora nella scuola, primaria, secondaria e oltre ancora, senza che ad alunni e studenti si insegni a valutarla secondo quell’indispensabile lettura complessa e verificabile che potrebbe costituire un’occasione per sviluppare quel senso critico che sembra essersi intorpidito in gran parte della popolazione.
Dunque a che cosa avrà potuto riferirsi la citazione del 1204 relativa al “Mare Gerundo”?
Diciamo subito che i riferimenti topografici relativi devono limitare il richiamo documentale alle strette adiacenze di Lodi Nuovo, fondato per volere di Federico I, detto il Barbarossa, nel 1158 dopo la duplice distruzione di Lodi Vecchio da parte dei milanesi.
Dunque la costa et ripa Maris Gerundi non potrà identificarsi in modo diverso dalla scarpata morfologica che definisce la valle di pianura dell’Adda, ancor oggi ben percepibile, che decorre a margine dell’abitato storico di Lodi e continua a delimitare e distinguere il piano di divagazione fluviale dal livello fondamentale della pianura, con un netto salto di quota di una dozzina di metri circa.
E dunque ciò che agli inizi del XIII secolo ancora poteva essere definito come Mare Gerundo ‒ osservando che la voce latino-medievale mara significava “palude, acquitrino, pantano” ‒ doveva identificarsi con una vasta zona estesa ai piedi dell’orlo di terrazzo d’erosione che delimita la valle dell’Adda, nelle strette adiacenze di Lodi Nuovo, e che, facilmente, potrebbe essere identificata con il tratto di valle fluviale disseminato da una straordinaria successione di rami e meandri abbandonati del fiume che in questo tratto territoriale, grazie alle modestissime pendenze del piano di divagazione dell’Adda, si producono di continuo, punteggiando l’area di acquitrini, stagni e paludi e conferendo ai luoghi un assetto instabile, ostile all’insediamento antropico e, fino alle epoche più vicine a noi, di difficile governo.
Ma solo ulteriori studi, di carattere storico e geografico, potranno consentire un migliore approccio scientifico alla questione e far emergere maggiori dettagli di sicuro interesse.