La cultura della falciatura a mano

In vista della Festa del fieno a Gradella di Pandino del 10-12 giugno 2022, un approfondimento per chi desidera conoscere gli aspetti storici ed etnografici della fienagione. Tante curiosità da scoprire sugli attrezzi che hanno segnato la vita delle generazioni passate. Ricordiamoci che la mitica BCS, eccellenza che nasce non a caso ad Abbiategrasso, terra di prati, bergamini e stracchini (che come Pandino conserva un “filo diretto” con la montagna) è stata realizzata nel 1943. Prima c’erano delle falciatrici trainate dal cavallo ma non rappresentavano un vantaggio netto e indiscusso rispetto alla falciatura a mano. La falciatura a mano si pratica ancora sui prati di montagna in forte pendio o di piccole dimensioni ma non manca chi mette in soffitta il decespugliatore e, per tenere pulito il terreno intorno alla baita, riscopre la ranza arrugginita del nonno, quella di ferro, che perde il filo più facilmente di quelle di acciaio moderne ma che taglia meglio. E che dire delle tante Feste del fieno organizzate nelle valli? Dei corsi di falciatura organizzati dalla ditta Falci di Cuneo? La cultura della falciatura a mano rinasce anche dove meno ce lo si poteva aspettare: nell’Inghilterra dove l’agricoltura contadina si è estinta da secoli, negli Stati Uniti. Per non parlare di quelle realtà dove non si è mai estinta e si è caratterizzava con la produzione di attrezzi accessori che sono delle vere opere d’arte (Tirolo), dove le gare di sfalcio a mano sono uno sport nazionale (come le gare dei cani pastore in Scozia). Ecco che falciare a mano diventa un atto culturale, un’affermazione di valori, un’espressione di resistenza rurale. E che dire dell’importanza delle canzoni sulla fienagione e del rinverdimento del repertorio popolare con la Ranza (Oh Adriana) di Davide Van de Sfroos, un inno ai falciatori di ieri e di oggi? Vediamo allora di conoscere di più sulla nostra “falce fienaia” (come suona pedante e scolastico in italiano!) sulla ranza.

La calce fienaia (la ranza): storia di un attrezzo agricolo che ricompare dopo cinque secoli di oblio

Museo di Alesia – Lama di falce di epoca gallo-romana

La falce celtica prefigura per molti aspetti quella medievale: la lama era lunga, il manico era lungo, l’angolo tra la lama e il manico era molto aperto consentendo di mantenere le la lama parallela al terreno. Il falciatore poteva quindi mantenere la posizione eretta e praticare un movimento largo e agevole. La falce fienaia si evolve in ambienti dove le condizioni climatiche consentono la produzione di fieno senza l’apporto dell’irrigazione, quindi sulle montagne o in aree esposte alle correnti atlantiche, in concomitanza con una cultura dell’allevamento e della caseificazione che richiedono scorte di foraggio per l’inverno. Condizioni che caratterizzano l’area delle culture celtiche (Francia, Svizzera, Italia Nord-Occidentale). Inutile aggiungere che i celti erano un popolo di abilissimi allevatori, casari ma anche fabbri e falegnami ai quali dobbiamo molte tecnologie in ambito agroalimentare.

Martirologio di Adalberto di Prüm (ca 860)

Nell’alto medioevo la falce fienaia scompare. Il motivo è semplice: i sistemi di allevamento (suini e ovini) sono caratterizzati dal pastoralismo, potendo essere sfruttati a pascolo vasti terreni incolti. Dopo il mille con il decollo dell’economia, una prima urbanizzazione, l’aumento della popolazione (XII-XIII secolo), gli incolti diminuiscono e alla contrapposizione tra campi di cereali asciutti e pascolo estensivo subentra un più articolato agropastoralismo, con una crescente produzione di fieno nelle aree strappate all’incolto. Quando l’aumento della popolazione troverà un freno nei limiti all’espansione delle terre agricole subentreranno carestie e la peste (XIV secolo). La più antica raffigurazione medievale della falce fienaia si trova nel martirologio del monaco Adalberto di Prüm (IX secolo) e illustra il mese di luglio. Da notare che il manico della falce è, per la prima volta nelle rappresentazioni, provvisto di due manopole.

Una delle tante raffigurazioni della fienagione nelle miniature del tardo medioevo

Oltre alle miniature, tra le raffigurazioni pittoriche della fienagione, si annovera l’affresco del ciclo dei mesi della Torre Aquila del castello del Buonconsiglio di Trento.

Magister Venceslao, Mese di luglio (1391-1407); affresco; Trento, Castello del Buonconsiglio, Torre Aquila

Nell’affresco del maestro Venceslao sono riportati con dettaglio e realismo alcuni particolari come la martellatura del filo della lama della falce. Oggi, spesso, la lama si stacca dal manico per svolgere questa operazione. Per non perdere tempo questo falciatore della dine del XIV secolo, usa un puntello per sostenere il manico. Il modo di tenere in mano la lama è lo stesso ancora oggi.

Dettaglio mese di Luglio del Ciclo dei Mesi della Torre Aquila a Trento

Lo si vede in questo brevissimo video di questa mattina (4 giugno 2022). Il sig. Angelo Colombo, titolare con i figli della cascina Regolè di Cassano d’Adda (MI) usa un “trucco” simile per non smontare la falce: la tiene sospesa per il manico, con una corda al ramo di un albero. Per il resto quante somiglianze. Aggiungiamo la posizione delle manopole. A Milano e in Lombardia la manopola a metà manico è fissata con la stessa direzione della lama. Così anche nell’affresco di Trento. Non un caso perché a Trento e anche in sponda sinistra dell’Adige si parlava lombardo sino al XVI secolo. La posizione delle manopole è quindi un interessante marcatore culturale.

Dimmi come impugni la falce e ti dirò di dove sei

La posizione delle manopole (magnöl) è un marcatore culturale. In Lombardia (e nell’area lombardofona (Trentino occidentale, Svizzera italiana, Piemonte settentrionale) la manopola a metà manico si tiene rivolta nella direzione della lama, opposta quella in cima al manico. Così anche in Friuli. Altrove (di solito) entrambe le manopole sono in direzione opposta alla lama.

Manopole in direzione opposta alla lama: diffuse nel Piemonte occidentale, nell’area veneta ed emiliana

A sinistra manopole alla lombarda, al centro una falce con una sola manopola, tipica del centro-sud. Mano a mano che si scende nella penisola l’uso della falce era meno importante e la falce poteva assumere l’aspetto di quella a destra: senza manopole e corta. Nel Sud insulare la falce è stata introdotta solo nel primo Novecento. Falci di questo tipo, però, erano usate anche al Nord per utilizzi particolari (taglio dell’erica delle brughiere, fieno “selvatico”).

Il manico moderno è quello arcaico?

Da osservare che tutti i manici (le figure sono tratte dal classico lavoro di P. Scheuermeier “Il lavoro dei contadini” sono diritti mentre nell’affresco della Torre Aquila si osservano dei manici ricurvi, come quelli attuali in ferro. Il manico di legno curvo “arcaico” si è curiosamente mantenuto negli Stati Uniti, evidentemente importato da coloni di cultura conservativa, mentre in Europa si affermava il manico diritto.

Falciatura nella bassa Lombardia. La seconda guerra mondiale, con la scarsità di manodopera per la mobilitazione spinse alla realizzazione delle motofalciatrici. La prima BCS (Baldini – Castoldi – Speroni) fi costruita ad Abbiategrasso (MI) nel 1943. Ebbe subito una rapida diffusione.

La falce e il falciatore possono essere bravi, ma se non si affila e non si martella…

Molto importanti sono gli strumenti per affilare la falce. La pietra cote naturale, estratta da cave della bassa val Seriana è uno scisto cristallino a grana fine. Vi sono anche coti in carburo di silicio (impropriamente chiamate carborundum). Presente in natura solo nelle meteoriti, il carburo di silicio è stato sintetizzato negli Stati Uniti a fine Ottocento.

Il porta cote presenta interessanti differenze. L’uso del corno bovino era (e rimane) molto diffuso quasi ovunque. Praticato un foro sotto il bordo della bocca si faceva (si fa) passare un filo di ferro per creare un gancio da appendere alla cintura. All’interno del porta cote si versa dell’acqua. Nelle zone alpine erano diffusi i porta cote in legno (2, 3, 4 da sinistra) che nel Tirolo assumevano aspetto panciuto ed erano spesso intagliati e dipinti con colori vivaci rappresentando un’espressione tipica di artigianato artistico. La punta serviva per conficcare il porta cote nel terreno.
In Tirolo (compreso l’attuale Trentino da dove proviene il pezzo qui sopra), l’artigianato artistico legato alle pratiche (che poi erano anche un rito) di fienagione, era particolarmente sviluppato come dimostrano degli artistici porta falce.

Nella zona romagnola e marchigiana era utilizzata come porta cote una scatoletta di legno piatta particolare: in uno dei due scompartimenti si teneva un bastoncino avvolto in uno straccio bagnato per pulire la lama (5 da sinistra). Il modello a destra è quello moderno, espressione dell’omologazione prodotta dall’uso di materiali non tradizionali. Si tratta di un contenitore di latta che è poi diventato di plastica. Qualche anno fa non era inusuale vedere utilizzati dei barattoli di latta come porta cote. Una tendenza che è stata superata da un certo ritorno alla tradizione: chi falcia a mano oggi è consapevole, in misura più o meno marcata, di esercitare una pratica culturale che è anche un modo di affermare (anche in modo orgoglioso) l’attaccamento ai valori del mondo rurale. E allora ecco che la dimensione simbolica così importante per i vecchi (i “moderni” non capiscono perché spendevano così tanto tempo a decorare gli “umili” e “rozzi” attrezzi da lavoro), in qualche modo ritorna. A conferma della scarsa importanza al Sud della fienagione il falciatore infilava la cote in una tasca (ovviamente non potendo tenerla bagnata come avviene nel porta cote).

L’uso di infiggere l’incudine batti falce in un troco d’albero era tipico della Lombardia e del Piemonte

L’arte di battere la falce

Un attrezzo che ha mantenuto delle versioni differenziate è l’incudine battifalce con i relativi tipi di martello. Il filo della lama va regolarizzato e appianato durante la falciatura battendolo con piccoli colpi che interessano un è realizzata per essere infissa nel terreno (e allora è lunga e lungo il gambo sono fissati dei riccioli che ne fermano la penetrazione) o su ceppi o alberi o in fessure in blocchi di pietra. I contadini che falciavano piccole superfici vicino a casa utilizzavano “postazioni fisse” presso le abitazioni o le stalle-fienile dei maggenghi, i falciatori di pianura, che potevano lavorare anche distanti dalla cascina, usavano piantare l’incudine nel terreno. Così facevano anche i falciatori specializzati che migravano stagionalmente (erano famosi i bergamaschi che si recavano in Svizzera e in Trentino. L’incudine poteva

Sotto vediamo dei modelli di incudine oggi in produzione: quello a sinistra è senza gambo, segue un modello con gambo corto; gli altri vanno infissi nel terreno. Spesso anche le incudini con il gambo lungo vengono utilizzate infisse in un ceppo. Vi sono poi incudini che presentano poco al disotto della testa un gradino, serve per ammortizzare i colpi del martello e ridurre la vibrazione. La grande differenza di foggia delle incudini battifalce riguarda, però la superficie di battitura: piana nel modello oggi definito “Soresina”, a spigolo negli altri casi. La differenza riflette, almeno in Lombardia una polarità montagna-pianura: l’incudine piana è tipica del cremasco, quella spigolosa della montagna bergamasca. Difficile, però, per le varie fogge individuare i modelli autoctoni perché nel tempo per importazione da altre regioni o per la presenza di falciatori professionisti emigranti o di allevatori transumanti che svernavano in pianura (i bergamini) le tradizioni regionali si sono rimescolate.

Per battere la lama sui diversi tipi di incudine servono ovviamente modelli diversi: testa piana con incudine a spigolo, testa a spigolo con incudine piana. La superficie di battitura deve essere limitata a 2 mm dall’orlo della lama se la battitura deve risultare efficace.

Serve quindi una certa abilità e la vista buona nel tenere in mano la lama, farla scorrere, colpire nel punto giusto. Anche in passato non tutti i falciatori erano abili a eseguire questa operazione., così oggi sono disponibili delle macchine a leva o a pedale.

Non basta tagliare, si deve spandere, rivoltare, ri-spandere, caricare

Le forche da fieno vengono usare per spargere il fieno sul campo e per caricare il carro. Quelle di legno erano più comunemente a due denti e non sono del tutto scomparse. Realizzate sfruttano la naturale biforcazione di una pianta o di una branca. Quelle a tre denti, presenti solo in alcune zone alpine (valli ladine, valli occitane piemontesi) venivano realizzate applicando i denti laterali e tenendoli uniti con delle sbarrette trasversali. Per rivoltare il fieno veniva usato anche un semplice bastone. La forca a due denti in ferro, utilizzata comunemente per il letame era usata solo in situazioni di scarsa importanza della fienagione dove l’uso occasionale non implicava disporre arnesi specializzati. Oggi alle forche di legno sono subentrate quelle in ferro a tre denti.

Il prato veniva accuratamente pettinato. Non doveva essere sprecato un singolo stelo

I rastrelli (da 15 a 20 denti) non presentavano particolarità regionali. Quelli di legno sono ancora utilizzati in montagna dove, spesso, la plastica ha sostituito direttamente il legno senza passare dall’attrezzo di ferro (più pesante). Manico, pettine e denti erano (sono) realizzati con legni differenti. Il manico di nocciolo per la sua leggerezza, il pettine di acero o frassino, i denti in corniolo. Il rastrello di legno quando si rompe un dente viene riparato dal contadino, quello di plastica si butta.