Super transumanza a Lecco

3000 pecore passano in città 

(20/05/2020) Lecco sfida Madrid e Marsiglia.  Sabato 23 maggio, in mattinata, passeranno dal centro di Lecco 3200 pecore dei pastori Galbusera, dinastia (alla quinta generazione) di pastori brianzoli doc. Sono diretti ai pascoli della Valsassina. E’ la prima volta che i tre greggi dei Galbusera effettuano la transumanza insieme. Uno spettacolo da non perdere. Ma sapevate che a Lecco c’è la Via delle Pecore e che …

La transumanza a Marsiglia

(21.05.20) Lecco città di transumanza. Oggi è vista come un fatto curioso, una novità. Forse c’è più interesse per il fiume che cammina belante di qualche tempo fa. Non pochi anni fa le pecore erano considerate un residuo arcaico di un mondo che era meglio archiviare, che “disturbava”, che sporcava, che puzzava. Non è un fatto locale ma epocale, globale, l’effetto della post-modernità o, se si vuole, del rigetto di una modernità ormai estrema e dagli sviluppi inquietanti. Non a caso l’Unesco il 19 novembre scorso ha dichiarato – tra le troppe cose che inflazionano il riconoscimento un tempo prestigioso – la transumanza “patrimonio immateriale dell’umanità”. In Italia non si è fatto molto per divulgare e celebrare questo evento. Poi è venuto il virus. Ora a Lecco la super-transumanza inedita è anche festa per il riconoscimento Unesco e per il superamento della fase critica dell’epidemia.


Le pecore svolgono anche il servizio di  tosa-siepi. Scherzi a parte, oggi sono più le persone felici di questa irruzione di una dimensione diversa che quelle che si lamentano per i piccoli inconvenienti del passaggio.

Così i pastori passavano senza farsi notare, di notte. Sono da decenni che Franco Galbusera passa con le sue pecore. Oggi c’è non solo più tolleranza ma anche simpatia e il passaggio delle pecore è tornato, come da secoli, una festa. Con la gara a immortalare il gregge nell’insolito paesaggio urbano.  In questi giorni i greggi dei Galbusera si sono avvicinati a Lecco pascolando nell’alta Brianza. Domani si riuniranno a San Michele (il santuario di origine longobarda alle pendici del monte Barro, di fronte alla città). Sabato mattina passeranno il ponte Azzone Visconti e da lì attraverseranno la città in direzione Valsassina. La partenza da Galbiate sarà alle 6. Attraversato il ponte il gregge percorrerà  via Amendola, Largo Caleotto, via Tonale, via Don Luigi Monza, via Valsecchi, Montalbano, Ballabio. Quindi lo spettacolo sarà per metà mattinata. Ideale.
Sarà uno spettacolo grandioso. E’ la prima volta che tre greggi passano insieme.  Negli anni scorsi, transitavano in giorni diversi, al massimo mille pecore per volta.
Partecipare anche per un attimo fuggente a un evento chr trasmette il senso di un ritmo che non si arresta, che continua ad essere cadenzato con la crescita dell’erba,  con una epidemia non ancora archiviata, è oggi quanto mai terapeutico. Ma è anche occasione, al di là delle sensazioni, della dimensione emozionale, per riflettere sulla relazione tra la città e la montagna, tra il presente e il passato. Per chiederci anche che futuro vogliamo.


Franco Galbusera, famiglia di pastori brianzoli, oggi ha residenza a Pasturo

Lecco città di transumanza?

Riprenderemo subito a parlare delle pecore che attraverseranno Lecco dopodomani. Prima, però, qualche piccola considerazione storica per capire perché Lecco non è solo la città della transumanza delle foto sui social ma lo è anche in ben altri termini.  Se Bergamo è la capitale indiscussa della transumanza del Nord Italia, anche Lecco e Brescia, città pedemontane, sono a pieno titolo città di transumanza (come in Piemonte Biella, Saluzzo, Mondovì).  Il fatto che sembri strano è dovuto solo a una percezione distorta. Ferro e formaggio, ferro e transumanza  sono stati un binomio indissolubile. Però ci si ricorda solo del ferro. Eppure minatori e pastori usavano gli stessi alpeggi. Padroni dei pascoli e delle miniere erano spesso gli stessi personaggi (i Manzoni tanto per non far nomi). Per secoli ferro e transumanza si sono date il cambio: quando era in crisi una delle due attività la valle si spostava sull’altra (notiamo che in passato la Valsassina iniziava a Lecco e finiva a Bellano perché “valle” era un concetto etnostorico, non di pedante idrografia).  Lecco è stata la capitale del formaggio. Ma non lo sanno neppure i lecchesi (il formaggio è anche un fatto silenzioso – lavorano i microbi – tutto all’opposto dei vulcanici altiforni che hanno alimentato le mitologie del Novecento, in versioni di “destra” e di “sinistra”).
La sede attuale della provincia è la Villa Locatelli, dinastia di formaggiai valsassinesi con origini nella transumanza. Il senatore Umberto Locatelli, morto nel 1958, titolare della ditta, fu personaggio importante in città, donò importanti opere pubbliche, fu pres. del Cai e dell’Ana, realizzò rifugi. I Locatelli erano anche allevatori (a Ballabio, al prato della Chiesa) e contruibuirono come pochi al progresso zootecnico. Anche sponsorizzando la Fiera di Lecco, che anche nel dopoguerra vedeva larga presenza di animali.


Il Caleotto, complesso industriale che ha segnato la storia sociale di Lecco

Se la Locatelli divenne la più grande ditta casearia dopo la Galbani (sempre di qui e sempre con quelle origini), fino agli anni ’30 non poche e non poco importanti erano le ditte casearie cittadine. Il gorgonzola arrivava a fiumi alla stazione di Lecco (il 20% del volume del formaggio italiano passava di qui), ma il grosso saliva in Valsassina nelle famose casere. Pochi sanno, però, che vi erano altre ditte importanti di gorgonzola a Lecco: la Corti a Castello (con grossi magazzini-casere a Balisio), la Milani in via Belvedere (con magazzino-casera con tanto di ghiacciaia, con macchina del ghiaccio made in Lecco).  Nel 1927 Filippo Tommaso Marinetti gratificò i  lecchesi che, al contrario di altri, non avevano fischiato una sua opera teatrale: Lecchesi, geniali amici del ferro veloce e del formaggio fortificante. Parole futuriste che esaltavano il formaggio. Una cultura della modernità ben diversa da quella di tempi a noi più vicini.

Lecco negli anni ’30 dell’Ottocento (si nota il tracciato nella nuova strada del lago di Como e dello Spluga, per quei tempi una vera autostrada). Pallino rosso Osteria del Vincanino (oggi via Vincanino), pallino giallo Via delle Pecore, pallino blu l’area di sosta dei bergamini lungo il Gerenzone.

La transumanza tra la Valsassina e la Brianza è fatto che anticipa i tempi storici, ma ben documentata è la transumanza moderna, a partire dal tardo medioevo, tra la Valsassina e la bassa pianura lombarda. La transumanza dei bergamini, con le vacche da latte, è continuata sino agli anni ’60. Ma subito dopo la guerra le vacche arrivavano già in treno, sbarcando, con indescrivibile confusione (e “imboasciamento”) alla stazione, poi, dal 1953, hanno continuato per un po’ in camion. Prima dell’espansione urbana vi erano possibilità di sosta nei prati nei pressi del borgo lungo il Gerenzone (viale Turati).

Quei greggi inarrestabili

La transumanza ovina non si è mai interrotta. Chissà a cosa si deve la dedica alle Pecore dell’omoniva vietta (molto tortuosa e pedonale) sull’antica via che scendeva la valle del Gerenzone in sponda destra (opposta a Castello, per intenderci). Va detto che le vacche sono meno agili e più ingombranti e che i bergamini, dalla metà dell’Ottocento, erano dotati del carro a due ruote, con una copertura in tela bianca sortretta da céntine come i carri del Far west americano). Così il bergamino scendeva (e saliva) lungo la strada principale; il pastore del passato, con piccoli greggi, prendeva stradine più campestri.

Sono cambiate proprio molte cose: i greggi oggi sono di mille pecore.  Se la transumanza bovina si è intrecciata con la grande storia, con le dinastie industriali dell’agroialimentare, quella ovina, mantenendosi sotto traccia, è sempiterna. In mezzo alle grandi trasformazioni del territorio non solo riesce a trovare spazi, ma ne conquista di nuovi.

Con la cessazione delle piccole attività agricole in montagna ma anche in collina, le pecore assumono un ruolo preziosissimo di manutenzione e cura dello spazio non più coltivato. Vale per i campi, le terrazze (i ronchi brianzoli), ma anche per i pascoli e gli alpeggi. Erano tanti un tempo i bergamini che si contendevano gli alpeggi, ora tra le poche aziende zootecniche rimaste in Valsassina non tutte alpeggiano. E se non ci fossero i veri pastori i pascoli finirebbero agli speculatori che – attraverso truffe più o meno legalizzate – riecono a incassare fortissimi contributi per pascolare poco e male (talvolta per nulla). Ben vengano quindi i pastori come i Galbusera.


I Galbusera hanno tre greggi. Andrea, il figlio di Franco – quarta generazione di pastori –  nato a Colle Brianza, da tempo ha una propria azienda (a Garbagnate). Pascolano separatamente, ognuno ha le sue zone tra la bassa e l’alta Brianza. Poi a maggio, come  si è sempre fatto, si sale in Valsassina. Un gregge  pascola i piani d’Erna e la conca di Morterone, il bellissimo paesino dietro il Resegone, che un tempo era abitato da moltissime famiglie di transumanti (con le vacche da latte, bergamini).  Oggi i prati sono diminuiti moltissimo, il paesaggio si è trasformato e perderebbe del tutto le sue caratteristiche e il suo fascino se il bosco avanzasse ulteriormente. Un altro gregge pascola la zona delle Grigne. Non mancavano le pecone sulle Grigne ma utilizzavano solo i pascoli più alti e sassosi.


Pascolo a Morterone

Ora anche i pascoli disseminati di cascine delle quote più basse sarebbero incolti se non vi fossero i greggi transumanti. Il terzo gregge utilizza i pascoli della Culmine di San Pietro e di Artavaggio ai confini con la val Taleggio. Poi scende in val Brembana e risale sino in alta valle nella zona del laghi Gemelli. E’ un grande comprensorio pascolivo nelle Orobie occidentali tra Lecco e Bergamo che questi greggi mantengono. Considerato l’impegno organizzativo per gli spostamenti a piedi e con i mezzi e i benefici ambientali e paesaggistici apportati, i contributi – in casi come questi – rappresentano un giusto corrispettivo per dei servizi resi.

Bergamo capitale della transumanza

Bergamo si consacra capitale della transumanza del Nord Italia con i bergamini e la pecora “Gigante di Bergamo”

(25/10/2019) Bergamini e pecora “Gigante di Bergamo” al centro della sesta edizione del Festival del pastoralismo di Bergamo. Il Festival del pastoralismo si conferma come manifestazione che collega storia e tradizione con aspetti di attualità che riguardano anche l’economia del territorio (turismo e agroalimantere, ma non solo).

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Il week-end inaugurale del Festival (che si protrarrà sino al 17 novembre) segue quello dedicato ai formaggi con una edizione speciale di FORME che ha coinciso anche con il World Cheese Award e la presentazione della pubblicazione sulle Cheese valleys, le valli orobiche culla di grandi tradizioni casearie, alla base della candidatura Unesco di Bergamo a “città creativa per la gastronomia”.

Non è solo passaggio di testimone tra eventi, ma un nesso profondo che lega queste iniziative. Il Festival, infatti, celebra la transumanza dei bergamini (con la sfilata rievocativa Sabato 26 per le vie di Bergamo bassa) perché sono loro: gli allevatori-casari transumanti che per sei secoli hanno fatto i pendolari con le loro mucche tra le valli e la Bassa, ad aver posto le basi della grande tradizione casearia orobica. La sfilata termina in Piazza Pontida (mercatino formaggi delle valli, polenta)

Domenica 27 con la ormai tradizionale Transumanza delle pecore sulle mura e sui colli di Bergamo si celebra, invece, l’altro aspetto del pastoralismo e della transumanza bergamaschi: quello legato alla pecora Bergamasca (la “Gigante di Bergamo”) e al suo sistema transumante. Arrivo alle 12 a Valmarina (Parco dei colli) con degustazioni di carne di pecora bergamasca, formaggi, polenta. Qui musica tradizionale bergamasca con baghet e flauti di Pan.

Bergamo capitale della transumanza del Nord Italia quindi, perché sia i bergamini con le loro mandrie e le loro attività casearie, che i pastori con le loro pecore, hanno impresso un forte influsso bergamasco e lombardo alla realtà pastorale e casearia alpino-padana. La Mostra aperta alla Porta Sant’Agostino (inaugurazione Sabato 26 ore 18) che resterà aperta (ore 10-19) tutti i week end e il ponte dei Santi, racconta di come la pecora Bergamasca ha impresso i suoi caratteri alla generalità delle razze ovine alpine. Essa è accompagnata da due mostre che guardano alla pecora e ai pastori con occhio d’artista (opere a soggetto pastorale di Giacomo Piccinini, noto pittore novecentesco bergamasco) e foto del giovane fotografo venero Mauro Scattolini che ha seguito assiduamente due pastori dell’alta val Seriana.

Pecora animale dalle grandi utilità. Non solo carne ma anche latte e lana. Il 2 Novembre alla sede del Parco dei Colli ci sarà una Giornata della pecora da latte con un convegno tecnico, una dimostrazione di caseificazione di latte ovino e una esposizione di razze di pecore da latte (in carne e ossa e lana). Nel Festival vi saranno anche presentazioni di libri e convegni anche su questioni di attualità. “Che fare dopo la chiusura del lavaggio lana di Gandino, ultimo del Nord Italia?” (incontro il 16 pomeriggio a Porta Sant’Agostino). “Come valorizzare i greggi transumanti per la cura dell’ambiente delle aste fluviali dell’Adda e del Brembo” (incontro il 16 mattina sempre alla Porta Sant’Agostino).

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Forme, evento mondiale a Bergamo omaggia i casari Orobici

Occasione importante per dare meritata visibilità nel contesto di un evento che richiama a Bergamo formaggi e operatori del formaggio da tutto il mondo, agli abili casari di montagna e ai formaggi dall’intenso profumo di storia antica e contemporanea. Veri Prìncipi delle Orobie!

Nell’ambito di Forme, che alla Fiera di Bergamo prevede una mostra mercato aperta a tutti e una manifestazione aperta ai soli operatori del settore, ci saranno anche eventi a Città alta, al Palazzo della Ragione e nella sottostante Loggia. In particolare il 19 e 20 l’esposizione con degustazioni (aperta al pubblico e gratuita) Cheese Valleys dedicata alle eccellenze casearie delle Cheese Valleys, il progetto che candiderà Bergamo, insieme ai territori delle province di Lecco e Sondrio, come Città Creativa UNESCO per la Gastronomia.

Vai al programma ufficiale di ‘Forme 2019’

di Antonio Carminati

(12.10.19) Dal 17 al 20 ottobre prossimi, Bergamo diventa la vetrina dei formaggi di tutto il mondo. “Forme”, il progetto di valorizzazione dei “Principi delle Orobie”, ha per così dire sdoganato i formaggi prodotti su queste nostre montagne, come pure nelle cascine della piana lombarda, certificando un posto tutt’altro che marginale nel comparto lattiero-caseario italiano, riconosciuto a livello internazionale. Bergamo è di fatto la Capitale Europea dei Formaggi, con le sue nove D.O.P. casearie (rispetto alle cinquanta che si contano complessivamente in Italia) e si candida a diventare Città Creativa Unesco per la Gastronomia. Ce n’è quanto basta. Ci attendono quattro giorni di iniziative, laboratori, degustazioni, incontri, esposizioni di prodotti caseari provenienti dai vari continenti, giunti sino a Bergamo per partecipare alle “Olimpiadi del Formaggio”, che culmineranno (18 ottobre) con la proclamazione ufficiale del formaggio “Campione del Mondo”. Si confronteranno grandi brand con prodotti fatti a mano dai piccoli artigiani del cibo, mentre gastronomia e territorio, cultura e turismo avranno modo di offrire coniugazioni di esperienze e obiettivi comuni, a confronto dalle diverse regioni del pianeta.
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Forme, 2019
Ogni formaggio, fresco o stagionato, a pasta cruda o cotta, ha una propria storia, che spesso si perde nella notte dei tempi; è il frutto dell’ingegno dell’uomo, un concentrato di abilità e di saperi, di esperienze e vissuti individuali, ma anche lezione di comunità e specchio della vita e del lavoro di generazioni di uomini e donne rurali. Prodotti che si perfezionano ed evolvono in relazione ai bisogni sociali e alle aspettative mutevoli dei consumatori. La parola “formaggio” è antica, come del resto l’alimento che la identifica: formos, presso gli antichi Greci, indicava il contenitore dove veniva messo il latte cagliato, essenzialmente di origine ovina, affinché prendesse la forma. Numerose fonti storiche ci riconducono alla pratica della lavorazione del latte già dal terzo millennio a.C., in Mesopotamia.
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La preparazione della cagliata in alpeggio. Fotografia di Pepi Merisio
Per quanto ci riguarda più da vicino, di fronte al proliferare sul territorio bergamasco di una cultura casearia così diffusa e articolata in un’ampia gamma di prodotti e di sapori, non è scontata la domanda sul retroterra storico così provvido da rendere la terra orobica congeniale alla produzione di formaggi. I prodotti alimentari sono il frutto di antiche sedimentazioni e sulle Orobie la tribù di origine celtica degli Orobi, proveniente dall’Europa centrale, che nel IV secolo a.C. colonizzò pacificamente le valli bergamasche, lecchesi e comasche, praticava l’allevamento bovino, sapeva lavorare il latte, produceva quindi formaggi e burro, ed era abile nell’agricoltura, soprattutto nella coltivazione dei cereali anche sui ripidi versanti di montagna, che iniziarono a sfruttare attraverso la costruzione di terrazzamenti con muri a secco, o cigli erbosi, e terrapieni. Quella popolazione si nutriva di latte, formaggi e di carni di tutti i tipi, soprattutto di maiale, sia fresca che salata (Strabone, Geografia Universale, IV, 4,3).
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Stracchini
Diverse parole ancora oggi in uso nel linguaggio vernacolare corrente in campo zoo-caseario, come pata (pezza), paröl (paiolo), bar(montone), bàrech (recinto) bessòt (pecora), schèla (campanaccio),… hanno un’evidente attinenza celtica. Plinio (Historia Naturalis, libro III, 17), attorno al 77 d.C., descrive l’ottimo formaggio prodotto nella pianura lombarda e annota la tecnica usata dalle popolazioni che si erano stanziate tra l’attuale Valsassina, l’alta Valle Imagna e la Valle Taleggio: l’impiego di latte vaccino, il tipo di lavorazione, la forma del caseus negli stampi quadrangolari di legno, la salatura,… modalità in gran parte ancora oggi un uso. Il caseus era un formaggio fresco, ottenuto a pasta cruda, di media stagionatura, simile allo stracchino di oggi, che dalle vallate orobiche, patria di casari abilissimi e di nota fama, si diffuse ben presto in tutta la piana lombarda, attraverso l’azione dei bergamini, allevatori transumanti dal monte al piano, che nel periodo invernale scendevano con i loro armenti alla Bassa per consumare le riserve foraggere, dando vita a specializzazioni zoo-casearie, produttive e commerciali, non indifferenti, tra le quali spicca, per l’appunto, la vendita e la distribuzione di formaggi, caratterizzando e spesso monopolizzando i mercati cittadini. Forme di nomadismo stagionale connesse alla transumanza pastorale e bergamina.
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Gli stracchini di Carmela, 2016. Fotografia di Alfonso Modonesi
Un altro prodotto associato alla cultura degli Orobi è la robiola, o “orobiola”, un tipico formaggio lombardo fresco simile a una vellutata crema di latte. Anche Ateneo (Dipnosophistarum sive Coenae sapientum, libri XV, a. 204 d.C.), relazionando circa gli usi e costumi e dotti conversari di tavola tenutisi in casa del ricco romano Laurentio, illustra il famoso cacio morbido della pianura presso Mediolanum: anche qui, i processi di preparazione e maturazione descritti sono molto simili a quelli in uso ancora oggi nella preparazione degli stracchini. In seguito diverse altre fonti richiamano la tradizione casearia del cacio lombardo, da Cicerone a Marco Catone (De agri coltura), sino a Venanzio Fortunato. Quest’ultimo, caduta Roma, nel VI secolo d. C., esalta il celebre cacio lombardo, fatto di latte fresco di vacca, raccolto in stampi foderati di lino (la pàta, ossia il telo di lino entro il quale è raccolta la pasta fresca per lo spurgo). Poggiati su stuoini gli stampi, si attende che il formaggio sia asciutto per poi strofinarlo con sale e lasciar maturare tutto per trenta giorni. Il cacio è di color avorio paglierino, con sfumature di un lieve colore rosato.
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Mungitura a mano in alpeggio. Fotografia di Emilio Moreschi
Si potrebbero citare diverse altre fonti sulla lavorazione del cacio lombardo, dall’agronomo romano Marco Terenzio Varrone (De Rustica, 37 a.C.), che illustra i principali tipi di formaggi consumati nel II secolo a.C. (vaccini, caprini e ovini freschi e stagionati), documentando anche come il gusto dell’epoca fosse rivolto ai formaggi ottenuti con il caglio di lepre o capretto, sino allo scrittore romano di agricoltura Lucio Columella, che nel suo De re rustica (I sec. d.C.) illustra le tecniche di trasformazione casearia e l’uso dei coagulanti vegetali. In seguito diversi altri autori si sono occupati dell’argomento, sia nel periodo medioevale, che nella società moderna.
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La casèra d’alpeggio. Fotografia di Emilio Moreschi
Mi preme qui sottolineare la probabile continuità storica tra lo stracchino di oggi, il caseus e il cacio orobico di ieri, veri e propri beni culturali, riconoscendo all’antica civiltà di matrice celtica degli Orobi il grande merito di aver dato origine a un processo di colonizzazione sapiente delle vallate a Nord di Bergamo, nella fascia prealpina tra Brescia e Lecco; una colonizzazione che ha alle spalle duemilacinquecento anni di storia, portatrice di identità e produzioni agroalimentari ben definite e circoscritte entro chiari territori. Quei primi insediamenti umani, attraverso la pratica pastorale e zoo-casearia, l’attività agricola e di “bonifica” di ampi territori montani, hanno reso possibile e trasmesso la vita e il lavoro in montagna, che continua ancora oggi. Nella produzione dello “stracchino all’antica” (oggi Presidio Slow Food), ad esempio, si rinnovano antiche conoscenze, abilità artigianali non comuni dei casari di montagna, pratiche e comportamenti in grado di rinnovare ogni giorno quel “miracolo” esperienziale che, millenni or sono, aveva casualmente trasformato il latte in una soffice e gradevole pasta casearia, dalla quale sono scaturiti poi un’infinità di formaggi (a pasta cruda e a pasta cotta, teneri e duri, freschi e stagionati, dalle molteplici forme quadrate, e rotonde, cilindriche e piramidali,…).
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Stracchini all’antica delle valli orobiche
E se quassù, nelle Orobie, quell’antico “miracolo” si rinnova ancora oggi, tutti i giorni, attraverso il lavoro di centinaia di casari, dentro le piccole casère gestite dalle famiglie rurali, ciò è dovuto al viscerale radicamento dei gruppi sociali nelle rispettive contrade, veri e propri forzieri e contenitori di affetti, memoria, lavoro e storia. Le nove D.O.P., infatti, nella geografia casearia del territorio, quindi nei rispettivi ambiti socio-economici, rappresentano la punta emergente di un grande iceberg assai più esteso, costituito da migliaia di micro aziende, silenziose e operose, come altrettanti pezzi di un immenso puzzle che, insieme, formano un disegno colorato e particolareggiato della vita e del lavoro in montagna, definiscono le pratiche di trasformazione del latte, diffondono nuovi sapori e promuovono attività rurali assai preziose e irrinunciabili. La storia continua…

I bergamì tornano nel cuore di Milano

Venerdì 28 aprile alle 18 alla Sala del Grechetto della Biblioteca comunale centrale di Milano (Via Francesco Sforza, 7)


(23.07.17) Si torna a parlare di bergamini a Milano. Un ritorno a casa gli allevatori-casari transumanti di origine orobica che rappresentarono per secoli una presenza ben visibile nella metropoli lombarda. L’occasione è offerta dalla presentazione i libri di Michele Corti sul tema dei bergamini alla biblioteca centrale comunale (Palazzo Sormani-Andreani) nel quadro del ciclo di incontri Grechetto-dipoesia e delle attività di Latte&Linguaggio onlus che organizza a maggio alla ex Cascina Chiesa Rossa (biblioteca comunale realizzata in una vecchia stalla di bovine da latte) l’omonimo convegno-sagra rurbana Alla sala del Grechetto della Sormani si parlerà di bergamini e Milano, bergamini e Valsassina, con Michele Corti e Giacomo Camozzini (autori). Antonio Carminati (editore), Luigi Ballerini, l’anima di Latte&Linguaggio.

Ma non è strano parlare di allevatori-casari, per di più montanari nel centro di Milano? D’accordo che questi personaggi sono oggetto di libri, ma… E invece i bergamini proprio nella precisa zona di Milano dove sorge la più frequentata biblioteca cittadina, erano di casa.

Partiamo dalla via

I bergamini, come altre “categorie” che hanno marcato la storia di Milano del tardo medioevo e della età moderna, hanno – in pieno centro della città – una via ad essi  dedicata nel quartiere dove si concentrano e aleggiano  le loro memorie.  Come gli orefici, i cappellari, gli spadari, gli armorari ecc.

Per chi non lo sapesse la via bergamini è dedicata proprio a loro, era detta prima della più fredda “via bergamini”, “contrada dei bergamini”. Così, al plurale, era chiaro a chi ci si riferisse. Poi la toponomastica modernizzante ha censurato quegli arcaici “dei”e ciò non aiuta gli ignari.
La via quindi è intitolata ad una categoria, ai bergamini, non a un sig. Bergamini (cognome peraltro piuttosto diffuso), una categria che per i cittadini era tanto famigliare quanto i cappellai o gli orefici.  A togliere ogni dubbio c’è il fatto che, sulla targa infatti non c’è nessuna di quelle “qualificazioni”, dal sapore burocratico
(sino ad esiti comici quali: “Spartaco: gladiatore”), che accompagnano l’intitolazione della via sulle bianche targhe marmoree.
Ecco come si presenta oggi (foto sotto) la via bergamini (in fondo si vede bene  la facciata dell’ex Ospedale grande, ora sede dell’università). Sino a qualche decennio fa sulla via si affacciavano ancora le botteghe dei furmagiatt. Anche a occhi chiusi qui – chissà in quanti milanesi se lo ricordano – si percepiva il (fragrante, ma anche penetrante) nesso con una “storia di cacio e stracchino”. Ma quanti degli studenti che frequentano la “statale”conoscono i bergamini? Da tempo medito di eseguire un sondaggio in proposito. Di piazzarmi sotto la targa e fermare gli studenti: “scusa, non sono un rompiballe, ma un prof, e vorrei fare un piccolo sondaggio sugli studenti che passano da questa via…”
La dedica della via – che ha dato luogo a ricostruzioni a volte
fantasiose – era legata, ovviamente, alla presenza dei bergamini al “mercato della Balla” (il mercato istituzionale dei latticini, che ebbe più sedi e si teneva ogni tre giorni). Per secoli la sede era nell’area di via Torino (esiste ancora la via Palla,) poi venne spostato alla Cà granda (via Festa del perdono). Nell’opera Milano e il suo territorio, curata da Cesare Cantù ed edita nel 1844 si legge:

Ab antico si chiama la balla il mercato dei burri e latticinii in città e dapprima stava tra Sant Alessandro e San Giorgio ove ne dura il nome, poi fu trasferito presso l’ ospedale grande sotto una tettoia nè bella nè comoda, Ma un mercato dei commestibili è un altro de pensieri che la città va maturando (1)

 

 L’imbocco di via Bergamini negli anni Venti

 

Bergamini venditori diretti

I “mercati contadini” non sono certo invenzione degli ultimi anni. Le autorità annonarie cittadine (quel Tribunale di provisione che ci è famigliare dai Promessi sposi) si preoccupavano molto di calmierare i prezzi, di far affluire le derrate (2).
In un “mercato regolato” (inconcepibile oggi ai tempi del liberismo ma che non funzionava poi così male) numerosi e dettagliati “capitoli”(articoli dei regolamenti) si preoccupavano di come far affluire le merci e di controllare i prezzi. Così i nostri bergamini li vediamo citati spesso nelle regole relative alla gestione del mercato cittadino dei prodotti alimentari. Nei capitoli realativi a Olij, Grassi, Sevi, Candele, & Mele del Sommario delli ordini pertinenti al tribunale di provisione della citta et ducato di Milano… (3).

Cap. IX. Alcuno Postaro, ò rivenditore di questa Città non ardischi comprare, ne incaparare alcuna quantità di butiro, o mascarpe da alcuno Bergamino, ne altra persona, ne qualsivoglia vettovaglia in questa Città innanzi la seconda nona, ne di fuori per miglia dodici, ma tal butiro, & vettovaglie, che si conducono dalli Bergamini & altri alla Città, quali le debbano vendere loro stessi publicamente nelli luoghi destinati, publici, & soliti, conforme però sempre alli ordini, & non le possino vendere ad alcuno venditore di questa Città, ma solamente quelli, che vorranno comprare per uso proprio, & non altramente (salvo doppo l’hora della seconda nona come sopra alli Postari), & tutto ciò sotto pena de scuti cinquanta d’oro, e di tratti tre di corda, overo d’essere posto alla berlina o catena all’arbitrio delli detti Signori […]

Nella categoria dei “bergamini” figuravano anche quei personaggi che, pur continuando una vita “nomade” spostandosi da una cascina all’altra, avevano abbandonato la transumanza e si erano concentrati sull’attività casearia. Si tratta dei latée. Essi non solo mantenevano ancora diverse vacche da latte ma, con il siero e il latticello residuo delle lavorazioni casearie, allevavano anche diversi maiali che, una volta ingrassati, erano esitati sul mercato cittadino. Gente con una particolare sensibilità e affinità con gli animali (in testa avevano … i bes-cti)

MediatoreGiancarlo Vitali. Il mediatore

C’è una graduazione senza soluzione di continuità tra chi allevava e transumava, chi allevava e caseificava e chi – infine – si specializzò nell’attività di “negoziante”, vuoi di prodotti caseari, vuoi di bestiame. Da questo punto di vista va infatti ricordato come il “negoziante” non era solo un commerciante. Il bergamino (e i latée) vendevano formaggio fresco, spesso freschissimo (non ancora salato). Era il negoziante che, in appositi magazzini semi-interrati (dislocati in precise aree della città, come vedremo poi), provvedeva alla lavorazione, stagionatura, conservazione degli stracchini (e del grana). Ultimo anello della catena erano i rivenditori, i postari, i bottegai (ma spesso questa attività era legata a quella di commercio e stagionatura e, comunque era gestita da diversi rami delle stesse grandi famiglie). Quando, con l’espansione della città, che divorava marcite e cascine, diminuì l’offerta di stalle e foraggio ma aumentarono le bocche da sfamare, non pochi piccoli bergamini (i grossi diventarono agricoltori o imprenditori caseari) divennero “lattai” (non più nel senso di “casari” ma in quello di esercenti botteghe di vendita al minuto di latte e latticini (quelli che chi è nato negli anni cinquanta-sessanta ricorda con nostalgia e che oggi sono oggetto di revival). Non pochi divennero anche cervelée.
La presenza e la geografia dei bergamini a Milano è quindi legata a una costellazione di figure ad essi legate per rapporti di parentela e di affari. Figure stabilmente presenti in città: “negozianti” di formaggi, mediatori, commercianti di fieno e di bestiame, rivenditori di generi alimentari.

Una geografia dentro le mura

La presenza dei bergamini nella città si raggrumava in quello spicchio urbano entro la cerchia dei Navigli che unisce piazza Fontana alla Cà Granda. Dal punto di vista temporale i bergamini diventano visibili (agli atti) nel XVI secolo. Nel XVII rappresentano una presenza molto “famigliare” tanto che non solo i capitoli del mercato della balla ma anche altre normative li citano senza bisogno di aggiungere altro. Natale Arioli, nipote di un berlaj (nel lodigiano i bergamini che praticavano la transumanza erano spesso chiamati così) ex docente ITAS Codogno e allevatore (oltre che studioso) ha rintracciato la presenza dei bergamini in molti documenti (notarili) del XVI-XVIII secolo. E’ sorprendente come gli atti ci riconsegnino la realtà viva di persone che testimoniano in tribunale o da un notaio a Milano ma potevano venire dalla remota val Tartano che è nelle Orobie ma sul versante abduano. Oggi parli con amici “montagnini” e per loro venire a Milano sembra un’avventura nella jungla (metropolitana) mezzo millennio fa i nostri antenati montanari a Milano erano a casa loro. Ci andavano e venivano. La transumanza (e le migrazioni stagionali qualificate in genere) allargavano gli orizzonti e i montagnini erano tutt’altro che spaesati in città. In Valsasina i comuni affidavano ai bergamini servizi di “tesoreria”. Visto che, tranne in estate quando alpeggiavano, si recavano a Milano spesso (per vendere i prodotti o “fare mercato” di animali, acquisto del fieno ecc.) nel XVIII secolo, a Cassina, il comune incaricava il bergamino Giovan Battista Combi dell’effettuazione di pagamenti si vide abbuonato di parte dell’affitto in cambio del versamento a Milano ,a nome del comune, del corrisponente importo ad estinzione di debiti e imposte dovuti dal comune stesso (4).

Dettaglio della mappa di Milano di Giovanni Brenna del 1860

I bergamini erano ben visibili con i loro tabarri al mercato di piazza Fontana che si teneva due volte la settimana. Già, piazza Fontana…

La frequentazione della piazza (e della banca che serviva come appoggio per le operazioni) da parte dei bergamini intabarrati non era ancora cessata nel 1969 quando, il 12 dicembre, una bomba devastò il salone della Banca nazionale dell’agricoltura causando la strage che inaugurò un triste periodo.  Camilla Cederna, in un pezzo giornalistico che fece scuola (4) li citò tra le figure di un mondo rurale che stava scomparendo ma che esisteva ancora.
Erano presenze caratteristiche quelle dei bergamini (che non potevano sfuggire ai milanesi, anche a una giornalista che si era occupata di frivolezze primadi passare al giornalismo politico) . Prima della guerra la loro “divisa” era ancora più interessante. “

In Piazza Fontana a Milano non è più dato vederli avvolti nei loro caratteristici mantelloni pelosi di lana verde […]” (5). Così  scriveva negli anni Settanta Luigi Formigoni (zio di Roberto). Il veterinario Formigoni, a partire dagli anni Venti ebbe parecchio a che fare con i bergamini della Valsassina, capendoli e ammirandoli (fatto raro tra i tecnoburocrati).  Fu, infatt, qualità di funzionario (responsabile della zootecnia) della Cattedra ambulante di agricoltura e poi di direttore dell’Ispettorato agrario provinciale . L’abbigliamento dei bergamini in piazza Fontana dalla descrizione di un informatore bergamino, raccolta di persona diversi anni fa (6).

Prima della guerra i bergamìn prima de tutt gh’éren i uregìn d’òor, bei uregìn. Vegnéven in  piazza [Piazza Fontana] cun la scussalìna magàri un scussaa, quéi scussaa che metéven sü a fa i strachìn, de téla gròssa e i ligàven chidedrée [girato sul fianco e di dietro ] cun la tracòlla. Vegnéven in piazza cul scussaa, magàri gh’e n’era de quèi che metéva  sü anca un para de zuculàss gh’e n’era de quej che vegnéven sü cun scussàa e bastùn perché el  bastùn el mülàven no; l’utanta per cént di  bergamìn vegnéven  in piazza cul bastùn e l’era pròpi un abitùdin

esterno-san-bernardino

 

Come tutte le categorie i furmagiatt avevano un patrono e un”sindacato”.  Si tratta del Pio Consorzio di S. Lucio Martire, che venne canonicamente eretto nel venerando santuario di San Bernardino alle Ossa. Il Consorzio, fondato nel 1835 commissionò al pittore Ignazio Manzoni nel 1845 un grande dipinto ad olio, da cui fu ricavata una splendida stampa della raccolta Bertarelli: una scena animata che ripropone il santo nella sua opera di carità verso i poveri. Il dipinto era collocato a destra dell’altare maggiore, nel corridoio che porta all’uscita di via Verziere ora non è esposto perché ammalorato e necessita di restauro. Una riproduzione del quadro (sotto) è visibile all’esterno del caseificio di Morterone (in Valsassina)

La chiesa di San Bernardino alle ossa rappresentò un punto di riferimento costante per i bergamini . Come testimoniato da questa ricevuta rilasciata al “divoto signor Giuseppe Arioli” per la celebrazione di messe di suffragio. Gli Arioli rappresentano una dinastia di bergamini originari di Piazzatorre e Mezzoldo in alta val Brembana che conta ancor oggi allevatori e imprenditori caseari nell’area del lodigiano e nell’abbiatense.

Nella nostra geografia dei bergamini vogliamo includere anche il palazzo Sormani-Andreani. E non solopèer ragioni simboliche. Esso fino al 1783 era palazzo Monti e i Monti, originari della Valsassina, diventandone feudatari nel 1647. Per la famiglia, osteggiata dai Manzoni e da altri potenti il feudo rappresentò un pessimo affare economico. Si consolarono con… gli stracchini dei bergamini. Uno dei pochi vantaggi conseguiti all’infeudazione fu il possesso del monte (alpeggio)di Artavaggio. Nel 1731 Il conte Cesare Monti (nipote del cardinal Monti) affittò  il monte a Giuseppe Bera di Moggio per 1330 £ più un appendizio di 20 libbre di stracchino (poco più di 15 kg)  da consegnare presso il suo palazzo milanese (7).  Il palazzo è l’attuale sede della biblioteca comunale centrale (“la Sormani”).
In via Francesco Sforza, dove speriamo di veder scorrere ancora le acque dei quella che era  “cerchia interna”, oltre alla Sormani e alla Cà Granda possiamo aggiungere un altro elemento della geografia dei bergamini-furmagiatt. Essi, in alcuni casi fecero strada, alcuni in modo strepitoso entrando a far parte della più ricca borghesia cittadina. Uno di questi fu Romeo Invernizzi. Gli Invernizzi erano bergamini originari di Morterone (località che si raggiunge oggi da Ballabio con una tortuosa strada di 16 km). Carlo Invernizzi, padre di Giovanni, il fodatore della ditta, era nato nel 1837. Svernava nell’area di Treviglio e di Vaprio. Nel 1870 si stabilì definitivamente in pianura, lavorando come laté, il latte raccolto in zona, a Settala, a Sud di Melzo. Nel 1908, fondò la ditta che portava il nome del padre bergamino e, nel 1914, aprì uno stabilimento a Melzo (a breve distanza da quello della Galbani, altra ditta con origini bergamine valsassinesi).
Nel 1925 alla guida della ditta subentrerà il giovane Romeo che impresse un deciso impulso all’azienda. Il padre mantenne però sino alla morte (1941) il compito di selezionare le cascine fornitrici di latte. Giovanni Invernizzi si occupava anche di “rastrellare” i fondi agricoli in un periodo in cui i proprietari, appartenenti all’aristocrazia lombarda, erano in difficoltà. Dall’acquisizione di diverse piccole cascine nacque la proprietà di Trenzanesio (oggi un po’ mortificata dalla bretella della brebemi) nello stile della tenuta all’inglese, con tanto di daini. A far schiattare d’invidia aristocratici e borghesi dai nobili blasoni industriali era anche la sontuosità della dimora cittadina degli Invernizzi, il palazzo-villa con fronte Corso Venezia(e giardini pensili)  e retro su via Cappuccini con il famoso parco dei fenicotteri rosa.
Nel 1928 la Invernizzi rilevò da Galbani uno stabilimento già avviato a Caravaggio che consentì alla ditta di lanciare prodotti con il marchio di famiglia e di proiettarsi in campo nazionale e internazionale fino alla cessione alla Kraft nel 1985. A Pozzolo nacquero Giovanni ma anche i nipoti Remo e Romeo che mantenne le redini della società sino al 1982 e che si è spento a Milano nel 2004 a 98 anni al termine di una vita che l’aveva visto esordire da bambino comelaté, raccogliendo il latte prima di andare a scuola, e poi concluderla da ricchissimo industriale. Ricchissimo ma attento a ricalcare la tradizione meneghina di sostegno alle istituzioni ospedaliere. Così di fronte alla vecchia Cà Granda che vedeva i bergamini intenti a vendere i loro stracchini, sull’opposta “sponda” del naviglio (ancora coperto dall’asfalto tombale) oggi grazie ai lasciti dell’ex-laté, nipote di un bergamino transumante, sorge il più moderno padiglione della Cà Granda.

Una geografia che esce dalle mura

Il comune di Milano, fu circoscritto entro le mura (“spagnole”) sino al 1873, quando vennero assorbiti i Corpi santi, che costituivano un comune a se. Il perimetro dei Corpi santi, che divenne quello del comune di Milano (salvo poi fagogitare in tempi successivi parecchi altri comuni come quelli di Lambrate e del Vigentino). I Corpi santi, istituiti nel 1781 , rappresentavano una “camera di compensazione” tra la città e la campagna vera e propria. Si praticava un’agricoltura intensiva con moltissime  cascine. Quelle della prima fascia, di un miglio o poco più erano piccole e la produzione di latte era indirizzata prevalentemente al consumo fresco. Mano a mano che ci si allontanava dalle mura cittadine le cascine dei Corpi santi (così verso il Vigentino e Charavalle) assumevano l’aspetto di quelle tipiche della “bassa” con grandi corti che potevano ospitare anche centinaia di vacche da latte di più bergamini. Nei Corpi santi erano dislocate attività quali osterie, mulini,  lavanderie in stretta relazione con i bisogni della città ma anche attività industriali (concerie, fonderie, fornaci).

Il Borgo di San Gottardo (per i milanesi el burgh di furmagiatt sino a non molti anni fa) deve la sua fortuna alla presenza dei Navigli e della Darsena ma anche delle strade regie che correvano ai lati delle alzaie e conducevano verso il Piemonte e Pavia. Un ruolo decisivo nel determinare lo sviluppo del Borgo lo svolse però la normativa fiscale. I corpi santi erano esenti da dazio, quindi era possibile il magazzinaggio di merce deperibile destinata alla città (dove entrava solo quanto necessario al consumo cittadino) ma anche ad altre destinazioni interne  Questa favorevole condizione si instaurò però solo dopo il 1828. Sino a quella data, al fine di rendere meno agevole l’ingresso a Milano di merci di contrabbando, era vietata qualsiasi attività di deposito anche nei corpi santi e i furmagiatt milanesi avevano grandi magazzini di stagionatura a Corsico.  A metà degli anni cinquanta del XIX secolo i depositi caseari del Burgh raggiunsero il numero notevole di 105(8).
El burgh di furmagiatt mantenne una grande importanza nel commercio caseario sino agli anni trenta quando la stagionatura del gorgonzola venne trasferita a Novara. Per un certo periodo, mentre la funzione di magazzinaggio ormai declinava, le ditte mantennero ancora le sedi commerciali nel borgo (9)

Corso San Gottardo – El burgh di furmagiatt 

A Milano le attività di stagionatura dei formaggi non rimasero esclusive del burgh di furmagiatt. Verso la fine dell’ottocento si affermarono attività di stagionatura anche nella zona a N-E della città. Le storie di bergamini originari della val taleggio ci consegnano notizie di stagionature tra Porta tenaglia (oggi Porta Volta) e Porta Venezia. non sappiamo se e in quale misura queste attività (sicuramente di rilievo molto inferiore a quelle di Porta Ticinese) si rifornissero attraverso il vicino porto del Tumbun de San March (10). 

Per una strana coincidenza le due testimonianze riguardano due originari della contrada Grasso di Taleggio: uno: Pietro Bellaviti, nato nel 1828, si trasferì a Milano nel 1850 avviando un’attività di stagionatura a Porta orientale (attuale Porta Venezia), di certo in connessione con i numerosi bergamini di origine taleggina della zona dell’Est milanese. il pronipote racconta come il bisnonno realizzasse nel 1880 due edifici in Via spallanzani dove prima esisteva l’osteria Tri basèi (11). Nella foto sopra via Spallanzani a Porta (già Borgo) di Porta Venezia

Giacomo Danelli, nato negli stessi anni di Pietro Bellaviti, nel racconto di una pronipote (che ne conserva una fotografia di fine XIX secolo, qui a fianco) esercitò per tutta la vita l’attività di bergamino svernando solitamente nei Corpi santi. Come tutti i bergamini frequentava il mercato di Piazza Fontana e vendeva gli stracchini che produceva ad un nipote “negoziante” (commerciante-stagionatore) che risiedeva in Via Paolo Sarpi (dove il processo di urbanizzazione si sviluppò negli anni ottanta)(12)

La “polveriera” tuttora esistente in Corso Buenos Aires (negozio Benetton) 

Restando a Porta Venezia merita un accenno anche l’attività dei commercianti di bestiame di origine bergamina (13). I commercianti, spesso parenti degli allevatori visitavano le stalle dei bergamini che svernavano nel Milanese durante tutto l’inverno, acquistavano i capi che disponibili e li mantenevano nei loro depositi fuori Porta Tosa (oggi porta Vittoria), Romana ed Orientale (oggi porta Venezia) dove era possibile acquistarli anche a gruppi di decine di capi.  Tra i grossi commercianti di bestiame figuravano dei valsassinesi. Lorenzo Buzzoni di Barzio, nato all’inizio del XIX secolo, operava fuori porta Venezia, l’epicentro dei commerci di bestiame, e divenne proprietario di un edificio,tuttora esistente in corso Buenos Aires all’angolo con la via San Gregorio. Il fratello, che continuò a produrre latticini in Valsassina, ebbe meno fortuna. Il palazzo, realizzato a fine Settecento come polveriera (si chiama ancora così), era divenuto osteria con alloggio e stallazzo (“parcheggio” per i cavalli). L’osteria era luogo di incontro dei commercianti di bestiame.

La via Conte Rosso a Lambrate

La zona a Est della città era particolarmente ricca di cascine. Essa si estendeva poi verso la Martesana che, grazie al Naviglio e al ruolo di crocevia della transumanza di Gorgonzola, divenne (con Melzo) l’area del decollo industriale caseario. Dopo Gorgonzola era Lambrate il centro caseario più attivo nell’Est milanese. Sappiamo che nell’indagine sui ‘caselli’ del 1840 per la provincia di Milano (14) venivano segnalate, come chiaramente distinte dai ‘casoni’ o ‘caselli’, un certo numero di ‘fabbriche del formaggio’. Di queste ben 13 si trovavano proprio a Gorgonzola, mentre la maggior parte delle altre erano localizzate nella zona immediatamente ad Est di Milano dove era possibile ricevere il latte dai numerosi bergamini che operavano nell’area. Così ne sono indicate quattro a Lambrate (oggi comune di Milano), tre a Limito, tre a Linate (oggi comune di Segrate, confinante con Milano). A Lambrate ditte casearie (produzione e /o commercio) di una certa rilevanza si segnalano ancora nel Novecento e sono in genere gestite da bergamini della val Taleggio. A Liscate è tutt’oggi attivo nella produzione di stracchini il caseificio Papetti (il cognome, originario della val Brembana,  è uno tra quelli importanti nella storia dei bergamini).

Tutta la fascia a Sud, Est e Ovest della città era area di densa presenza dei bergamini. Qui ci piace ricordare, per concludere, almeno uno dei vecchi comuni milanesi fagocitati dallo sviluppo (spesso brutto e disordinato) della metropoli: il Vigentino (nella foto il municipio nella via Ripamonti). Molto fitta era la presenza dei bergamini a sud della città perché qui scorrevano i canali scolmatori (l’antica Vettabia e il Redefossi) che veicolarono per secoli le acque luride di Milano fertilizzando le campagne e consentendo produzioni foraggere super (per quantità, non per qualità). I due fattori: vicinanza del mercato di Milano e acque di irrigazione “grasse”. Poi con il dilagare del cemento le acque subirono un pesante inquinamento chimico a causa dell’uso dei detersivi non degradabili e della proliferazione di scarichi dei reflui di lavorazioni industriali.    Ci sarà spazio anche per “nuovi bergamini” nel futuro di Milano? Intanto al Parco del Ticinello la Cascina Campazzo continua a produrre latte dopo aver scampato il destino della lottizzazione . Ci sono tante cascine fantasmi di sé stesse, tante superfici coltivate sommariamente (tanto per la Pac) che attenderebbero di essere “riconquistate” dai bergamini.

Note

(1) C.Cantù, a cura di, Milano e il suo territorio, Tomo II, Pirola, Milano, 1844, p.101(2) Le autorità intendevano evitata nelle città non solo fame ma anche malcontento (mentre la carestia nelle campagne era tollerabile perché meno pericolosa). Era infatti difficile reprimere le rivolte cittadine, i “tumulti”. Che potevano facilmente degenerare nella “presa del palazzo”. Le cose, come noto, cambiarono dopo l’esperienza del 1848 quando, a partire da Parigi, si iniziò un “risanamento urbano”. Esso, eliminando il reticolo di viuzze, aveva lo scopo non tanto dissimulato di consentire alle truppe (e ai cannoni, che anche a Milano furono usate dal sabaudo Bava Beccaris) di impedire l’erezione di barricate.

(3) Sommario delli ordini pertinenti al tribunale di provisione della citta et ducato di Milano.  Cominciato l’anno 1580, successivamente ampliato nel 1613. Et finalmente perfettionato nell’anno 1657 con aggionta delli Ordini seguiti al presente ec. Nella regia Ducal corte per Cesare Malatesta Stampatore ec., Milano, 1657

(4)   A. Dattero , La famiglia Manzoni e la Valsassina: politica, economia e società nello Stato di Milano durante l’Antico Regime, Franco Angeli, Milano, 1997, p. 55.

(5) C. Cederna, “Una bomba contro il popolo”, L’Espresso, 21 dicembre 1969.

(6)  L. Formigoni, La Valsassina e l’allevamento del bestiame bovino di razza Bruna Alpina, s.l., 1930. p. 7

(7) L’infomatore era Mario Magenes, nato nel 1922 e l’intervista la raccolsi nel novembre 2011 presso la sua abitazione di Cascina Pessina in località Novegro (Mi), comune di Segrate (al confine con Milano)

(8) A. Dattero, op. cit,  p. 56

(9) C. Besana “Note sulla produzione e il commercio dei prodotti lattiero-caseari”, in P. Battilani, G. Bigatti (a cura di), Oro bianco. Il settore lattiero caseario in Val Padana tra Ottocento e Novecento, Lodi, Giona, 2003, p. 130

(10) M. Corti,   La civiltà dei bergamini. Un’eredità misconosciuta. La tribù lombarda dei malghesi tra la montagna e la pianura dal quattordicesimo al ventesimo secolo, Centro studi valle Imagna, Sant’Omobono terme, 2014, p. 272

(11) M.Corti, “I navigli milanesi: vie d’acqua e di latte  (o, per meglio dire, di caci e stracchini)”, in Latte&Linguaggio, 3 (2017):145-164 (a cura di L.Ballerini e P.La Torre, Danilo Montanari editore, Ravenna)

(12) 10. A. Carminati (a cura di) Bergamini, vacche e stracchini. Ventiquattro racconti di malghesi, lattai e fittavoli dalla Valle Taleggio alle cascine di Gorgonzola e dintorni. Centro studi valle imagna, Sant’Omobono terme, 2015, p. 68

(13) Intervista eall’autore alla pronipote raccolta il 3 ottobre 2015 presso la sua abitazione in contrada Grasso di Taleggio.

(14) M. Corti, G.Camozzini, P. Buzzoni. Zootecnia e arte casearia. Tradizioni da leggenda in Valsassina, Bellavite, Missaglia, 2016, p.68-60

(15) Archivio di stato di Milano, Atti di governo, Commercio, p.m., b. 15

Il corno di San Glisente (XV sec.) è tornato a suonare

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Il corno di San Glisente (XV sec.) è tornato a suonare sulle vette della Val Camonica.
In occasione della tradizionale festa di San Glisente, il 26 luglio 2015, si è ripetuto l’antichissimo raduno dei valligiani di Valcamonica e Valtrompia alla chiesa di San Glisente, la cui cripta, scavata nella roccia, testimonia di un’architettura raffinata e sapiente, databile intorno ai primi secoli dell’anno Mille.

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Preciso è l’orientamento, tanto che al solstizio d’inverno una lama di luce penetra a illuminare la cripta e ad annunciare, lassù a 2000 m, il momento in cui inizia il cammino solare verso la primavera.

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La devozione al Santo dei pastori si perde nella notte dei tempi ed è ribadita da un grandioso dipinto del XV secolo nella chiesa di San Lorenzo sopra Berzo inferiore. I quattro personaggi sembrano tracciare la vita del santo, nelle leggende reputato  guerriero di Carlo Magno, dedito alla fine della sua esistenza alla evangelizzazione dei pastori, rifugiatosi nell’eremo del monte che sovrasta Berzo sulla sinistra orografica della Valle Camonica.

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Il dipinto mostra Glisente all’atto di deporre la spada, poi seduto a mungere una pecora e ancora orante davanti alla chiesetta a lui dedicata. Sullo sfondo, non meno statutario, un pastore con bastone e lungo corno in legno che, nella suggestiva interpretazione dello studioso Germano Melotti, rappresenterebbe l’altra versione della leggenda, quella che vuole il santo nato tra i pastori e poi assurto a vita eremitica.

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Proprio il corno in legno, identificato dal prof. Giovanni Mocchi come una delle più antiche testimonianze di corno pastorale in Europa e presentato un convegno internazionale svoltosi in primavera a Berzo inferiore, è tornato a suonare sui pascoli di San Glisente il 26 luglio 2015, nella ricostruzione fatta da Andrea Passoni, alphornista di fama internazionale.
Il medesimo strumento, databile 500 aC., è stato ritrovato in torbiere della Danimarca, e viene tutt’ora utilizzato dai contadini in Romania, a raccontare una storia e cultura che accomuna  2500 anni di vita pastorale in Europa.
Oltre a Berzo inferiore, questi corni vengono ricostruiti e utilizzati a Saviore dell’Adamello e a Valcanale, in Alta Val Seriana, dove le profonde valli e le vette rispondono a eco a questo affascinante suono finalmente ritrovato.


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Scienziati francesi si schierano con i pastori

Pubblicata il 13 ottobre 2014 sul quotidiano francese Liberation e sottoscritta anche da Carlin Petrini, fondatore di Slow Food

Arringa per degli ecosistemi non abbandonati dai pastori

I nostri paesaggi emblematici di montagne, colline e paludi sono costituiti di un mosaico di ambienti operato nel corso dei secoli dalle pratiche contadine. La vitalità di questi spazi, sempre più apprezzati dalle nostre società urbanizzate, si degrada velocemente quando non sono più mantenuti e curati per il pascolo delle greggi. Ora, in numerose regioni, le greggi subiscono l’assalto dei lupi. Cosa fare? La gravità della situazione richiede l’adozione di misure di emergenza, sul terreno come nel campo normativo. Giudicati in pericolo di estinzione in Europa, i lupi sono una specie rigorosamente protetta. Nel Grande Nord americano come eurasiano, sono considerati come ”  specie chiave di volta”  degli ecosistemi, bio-indicatrice di una natura tornata o rimasta selvaggia. In Francia, dove la geografia e la storia sono molto diverse, i lupi manifestano il loro comportamento opportunista. Secondo le opportunità, trascurano la loro funzione di “regolatore” degli animali selvaggi, indeboliti o malati, e si attaccano frequentemente alle greggi di allevamento in perfetta salute.

In modo paradossale, è l’allevamento pastorale, una delle nostre agricolture più rispettose della biodiversità, inoltre riconosciuta come produttrice di una varietà di servizi ecosistemici, che i lupi, adornati dello statuto di protezione rigorosa, stanno minacciando di far sparire.

Dal 1992, delle direttive europee si adoperano a promuovere la gestione degli ambienti agropastorali che hanno resistito alle banalizzazione e artificializzazione dei paesaggi per colpa dell’agricoltura convenzionale. Infatti, numerose specie notevoli vi hanno trovato rifugio:  coturnìce, pernice, stambecco, gipeto….

I mosaici di prati, lande e prati-boschi, tenuti dal pascolamento, offrono e rinnovano un’ampia gamma di bellezze a chi apprezza anche piante a fiori, insetti, rettili e batraciani. Questa biodiversità è anche domestica, con, tra altre, le pecoreraïoles, brigasques e mourerous, le capre del Rove e del Poitou, che gli allevatori si danno da fare per conservarle.

Nei parchi nazionali e regionali, nelle riserve e nella natura ordinaria, la preservazione delle biodiversità selvagge e domestiche è un unico e stesso combattimento. La sfida è diventata nazionale. Insediati dovunque nelle Alpi, i lupi hanno ormai raggiunto il Giura, i Vosgi, l’est dei Pirenei, arrivano nell’Ardèche, nella Lozère, nel Cantal e Aveyron, nelle pianure delle Regione Champagne e Lorraine.

Nel 2014, i conteggi ufficiali indicano ventisette branchi di lupi, i due terzi dei quali nelle Alpi del Sud. La popolazione è di 300 lupi adulti, in più di una ventina di dipartimenti francesi, con una crescita di 20% per anno.

Ogni anno, le perdite ufficiali ammontano a venti/venticinque pecore o capre uccise in media da un lupo adulto, ciò è considerevole. Gli attacchi si estendono poi ai vitelli, giovenche, e cavalli. Questi attacchi si svolgono sugli alpeggi, ma anche nelle lande e collinette delle valli, nel sottobosco, e fino sui prati.

Come si è arrivato a questo punto ? Si deve imputare questo flusso crescente delle perdite all’inerzia degli allevatori ? Questo sarebbe far loro una grave ingiuria.

Dal 1994, delle misure di protezione erano proposte agli allevatori e pastori. Questi li hanno attuate. Nelle Alpi, hanno acquistato più di duemila cani di protezione. I pastori si sono assoggettati, per quanto possibile, a riportare ogni sera i loro greggi in parchi elettrificati, degli aiuto-pastori hanno rinforzato le sorveglianze.

Queste misure si sono rivelate efficaci ? Ci fu una tregua tra 2006 e 2009. Ma dopo, da allora, nulla funziona più! Malgrado una protezione aumentata, le perdite si sono raddoppiate in quattro anni. Allevatori e pastori hanno adattato le loro pratiche, ma anche i lupi, cosicché  visibilmente essi sono sul punto da prevalere. Malgrado  i cani di protezione, i lupi ora attaccano di giorno e di notte. Invece in modo più preoccupante si constata che la presenza umana non li dissuade più. I lupi hanno percepito il loro privilegio di esser protetti tanto da ripetere i loro attacchi senza rischio, compreso vicino alle strade e abitazioni. Questo cambiamento di comportamento era prevedibile.

Negli Stati Uniti, è conosciuto da molto tempo, dentro e vicino ai parchi nazionali, dove i gestori lottano ogni giorno contro gli effetti perversi della protezione integrale delle specie. Incitare la grande fauna a conservare un comportamento selvaggio nei nostri paesi esigerebbe una regolazione di continuo allarme, molto violenta.

Una conclusione si impone: i dispositivi di protezione più elaborati sono stati svalutati in pochi anni. Diverse tecniche complementari sono proposte, razzi illuminanti, generatore di ultrasuoni, droni sonori. Queste tecniche impauriscono sicuramente più le greggi che i loro predatori. I lupi sono intelligenti ed inventivi. La strategia europea di coesistenza delle attività di allevamento con questo grande predatore protetto è fallita, deve essere rimessa in questione. Al di là dei costi finanziari, le sfide ecologiche ed umane si amplificano e rimangono indissociabili.

La Francia si è impegnata presso l’Unesco a preservare i paesaggi culturali dell’agropastorizia delle Causses e Cévennesiscritti al patrimonio mondiale dell’umanità. Nelle Cévennes, come dovunque altrove nell’esagono, il ripiegamento delle attività pastorale provocherà il divenire della boscaglia e la degradazione degli habitat e di una litania di altre specie protette.

Ovviamente, questa prospettiva non richiama allo statu quo: i paesaggi sono viventi, i loro protagonisti non hanno smesso di evolversi. Alcune associazioni che ieri raccomandavano la ” convivenza”, oggi richiedono il ripiegamento dell’allevamento pastorale.

Ma il nostro paese non è il Wyoming ne il Montana. Allevatori e pastori di Francia non meritano di essere squalificati, espropriati. Questi uomini e donne sono appassionati, ispirati dal rispetto del vivente, si sono impegnatati nei mestieri esigenti, modestamente rimunerativi.

Siamo ancora in tempo per ridisegnare un avvenire per queste campagne ? Di impedire l’esclusione e l’emarginazione di contadini che si danno da fare per fabbricare dei prodotti locali di qualità, pure facendo vivere dei paesaggi diversificati ed accoglienti ? Si può ancora incitare i lupi a rimanere ” selvaggi” « facendo  loro capire » di conservare la dovuta distanza dalle attività di allevamento?

Le nostre società hanno bisogno di ecosistemi e di paesaggi diversificati. Molti funzionano e si rinnovano grazie al meticoloso lavoro dei pastori ed allevatori. La situazione divenendo per loro insostenibile, è sul punto di perdere il valore straordinario di questo patrimonio di  ecosistemi e paesaggi a causa dei lupi. S’impone un nuovo ripensamento dell’intero concetto  visione regolazione. È purtroppo già molto tardi. Forse, però, non è ancora troppo tardi.

Firmatari :

Gilles Allaire  Economista (Inra)

Gérard Balent  Ecologo (Inra)

Olivier Barrière  Giurista (Istituto di ricerca per lo sviluppo, IRD)

Claude Béranger  Zootecnico (Inra)

Jean-Paul Billaud  Sociologo (CNRS)

Jean-Luc Bonniol  Antropologo (Università Aix-Marseille)

Anne-Marie Brisebarre  Antropologa (CNRS)

Bernard Denis  (Scuola veterinaria, Nantes)

Vinciane Despret  Filosofo (Università di Liege)

Christian Deverre  Sociologo (INRA)

Jean-Pierre Digard  Antropologo (CNRS)

Laurent Dobremez  Agronomo (Istituto nazionale di ricerca scientifica e tecnologica per l’ambiente e l’agricoltura, Irstea)

Jean-Claude Duclos  Etnologo

Laurent Garde  Ecologo (Centro studi e realizzazioni pastorali Alpi-Mediterraneo, Cerpam)

Alfred Grosser  Professore emerito Sciences-Po

Laurent Hazard  Agroecologo (Inra)

Bernard Hubert  Ecologo (Inra et EHESS)

Gilbert Jolivet  Veterinario (Inra)

Frédéric Joulian  Etologo ed antropologo (EHESS)

Étienne Landais  Zootecnico (ex-DG Montpellier SupAgro)

Guillaume Lebaudy  Etnologo (Università Aix-Marseille)

Bernadette Lizet  Etnologa (CNRS e Museo di Storia Naturale , MNHN)

Michel Meuret  Ecologo (Inra)

André Micoud  Sociologo (CNRS)

Danielle Musset  Etnologa (Università Aix-Marseille)

Pierre-Louis Osty  Agronomo (Inra)

Michel Petit  Economista (Istituto agronomico mediterraneo di Montpellier, IAM)

Carlo Petrini  Sociologo, Fondatore e Presidente di Slow Food International

Xavier de Planhol  Geografo (Università Paris-Sorbonne)

Sylvain Plantureux  Agronomo (Università di Lorena)

Jocelyne Porcher  Sociologo (Inra)

Daniel Travier  Etnologo, (Museo delle Valli delle Cevenne)

Pierre-Marie Tricaud  Agro paesaggista  (Federazione francese dei paesaggi, FFP)

Marc Vincent  Zootecnico (Inra).

[1] Bocage : un particolare tipo di paesaggio rurale che comprende piccoli boschi, siepi naturali e paludi frammiste a terreni coltivati di forma irregolare recintati, particolarmente presente nelle regioni nord-occidentali della Francia, come in Bretagna o in Normandia, e nel Regno Unito.