Il gelato al fieno (il gusto della transumanza)

Nato tra alta val Seriana e Crema

(06/06/2022) Alla Festa del Fieno e dei Prati stabili che si terrà a Gradella di Pandino (CR) dal 10 al 12 giugno i partecipanti potranno gustare il menù del fieno che comprende il gelato al fieno. Vediamo come nasce questo gelato particolare che, sinora, era preparato solo da qualche chef in ristoranti prestigiosi e ora approda a una Festa … che non poteva che essere la Festa del fieno.

Il fieno viene da Nasolino (800 m) (sopra il prato dal quale proviene il fieno e la chiesa), una località della Valzurio (comune di Oltressenda alta), piccola valle laterale dell’alta val Seriana (la testata della Valzurio è il “retro” della Presolana). Una di quelle valli che una certa retorica definisce “incontaminate” perché poco o nulla interessate dal boom dell’edilizia turistica. Il fieno di qui, dall’erba morbida e sottile e trapuntata di fiori (nella foto salvia e centaurea) sembra che profumi già guardando le foto.

Da Nasolino innumerevoli Baronchelli, Messa, Pedersoli hanno intrapreso, nei secoli, la transumanza verso le pianure, diffondendosi dal Lodigiano alla bassa bresciana, passando per il Cremasco. Si fa fatica a credere come da piccoli paesi e ancor più piccole contrade siano originate casate che sono si sparse per mezza pianura lombarda. Eppure è così. La transumanza con le mandrie bovine è durata 5-6 secoli e le famiglie che si fermavano definitivamente in pianura venivano sostituite da nuove che entravano nel ciclo. Così hanno popolato le basse e hanno costruito le realtà zootecniche e casearie (ricordiamo che anche a Crema vie era una grossa industria di latticini, la Angelo Arrigoni – famiglia della val Taleggio – che operò tra il 1922 e il 1954).

E proprio a Crema, città lungo il Serio, nasce il gelato del fieno. Unendo la passione di due personaggi: quella di Andrea Messa per la montagna e l’agricoltura e quella per il gelato da materie prime fresche e bio di Giovanni della Cremeria Unika di Crema. Messa da bambino ha fatto in tempo a fare a piedi la transumanza sino a Leno nella bassa bresciana e, da qualche anno, ha dato vita all’Associazione grani asta del Serio (che, tra l’altro, ha riscoperto il mais delle Fiorine di Clusone) e al progetto PanPrat (per rilanciare la pecora da latte nelle valli bergamasche). Andrea, inizialmente, era un po’ scettico riguardo al gelato al fieno, poi si è appassionato all’idea e l’ha attuata.

Oggi sale tanto fieno dal Cremasco verso le valli (prima scendevano le vacche a mangiarlo in inverno in pianura) ed è curiosa e bella la storia di qualche kg di fieno super selezionato, prodotto con cura amorevole, che fa il percorso inverso per diventare qualcosa di particolare: non essere consumato dalle mucche ma, sia pure nella sua essenza, dalle persone : dall’alta val Seriana al Cremasco. Si è aggiunto un tassello a questa storia di scambi ecologici e umani tra montagna e pianura fatta di latte, di acqua, di vacche, di fieno, di uomini intraprendenti e appassionati.

Qualche kg di fieno pulitissimo, profumatissimo, sceso lungo il Serio si è fermato a Crema per “fare il bagno” nel latte fresco bio locale (nella foto il primo lotto “sperimentale” di mezzo kg). Latte, si badi bene, prodotto con foraggi irrigati con l’acqua dell’Adda e del Serio. Un matrimonio tra montagna e pianura più che simbolico, che ricorda i legami creati dalla transumanza lungo il Serio.

In infusione

il fieno, lavato e sterilizzato è stato infuso nel latte cui ha donato i suoi aromi. E la storia è cominciata. Il primo risultato è stato strepitoso (prima lavorazione domenica 5 giugno).

Chi fosse interessato ad assaggiarlo, il gelato al fieno è già in vendita alla Cremeria Unika, e, nel week end, alla Festa del fieno Gradella di Pandino dove si troveranno anche tante altre cose buone da mangiare e interessanti e divertenti da vedere e da fare (specie i bambini).

E, restando sul tema del latte, come non ricordare che il Salva cremasco è uno stracchino della tradizione orobica trapiantato in pianura attraverso secoli di transumanza? Le nostre pianure sono un po’ montagna, come origini e cultura. Anche con un gelato si fa la storia dei nostri territori, della nostra gente.

Una grande festa, di pecore, pastori, comunità

A Spirano la prima Festa della pecora gigante bergamasca è festa dei pastori, del pastoralismo lombardo, della comunità di Spirano che celebra la prima festa dopo la pandemia (e l’utilizzo del Palaspirà come hub vaccinale). Mai così tanti gruppi di pecore bergamasche a una mostra e mai così tanti pastori convenuti dalla Lombardia e oltre per trovarsi. In questo contesto si parlerà anche di prospettive: di rilancio della razza nel libro genealogico, di valorizzazione della carne e della lana. E sarà presentata anche il progetto di legge regionale a sostegno del pastoralismo e della transumanza.

(09/05/2022) Un fatto importante, sotto il profilo sociale e culturale, che si celebri la pecora bergamasca. Non c’era mai stata una Festa dedicata alla pecora e al pastoralismo bergamasco. Eppure se la meritano. Si meritano che nel territorio bergamasco si tributi un omaggia a queste icone della bergamaschità. Icone anche della lombardità perché parliamo di una realtà che, con il ponte della Valcamonica, unisce Bergamo e Brescia e attraverso a una pratica di otto secoli di transumanze, Bergamo con le pianure lombarde, la Brianza, la Valtellina.

La pecora, il pastore transumante, il cane pastore costituiscono una componente non secondaria dell’identità del territorio bergamasco e hanno portato e portano l’immagine di Bergamo fuori dalla provincia. La pecora e il cane sono ufficialmente “bergamaschi”, il pastore bergamasco (bergamasco-camuno) è, però, anch’esso qualcosa di ben caratterizzato, di singolare se non di unico. E’ in realtà simile ad altri pastori transumanti dell’arco alpino ma il motivo è che ad essi ha fornito un modello. Basti pensare che sia la pecora che il gergo del pastore bergamasco-camuno (il gaì) sono diventati elementi del pastoralismo transumante delle altre regioni alpine. Sotto diversi nomi, pecore derivate dalla bergamasca sono diffuse in Piemonte (biellese), Tirolo (bergshaft), Svizzera (Saas-Fee). In Trentino, in Veneto, in Friuli, gradualmente, le razze locali sono state sostituite dalla bergamasca.

Per capire il carattere unico del pastoralismo bergamasco basti pensare a quanta considerazione ha avuto per secoli (sino ad oggi si può dire) il pastore bergamasco in Svizzera dove, per raggiungere gli alpeggi estivi, effettuava lunghe transumanze. Reputato un vero maestro di transumanza (dai quali alcuni svizzeri hanno imparato l’arte) e di tecniche di pascolamento sugli alti pascoli (dove i locali non osavano spingere le loro pecore meno robuste e dove non avrebbero sopportato le asprezze delle condizioni di vita). Nelle parole di uno scrittore svizzero i pastori bergamaschi erano: … di una razza audacissima ma onesta, di poche parole tranquilla; spesso assai bella. Vivono sui monti nella più grande semplicità e sobrietà; un pò di polenta con formaggio costituisce di solito il loro unico nutrimento, e i più giovani dormono di notte all’aria libera presso il loro gregge, talora cercando ricovero sotto le roccie. Facevano parte della tecnica del pastore bergamasco la caseificazione (con latte misto di pecore, capre e qualche vaccherella) che sortiva prodotti venduti al prezzo doppio di analoghi svizzeri, la tecnica di utilizzo dell’asino (con basti adatti al trasporto di agnelli, formaggi, attrezzature varie).

Gregge bergamasco all’alpeggio in Svizzera all’inizio del Novecento

Da qualche anno c’è un’attenzione inedita al mondo del pastoralismo e della transumanza. Un revival nostalgico o qualcosa di diverso? Intanto non si tratta di una moda passeggera. I primi sentori di questo interesse si colgono negli anni Novanta del secolo scorso e la tendenza continua.

Il Festival del pastoralismo di Bergamo rappresenta un appuntamento fisso dal 2014. Ogni anno ha divulgato aspetti e contenuti diversi, segno di una ricchezza non da poco del substrato pastoralista bergamasco. Dopo le tante piccole transumanze con un gregge ridotto lungo le mura e i colli di Bergamo e dopo due sfilate per le vie della città di Bergamo, dal 2020 è partita l’avventura delle transumanza “in scala reale”: la prima a Gorgonzola, la seconda a Lodi Vecchio, quest’anno partendo non più dalla città ma dalla montagna stessa (a Serina) per raggiungere Soncino.

Ora, con la Festa della pecora gigante bergamasca a Spirano è l’ora del salto di qualità anche per il ramo ovino del pastoralismo. Prima di iniziare il percorso di salita agli alpeggi in val di Scalve, un grosso gregge, che sino a oggi si trovava sul Serio, sfilerà Domenica 15 maggio (tra sei giorni) per le vie del paese, attraverso il centro storico dalle vie strette e tortuose come si addice a un centro di impianto medievale. Gregge locale (con “cascina base” a Spirano, San Rocco). Ma oltre alla “massiccia” transumanza per il paese (una piccola deviazione da un percorso di transumanza reale), ciò che rende importante e, possiamo ben dire “storica” la Festa sarà la Mostra regionale della pecora gigante bergamasca. Sono stati preparati ben trenta box (spaziosi) per accogliere gruppi di 6-10 capi (uno per categoria, tre maschi e tre femmine divisi per età). Un fatto notevole perché mai si sono messi insieme più di 10-15 gruppi alle varie manifestazioni a Rovato e Clusone (in anni recenti anche di meno). Ed è una cosa importante e bella questa inedita aggregazione di pecore e pastori.

Non per inseguire un’idea bucolica

Sottolinea che l’interesse che c’è in una parte (forse sottovalutata e non così piccola), di società attuale per la ruralità e il pastoralismo, non è un interesse per una sorta di idea bucolica ma per qualcosa di molto reale. I gruppi di ovini bergamaschi in mostra rappresentano la “punta dell’iceberg”, i capi più belli di 30.000 altri che stanno pascolando in Lombardia. Con il loro lavoro silenzioso, spesso contrastato (come è difficile muoversi nei parchi, come diventerà difficile confrontarsi con la presenza dei grandi predatori) queste pecore, questi pastori svolgono una manutenzione del territorio (pulizia di sottobosco, fasce tagliafuoco, contenimento di piante invasive), un’azione di prevenzione di calamità naturali a costi irrisori. Da confrontare con i costi dei canadair e delle opere ingegneristiche che devono rimediare ai danni di frane e alluvioni. Da confrontare con i costosi studi e progetti di “tutela dell’ambiente” che mobilitano stuoli di teste d’uovo e organizzazioni. Che questo mondo di pecore e pastori si metta in mostra, si incontri, incontri la gente, i rappresentanti delle istituzioni è molto bello. Segna un qualcosa di nuovo.

Festa dei bambini

Una festa molto importante e molto seria ma anche molto gioiosa. I primi a prepararsi a far festa sono i pastori ma di certo sarà la festa dei bambini, a contatto con le pecore e gli asini, impegnati in tante attività divertenti (creare una pecorella con la lana vera, trasformarsi in una pecora, giocare con la lana, il granoturco, giocare con i suoni). I bambini potranno partecipare alla partenza della transumanza da via San Rocco. Portandosi alle 10:00 in questa via vedranno i preparativi, gli agnellini collocati nei basti degli asini. Poi potranno seguire come piccoli pastorelli in percorso attraverso tutto Spirano. E chissà che qualcuno da grande non vorrà fare il pastore.

Festa di Spirano

Inaugurato nel 2018, il Palaspirà rappresenta una struttura molto funzionale per gli eventi della comunità dotata di una attrezzatissima cucina donata dal gruppo alpini. Peccato che dopo qualche collaudo … sia arrivato il Covid. Così la struttura è diventata centro vaccinale operando per molti mesi. Insieme alla gente di Spirano che si riappropria della sua struttura alla Festa della pecora ci sarà anche un gruppo dei medici che praticavano le vaccinazioni. Questi professionisti, pur nelle circostanze non piacevoli, hanno potuto apprezzare lo spirito di una comunità operosa ed efficiente e si sono affezionati ad essa. Tanto da tornare volentieri, in un’occasione finalmente festosa, al Palaspirà.

Da Fogarida a Montichiari: una storia di transumanze ancora da scrivere

La frazione Cuel a Folgarida, luogo di provenienza dei transumanti che si stanziarono nella bassa bresciana
La frazione Cuel a Fogarida

Le transumanze rappresentanto storie ancora in gran parte da scoprire e raccontare. Forse sinora si è solo sfiorata la profondità, la ricchezza, le implicazioni di un tema che aiuta a capire come pochi altri le storie di territori, comunità e famiglie. Per capire le transumanze alpine, insieme di fenomeni diversi che interessano  al tempo stesso tutte le alpi (le valli interne ed esterne, le basse e alte pianure, le fasce pedemontane), ma anche comunità e località molto specifiche, bisogna prescindere da confini provinciali e regionali. La transumanza ha rappresentato una rete incredibilmente complessa che teneva insieme tutte le Alpi (anche oltre lo spartiacque alpino) e persino le Alpi con l’Appennino settentrionale. Il tema delle transumanze è affascinante perché, da qualsiasi parte lo si approcci (epoca, ambito geografico), porta – inevitabilmente – ad aprire nuove piste di ricerca, a risalire a intrecci inaspettati, a… portare lontano travalicando confini di ogni tipo (come in premessa di un fenomeno che mette in relazioni territori diversi, molto lontani o distanti poche decine di chilometri, comunque diversi.  

di Michele Corti


(05/05/2022) Sabato scorso ho avuto una conferma di quanto siano intrecciate, affascinanti, capaci di portare alla comprensione di vicende di famiglie, comunità, territori, le storie di transumanza. Mi ero recato al Museo etnografico “Giacomo Bergomi” di Montichiari (un po’ pomposamente intitolato ai beni demologici del mondo agricolo alpino e padano). Il museo, parte del sistema museale del comune di Montichiari, rappresenta comunque qualcosa di diverso e di più importante dei tanti “musei della civiltà contadina”, nati, dalla buona volontà di appassionati mossi desiderio di sottrarre all’oblio frammenti materiali di un mondo scomparso. Nasce da un progetto di valorizzazione, secondo criteri rigorosi, del lascito (opere pittoriche e collezione etnografica) del pittore Giacomo Bergomi (1923-2003). Bergomi era nato al Barco di Orzinuovi da famiglia di bergamini transumanti della valle di Adrara che, come tanti altri, si erano fermati in pianura come agricoltori. In trent’anni aveva raccolto molto oggetti, provenienti dalle valli bresciane e dalla Bassa, legati alla vita rurale e al lavoro dei campi. Tali oggetti erano spesso utilizzati dal pittore per portare in modo realistico il mondo rurale nelle sue tele. Grazie alla superficie espositiva, inusuale per i musei etnografici lombardi, gli oggetti esposti, raggruppati per ambiti tematici, corredati da didascalie in italiano, inglese e bresciano, sono degnamente valorizzati. Il museo dispone poi anche di una sala conferenze e di un laboratorio didattico.


Il Museo Bergomi dispone, soprattutto, di una conservatrice, la dott.ssa Michela Capra, una studiosa che si è occupata di cultura rurale ma anche di cultura del ferro e ha recentemente pubblicato, frutto di un’ampia ricerca storica, un volume sull’antico Borgo Pile (“Vi sono due fiumi in questa parte di chiusure”) che apparteneva all’ex comune di San Bartolomeo, inglobato nel 1880 nel comune di Brescia. Il borgo ha rappresentato un polo paleoindustriale importante, crocevia di esponenti di attività manifatturiere e mercantili. Nella sua ricerca, Michela ha trovato molti personaggi di origine valligiana bergamasca, un fatto sul quale ci siamo confrontati. L’immigrazione a Brescia di bergamaschi era nota (anche se mai approfondita) ma è interessante, come sta facendo Michela – studiando gli estimi (documenti fiscali relativi ai cittadini proprietari) del Quattro e Cinquecento -, ricostruire una geografia dell’origine di questi bergamaschi. Un fatto possibile grazie alla incipiente cognominizzazione di quelle epoche che attribuiva agli immigrati (di prima o seconda generazione) il nome delle località di provenienza. Emerge un gran numero di personaggi di origine brembana e altoseriana. Inevitabile pensare all’intreccio tra transumanza e attività mercantili e artigianali attraverso il commercio del formaggio, dei prodotti lanieri, delle pelli, ma anche della ferrarezza (pascoli, miniere, forni fusori erano spesso degli stessi “originari”).  Il Bonvicini (Moretto da Brescia), che era originario di Ardesio, veniva da una famiglia di malghesi transumanti ma era solo uno dei tanti che provenivano dalle numerose contrade del grosso comune altoseriano.

La transumanza dei malghesi a Brescia (sino a pochi anni fa)

La transumanza attraversa i confini spaziali ma anche quelli temporali. Discutendo con Michela di antiche e nuove transumanze, la studiosa bresciana mi ha fatto sapere che avrei potuto intervistare il sig. Guerino Toninelli, che, per lunghi anni, ha condotto l’azienda agricola della Badia in comune di Brescia. I Toninelli non solo erano malghesi, originari di Dorga in comune di Castione della Presolana ma, diventando agricoltori, hanno ospitato nella loro cascina diverse famiglie di transumanti. Sino agli anni ’90.  L’intervista con il Toninelli  mi ha procurato molte informazioni interessanti sulle quali avrò modo di ritornare. Il fatto interessante, però, è che, nella stessa occasione ho potuto intervistare anche il sig. Mauro Cuelli che, da volontario, presta la sua opera al Museo Bergomi. L’intervista non era programmata ma non mi sono fatto sfuggire l’occasione. In realtà Michela Capra mi aveva anticipato una storia di transumanti, i Cuelli (anticamente Cùel) provenienti dalla trentina  che si erano insediati a Montichiari. Che dal trentino calassero nella bassa bresciana oltre a bergamaschi e valligiani bresciani anche i trentini è noto; la cosa interessante è che dall’indistino “Tirolo” (parliamo di storie ottocentesche quando la Lombardia era parte dell’Impero asburgico) è emersa una (prima?) località precisa: Folgaria. L’intevista con Mauro si è svolta in due tempi. Durante la pausa pranzo Mauro si è recato dallo zio Adolfo (classe 1937) che ricorda meglio, come è ovvio trattandosi di una generazione precedente, le storie di famiglia. Nel pomeriggio Mauro Cuelli ha così potuto riferirmi circostanze più precise e ne è emerso un quadro molto interessante. Per capire come mai da Folgarida i Cùel, ma anche altre famiglie – come vedremo dopo – sono arrivate a Montichiari e dintorni, è necessario parlare della brughiera, della Montichiari dei pastori.

Montichiari: una storia di pastori

Oggi Montichiari è nota per la fiera (che ospita anche il Museo Bergomi), per l’aereoporto e, purtroppo, per le discariche della “terra dei buchi” (prima le cave, poi i rifiuti, anche tossici ma mezza Italia).  Tutto è legato alla “brughiera” che, nel bene e nel male ha segnato la storia del territorio e che ha determinato un salto brusco: una realtà pastorale catapultata nelle dimensioni piùd dinamiche ma anche brutali della modernità.  Dall’antichità alla definitiva bonifica di un territorio arido e ghiaioso (ovvero nel Novecento), il territorio è stato connotato in senso pastorale, una distesa quasi sterile poteva essere messa a frutto grazie alle pecore che qui affluivano in gran numero da lontano e che rendevano alla comunità locale importanti cespiti (attraverso la produzione e il commercio della lana e di altri prodotti ovini).

Lo storico Gabriele Rosa scriveva (1880) che Montichiari, dopo Rovato, rappresentava il mercato principale per i bovini  quando il genere più trattato erano i buoi da lavoro (importati dal Sud Tirolo). Si era molto ridotto, invece, il mercato delle pecore con il restringimento della brughiera. Il centro pastorale delle pecore ne’ secoli passati era Montichiari, dove, nei tavolieri che la cingono, ora in parte dissodati, pascolavano quattro qualità di pecore, ora ridotte alle sole bergamasche. delle quali alla fiera di S. Pancrazio (11, 12 e 13 maggio) intorno l’antica Pieve, se ne  vendono tante, che, unite a quelle de’ mercati settimanali, danno il numero di cinque mila. Secondo Rosa il culto di S. Pancrazio (chiesa isolata sul colle) si era sovrapposto a quello di Pan, proprio dei pastori denotando l’antichità del centro pastorale monteclarense.

Ai tempi del Rosa, però: cessate le gentili, e anche le bastarde d’anno in anno scemando, la fiera di Montichiari non è più di lana ma di oggetti domestici. Il Rosa riferiva anche che, nel Cinquecento, le pecore che pascolavano nella brughiera di Montichiari ammontavano a 5000. In realtà questo numero è quello consentito da un privilegio ducale del 1657 finalizzato a impedire l’inondazione di pecore e capre ma al tempo stesso a impedire quei bandi proibizionisti che, all’epoca, erano stati emessi per il Cremonese. Così nelle campagne o campanee (brughiere) di Montichiari e di Rovato era consentito trattenersi e pascolare a  benefizio delle Comunità medesime a, rispettivamente cinque mila e quattro mila pecore.

Transumanze orizzontali

La natura arida dei terreni faceva sì che la pastorizia transumante rappresentasse il mezzo più idoneo a ricavare reddito per le comunità alimentando i mercati locali. Solo il pastoralismo (compreso quello dei malghesi) poteva, in secolo passati, trasformare in ricchezze gli svantaggi naturali della pianura. Oggi vediamo una pianura uniformemente coltivata. In passato non era così: vi erano fasce aride, fasce fertili, fasce dal terreno poverissimo, fasce umide, fasce paludose. La transumanza, nelle diverse stagioni, e sfruttando le diverse categorie di animali (ovino e bovino) riusciva a sfruttare in modo complementare non solo il differenziale pianura – montagna ma anche quello pianura secca – pianura umida. In entrambe l’agricoltura era difficile, il pastoralismo possibile. Queste considerazioni ci spiegano perché, con l’aiuto dei transumanti, gradualmente la pianura si è trasformata in un territorio uniformemente fertile (la famosa “natura artificiale” della pianura lombarda di Cattaneo). Ma vale la pena svolgere anche qualche considerazione sociale. I transumanti non scendevano in pianura spinti dalla fame (se non quella di erba delle loro bestie) ma dall’intraprendenza; non erano dei poveracci, dei marginali (anche se una minoranza che aveva poche pecore o capre e praticava una transumanza di sopravvivenza poteva esserlo) , erano dei competenti in materie (allevamento e caseificio) per le quali in pianura le competenze scarseggiavano. Avevano oltre a un capitale bestiame che sino a tempi non lontani (metà Novecento) era ragguardevole, anche risorse monetarie perché la loro attività implicava il commercio e la disponibilità di capitale monetario per far fronte a imprevisti (epizoozie, guerre).  Noi siamo abituati (ci ha abituato l’ideologia della modernita urbanocentrica e pianuracentrica) a considerare le montagne “naturalmente svantaggiate”. Niente di più falso. Se consideriamo la situazione della bassa bresciana è facile capire che era la montagna avvantaggiata. Quando gli scrittori e i governanti parlano di montagna povera, che non riesce a coprire che per pochi mesi il fabbisogno di cereali, lo fanno dal punto di vista dell’élite terriera. L’abbondanza di grani delle pianure era abbondanza di magazzini delle grandi aziende aristocratiche e il frutto di politiche annonarie che, per evitare sommosse in città, affamavano le campagne. Dal punto di vista del contadino della pianura la montagna era ricca: le comunità disponevano di beni collettivi (pascoli, boschi ma anche miniere e forni fusori), beni che le comunità di pianura si erano visti espropriati nel medioevo. In caso di carestia la montagna, con manifatture e traffici poteva far fronte alle difficoltà temporanee anche in forza delle tante esenzioni e privilegi strappati al potere centrale che facevano di parecchie terre delle “terre separate” sottratte al dominio della città. Ma non era solo in termini di accesso alel risorse alimentari che il contadino di pianura era svantaggiato. Godeva anche di istruzione e condizioni igienico-sanitarie pessime (infinitamente pegigori della montagna). A parte la modestia del reddito, legata allo sfruttamento (che costringeva ad abitare in spazi molto ridotti) vi era anche la malaria. Se la brughiera di Montichiari era un territorio desolatamente arido, ad essa facevano contrappunto territori bassi e argillosi dove l’acqua ristagnava. Si pensi alle numerose “lame”: di Leno, di Bagnolo Mella, di Poncarale, di Montirone, di Ghedi. Queste lame (zone paludose) erano aree malariche e, prima che le bonifiche furono completate la pellagra e la malaria rappresentavano piaghe.  Ceeto che se si guarda alle ville sontuose, alle rendite delle grandi famiglie, la pianura era ricca, ma quale squilibrio sociale nascondeva questa ricchezza?

Le pecore tesine (una lunga storia di transumanza dal Trentino)

Rosa precisa che i quattro tipi di pecore presenti a Montichiari prima dell’affermazione della bergamasca erano: le “nostrane”, a lana ruvida, le “tesine” di lana lunga, le “bastarde”, alte e robuste (simili quindi alla bergamasca), le “gentili”  a lana finissima tosate una volta sola che fornivano solo 1,5 kg di lana onde si tessevano panni che si mandavan sino in Fiandra; nè si mungeano. Tutte le altre si mungevano e con il latte si confezionavano formaggelle, e davano quattro kg di lana. le “gentili” erano, evidentemente, pecore stanziali. In analogia con il Veneto valgono, per la bassa bresciana, le considerazioni sulle differenze tra la padovana (a lana fine, stanziale) e le razze della transumanza (Lamon del Feltrino, Vicentina, dell’altopiano di Asiago). Tra le pecore transumanti quelle “tesine” erano evidentemente quelle provenienti dal Trentino, le “nostrane” dalle valli bresciane e bergamasche. Il termine “tesino” va ricondotto all’omonima conca del Trentino orientale ma è stato utilizzato anche per indicare i pastori dell’altopiano di Asiago e pastori di altre aree del Trentino. I “tesini” scendevano ogni anno a pascolare gli incolti lungo il Po, l’Oglio, il Mincio. Il periodo di svernamento dei greggi nel mantovano era stabilito da Federico Gonzaga, che rivide le norme precedenti nel 1478 dal 20 settembre al 5 aprile. Lucrezia Borgia, duchessa di Ferrara manteneva “a guardia” presso pastori transumanti proprie pecore “tesine” sulle vaste aree paludose del ferrarese. Nel mantovano Durante le stagioni d’autunno, inverno e primavera procendenti dalle montagne del Tirolo e Veronese vengono al pascolo e per svernarsi particolarmente nel comune di Marmirolo numerosi  mandre di vacche e di pecore, in queste stagioni si fabbricano tutti gli oggetti di latte, i quali per una piccola parte si consumano in luogo e nel circondario e per la maggior parte vengono venduti nelle città di Mantova e di Verona (Regione Lombardia, Agricoltura e condizioni di vita dei lavoratori agricoli lombardi: 1835-1839. Inchiesta di Karl Czoernig, 1986 p. 41.). Melchiorre Gioia riferiva che me dipartimento del Mincio dall’attuale Trentino provenivano per svernare nella zona a nord di Mantova 1300 vacche da latte, come le pecore, le vacche scendevano lungo l’Adige che consentiva il pascolo durante la  transumanza (Le vacche stanno sul Mincio e vanno sull’Adige come le pecore.  (M. Gioia, Statistica del dipartimento del Mincio, Milano, 1838, p. 152).

Da Napoleone alle discariche

I ritmi lenti della brughiera sono sconvolti, nel 1805, da Napoleone. I suoi generali ebbero l’intuizione di utilizzare quest’area “sterile” (ma in realtà utilizzata dalle pecore) per creare un grande campo militare, capace di ospitare migliaia di uomini per esercitazioni e parate.


Distrutto dagli austriaci, quanto rimaneva del campo militare fu inglobato nella Cascina Casermone (sulla quale torneremo) e, negli anni ’60 il terreno divenne una grande cava. Scavare la ghiaia nella ex brughiera rappresentava un affare perché ciò che rendeva sterile, dal punto di vista agricolo, la landa era il grande spessore del deposito glaciale ghiaioso portato si qui dal grande ghiacciaio del lago di Garda. Il business chiama il business e quando l’estrazione di ghiaia cessò restò disponibile un grande e profondo “buco” che poteva accogliere una montagna di rifiuti. In realtà, se non una montagna, è sorta una collina.

La discarica sorta sull’area del

Nel tempo tutta la brughiera è stata bonificata. C’è voluta una fatica particolare ma le  “armi” della bonifica (acqua, prato, concime organico) alla fine l’hanno avuta vinta. Va precisato che il restringimento graduale della brughiera era stato ottenuto, nei secoli passati, anche grazie alle pecore. E’ destino delle greggi, spesso, creare le condizioni per essere scacciate. Grazie alla loro presenza il processo di umificazione, di creazione di un sottile strato di terreno fertile capace di trattenere un po’ d’acqua (e di fornire nutrimento a corte erbe dal breve ciclo stagionale) aveva cambiato gradualmente l’aspetto della brughiera e creato le premesse per la bonifica (con l’rrigazione). Ancora agli inizi del Novecento, però, l’area intorno al’ex campo militare, e sino a Ghedi, presentava terreni che parevano refrattari alla bonifica e si ebbe una seconda irruzione di modernità, dopo quella delle truppe napoleoniche, con l’aviazione e le corse automobilistiche.


Con il 1909 (primo circuito aereo internazionale di Brescia) vennero realizzate piste di volo e hangar, primo embrione delle future strutture aereoportuali. L’aereoporto di Montichiari non nasce quindi dall’aereoporto militare (già attivo nella Prima guerra mondiale) ma ha origini civili. Nel 1921 si corse a Montichiari il primo Gran Premio automobilistico d’Italia su un circuito realizzato nella brughiera che comprendeva anche una curva parabolica. Monza, però, riuscì ad accaparrarsi la seconda edizione e le successive. sarebbe stato molto meglio avere il Gran Premio che le discariche.

Il circuito della brughiera di Montichiari

E con questo abbiamo concluso la digressione sulla storia della brughiera e torniamo ai pastori di origine trentina.

Da Folgarida a Montichiari: una traiettoria esemplare di transumanza

La storia di Valentino Cùel di Folgarida, mette in luce le tante correnti della transumanza e i loro intrecci. ce la racconta Mauro Cuelli, nato nel 1960 a Montichiari. Per ricostruire la storia di famiglia Mauro, durante l’intervallo di pranzo è andato dallo zio Adolfo (nato a Montichiari nel 1937) a chiedere dei particolari. Tornato al Museo Bergomi me li ha riferiti. Insiame al padre di Mauro, Giuseppe (nato a Montichiari nel 1931 e morto nel 2005), Adolfo era figlio di Silvio, a sua volta figlio di Giuseppe (nato nel 1854) che era uno de sette figli di Valentino Cùel (cognome italianizzato in Cuelli) e di Maddalena Scalmana (cognome valsabbino) di Bedizzole, comune sul fiume Chiese, come Montichiari. I figli di Valentino e Maddalena nascono tutti a distanza di tre anni l’uno dall’altro. Un particolare che nemmeno lo zio Adolfo è riuscito a sapere dai vecchi riguarda il tipo di transumanza praticata da Valentino Cùel prima di stabilrsi in pianura come agricoltore. Aveva pecore o vacche? Sappiamo che nel Mantovano svernavano con le vacche da latte non solo i veronesi della Lessinia (i “Cimbri”) ma anche i malghesi delle valli del Pasubio e i trentini. Quindi non è impossibile che Cùel fosse un malghese che si spostava lungo il Chiese (dove vi sono prati umidi). Quando acquistò l’azienda a Montichiari intraprese subito (così almeno riferisce Adolfo Cuelli) l’allevamento di vacche da latte. Avrebbe potuto farlo se fosse stato un pastore? O piuttosto lo era veramente e con la vendita del gregge e delle proprietà in montagna (che gli consentirono di raggranellare il gruzzolo) decise di dare una svolta alla storia famigliare?  D’altra parte il Cùel avava una “borsa” del denaro molto particolare, usata solo dai pastori e ricavata con lo scroto di ariete conciato. L’acquisto della proprietà a Montichiari rappresenta per la famiglia Cuelli un mito fondativo e i particolari si sono tramandati sino ad oggi. Mauro riferisce che lo zio mima ancora la scena dell’orgoglioso pastore/malghese di Folgarida. Dal momento che la parte venditrice non si fidava molto dello straniero chiese in che modo il Cuel volesse pagare. E, di rimando, rispose: come volete voi.

La frazione Cuel a Folgarida

Il venditore allora espresse la preferenza per le monete d’oro e il Cùel, estraendole dalla sua borsa, una ad una, picchiandole rumorosamente sul tavolo (con evidente soddisfazione). Scopo di Valentino, il capostipite, era quello di sistemare i figli. In realtà solo due si sposarono (vigeva una sorta di maso chiuso?) e proseguirono, indivisi, l’attività agricola sino al 1902. Quando Giuseppe Cuelli si divise dal fratello aveva già nove figli. Gli ultimi due nacquero ai Campagnoli, altra frazione di Montichiari dove la famiglia Cuelli risiede tutt’ora. I Cuelli erano ben consapevoli delle origini a Folgaria. Il nonno e il padre di Mauro si erano recati più volte a Folgaria (per fare un giro, per villeggiatura, dice Mauro) e, al cimitero, avevano potuto riscontrare come i Cuel fossero numerosi.  Nella località trentina, abitata da una comunità di origine bavarese (assimilata ai “cimbri” della Lessinia) che vi si insediò nel XIII secolo chiamata dal vescovo di Trento a ripopolare l’area, vi è una frazione Cùel o Cueli che viene fatta derivare da quelle (sorgente in tedesco).

Luoghi citati nell’articolo

I coloni bavaresi che si insediarono in Lessinia, altopiano di Asiago, valle del Fersina (valle dei Mocheni) erano al tempo stesso pastori, minatori, boscaioli e non sorprende che tutt’oggi da queste aree provengano pastori transumanti. Sia le comunità di lingua tedesca che quelle venetofone e lombardofone dell’area in esame (ma il discorso potrebbe estendersi a ovest e a est verso il Piemonte e il Friuli) che praticano la transumanza sono comunità specializzate. Non tutte le valli, non tutti i comuni, non tutte le frazioni sono sedi di comunità e “clan” di transumanti. Il che rafforza la considerazione che la transumanza non è un fatto di poveracci, una forma di emigrazione sotto fatti di spinta (push), costrizione. la storia famigliare dei Cuelli lo dimostra. Non solo il trisavolo picchia sul tavolo le monete d’oro ma i suoi discendenti negli anni acquistarono oltre alle proprietà già citate anche un’altra azienda, sempre a Montichiari, a Verziano. Il padre di Mauro, però, che aveva studiato perito agrario, all’età di 22 anni divenne direttore dell’azienda Cascina Casermone, dove sorgeva il campo militare napoleonico. Ai tempi in cui Giuseppe Cuelli dirigeva l’azienda 8e mauro era un ragazzo) era possibile vedere ancora su un arco una piastrella con la N di Napoleone, le cucine dell’acquartieramento militare erano divenute silos di foraggi. L’azienda era di proprietà della Federconsorzi e ne seguì le cattive sorti: venduta a un bergamasco, che diceva di voleva creare un allevamento di cavalli, fu tosto rivenduta con lauto guadagno per realizzare, su una parte della superficie aziendale, una cava. Poi la cava fu riempita come già sappiamo.
La storia dei Cuelli non è, però, una storia isolata. Mauro Cuelli cita come famiglie di origine pastorale e da Folgarida che praticano ancora la pastorizia a Montichiari e originarie di Folgarida quella degli Uber (frazione Novagli). Presenti nella zona di Montichiari ma anche altrove nel bresciano e mantovano sono i Rech (come da rapida indagine su registri anagrafici online). Sui registri anagrafici se ne trovano parecchi. Vi sono anche più matrimoni Cuelli – Rech, segno che – almeno per qualche generazione – i transumanti praticano ancora l’endogamia di gruppo anche dopo la stanzializzazione. E’ interessante notare cone i Rech siano fortemente presenti a Seren del Grappa, un polo forte del pastoralismo feltrino (insieme a Lamon) e anche a Mussolente (Vi) vicinissimo a Bassano del Grappa e a Segusino (Tv), sul Piave, in collocazione strategica rispetto allo sbocco in pianura. Altre famiglie citate dal Cuelli come originarie di Folgarida e presenti a Montichiari e dintorni sono i Cappelletti, cognome molto diffuso in Trentino ma comunque riconducibile a Folgarida. Ci sono molti spunti per approfondimenti. Non è difficile comunque concludere osservando che lo studio delle transumanze riserva sempre sorprese  specie riguardo agli intrecci tra le diverse correnti di transumanza. Pare evidente che senza un approccio sistematico (sia in termini temporali che geografici) ogni indagine con prospettiva localistica rischia di restare condannata all’anedottica.

Costituita la commissione pastori

(15/03/2022) In vista della Mostra regionale della pecora gigante bergamasca (Spirano, BG 14 maggio 2022), un evento che – per la prima volta dopo decenni vede radunata una significativa componente dell’allevamento ovino transumante, si è costituita la Commissione pastori (transumanti) all’interno dell’Associazione pastoralismo alpino di Bergamo.

La Commissione, la cui costituzione è stata ratificata dal Consiglio direttivo dell’Associazione, è composta dai seguenti pastori che rappresentano tutte le aree di svernamento invernale nella pianura lombarda, dalla valle del Ticino a quella del Mincio. Sono quasi tutti giovani sia pure “figli d’arte” (come si deduce dai cognomi storici.

Agostini Michele, Balduzzi Christian, Bossetti Giuseppe, Colotti Manuel, Cominelli Marco, Gussardi Roberto, Imberti Mirko, Savoldelli Daniele.

Portavoce della Commissione, che opera in modo collegiale, è Daniele Savoldelli.

La Commissione, insieme ad altri esponenti dell’Associazione, ha provveduto a costituire il Comitato Organizzativo della Mostra che sta provvedendo a tutti gli adempimenti previsti da un evento di questo tipo.

La Commissione è frutto dell’impegno assunto in sede di Festival del Pastoralismo 2021 quando è stato commemorato Tino Ziliani. I pastori presenti in quella sede hanno provveduto a contattare altri colleghi. e, in un incontro a Chieve (CR), il 7 dicembre 2021, si sono gettate le basi della Commissione. La Commissione non si occuperà solo di mostre ed eventi ma anche di interloquire con le varie istituzioni che hanno importanza per l’attività dei pastori, a partire dai Parchi. Nel fare questo si raccoglie l’eredità di Tino Ziliani. In assenza di una figura che faceva parte sì del mondo dei pastori, da cui proveniva ed entro il quale lavorava in qualità di capo tosatore, ma che era anche super partes (aveva solo un mini gregge quasi d'”affezione”, è risultato necessario che si attivasse un gruppo in grado di farsi portavoce degli interessi dell’insieme dei transumanti.

Tino Ziliani

Una legge regionale per il pastoralismo

Dalla Regione Lombardia un’iniziativa pro pastoralismo

(07/03/2022) Depositato presso il Consiglio regionale della lombardia il testo del progetto di legge Disposizioni regionali per la tutela e la valorizzazione del pastoralismo, dell’alpeggio, della transumanza e per la diffusione dei relativi valori culturali . Una serie di interventi mirati finalizzati a salvaguardare le “vie di transumanza” e i prati stabili, preziosi per rifornire di fieno le aziende di montagna che tengono viva la pratica dell’alpeggio. Sostegni a pastori e alpeggiatori per le attività di cura del territorio ma anche alle scuole (per tirocini, borse di studio) e alle le associazioni che promuovono il pastoralismo nella sua dimensione storico-culturale. Un raggio di luce in un contesto che tra burocrazia, vincoli imposti dalle “aree protette”, lupi non incoraggia certo la continuità di queste attività tradizionali. Un risultato che l’Unesco ha sicuramente favorito ma che è legato anche all’interesse suscitato intorno al pastoralismo, all’alpeggio, alla transumanza dai tanti eventi rievocativi, festivi, culturali organizzati in questi anni in Lombardia.



La transumanza a Lecco (ne abbiamo parlato qui). Il passaggio dei greggi dei pastori Galbusera sul ponte vecchio e in città è vissuto dalla popolazione come un rito festoso già da anni. Anche l’atteggiamento degli automobilisti che incontrano quotidianamente i greggi sulle strade è cambiato: da insofferenza e imprecazioni contro un’attività che “cosa aspetta a sparire” ad ammirazione compiaciuta di uno spettacolo che “per fortuna che c’è ancora”. Anche questo mutamento del sentire, non solo il riconoscimento Unesco e la moltiplicazioni di eventi organizzati in tema di pastoralismo e transumanza (tutti aspetti tra loro connessi) ha contribuito a far maturale le condizioni per la legge lombarda pro pastoralismo.

(7 marzo 2022) Non è vero che i riconoscimenti Unesco (quello della transumanza risale al dicembre 2019) non servano a nulla. Possono stimolare delle iniziative, a patto che ci siano dei processi in atto. In Veneto una legge a favore della transumanza è stata approvata nel 2020 (in cantiere prima dell’Unesco); in Basilicata, nel 2021, è stata approvata una legge pro pastorizia e allevamento estensivo. La scorsa settimana è stato depositato un progetto di legge pro pastoralismo, transumanza, alpeggio e prati stabili in Regione Lombardia. In tutte queste regioni sono presenti iniziative e gruppi che organizzano eventi e caldeggiano la causa del pastoralismo e della transumanza; va dato comunque merito ai legislatori regionali di aver saputo cogliere i segnali che vengono dalla società. La politica dovrebbe avere orecchie sensibili per accogliere anche gli input dal basso, quelli provenienti dagli interessi diffusi e “marginali” (dall’alto, dalle lobby ne arrivano già sin troppi).

Dalle leggi e alle barricate contro la transumanza a una nuova stagione?

Purtroppo dove non ci sono stimoli dal basso, dove non esiste una sensibilità nei loro confronti e conta solo la mentalità burocratica, succede quello che è successo in Emilia-Romagna. In questa regione, che ha voluto essere più realista del re e omaggiare le fobìe igieniste antipastorali, è stata promulgata nel 2004 una “legge contro la transumanza” che obbliga a eseguire con autotrasporto ogni spostamento di greggi.  (L.R. 9 febbraio 2004 n. 4. Art. 2, comma 3. Gli ovini e i caprini che vengono trasferiti per ragioni di pascolo o transumanza devono essere trasportati tramite automezzi e non possono essere trasferiti con altri mezzi, eccetto i casi autorizzati dal Sindaco su parere conforme del servizio veterinario dell’Azienda USL competente per territorio).

In realtà i divieti di transumanza, emessi attraverso ordinanze sindacali o regolamenti vari,  sono diffusi anche in Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli-V.G. (ci limitiamo a queste regioni non conosciamo la realtà fuori dal Nod Italia.

Sono numerosi i casi di divieto di transumanza. Pare che questo “patrimonio dell’umanità” non sia sempre molto gradito. Qui siamo in Trentino. In nome della pulizia, del decoro, dlel’igienismo che proiettano sul territorio degli habitus mentali nati nei salotti urbani, si bloccano vie di transumanza secolari (millenarie). Le aste dei fiumi, i solchi delle valli, dopo essere stati occupati da ferrovie, autostrade, intrastrutture di ogni tipo vengono definitivamente “sigillati” dalle piste ciclabili. In nome della sana attività fisica immersa nella natura, della mobilità sostenibile si blocca la transumanza, attività intrinsecamente sostenibile. Sono le contraddizioni di un “naturalismo” tutto urbano.

In Veneto, dove non pochi sindaci si erano incaponiti (con varie motivazioni pretestuose) a vietare il passaggio delle greggi transumanti (ne parlavamo qui nel 2013), la Regione aveva iniziato a progettare i “corridoi verdi”, ovvero una nuova versione delle antiche vie armentizie di origine romana o preromana. Questo lavoro, che ha visto l’impegno di un personaggio come Emilio Pastore, da decenni attivo nel promuovere il recupero delle razze ovine venete e nel diffondere la cultura pastoralista, è sfociato nella già accennata legge regionale veneta (L.R. 32 del 27 lugnlio 2020 – Norme in materia di recupero, gestione e valorizzazione del demanio armentizio, disciplina delle vie del pascolo e per la valorizzazione della transumanza, riconosciuta quale patrimonio culturale immateriale della umanità)(qui sul BUR Regione Veneto).

Una via armentizia di origine romana

La legge veneta si concentra sui sentieri della transumanza non solo per assicurarne la possibilità di percorrenza alla greggi, ma anche per valorizzarli quale patrimonio culturale. Questo ne presuppone la ricognizione e inventariazione ai fini della tutela. Riporto solo l’art. 4.

1.   I sentieri armentizi, in quanto riconosciuti quali beni di notevole interesse storico, archeologico, naturalistico e paesaggistico, nonché funzionali all’esercizio dell’attività armentizia, vengono conservati al demanio regionale e costituiscono un sistema organico denominato le Vie del Pascolo del Veneto. 2.   La gestione ed amministrazione dei beni individuati e qualificati come Vie del Pascolo del Veneto si conforma alla disciplina di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 recante “Codice dei beni culturali e del paesaggio”.L’aspetto interessante è l’indissolubilità riconosciuta dalla legge alle due funzioni: quella pastorale e quella patrimoniale (e turistica).  Assume un valore ben diverso un bene che è stato ripristinato nella sua funzione, che consente a chi intende conoscerlo e fruirne (per fini turistici escursionistici) di capire cosa sia e come “funzioni” la transumanza. Altrimenti si racconta una storia morta. Come in Emilia-Romagna dove la transumanza rimane solo come richiamo e non c’è più alcun sentiero calcato dalle pecore.

Prima di parlare del progetto di legge lombardo qualche parola anche sulla legge lucana (L.R. 30 novembre 2021, n. 54. Norme di disciplina, tutela e valorizzazione della pastorizia e della transumanza, presidi del territorio lucano). Se la legge veneta si concentra sulle vie di transumanza, quella lucana verte sulla definizione di pastorizia e allevamento estensivo quale “presidio del territorio”. Istituito il registro dei “pastori presidi del territorio” viene ad essi indirizzato un programma di assistenza zootecnico-veterinaria e vengono stabilite delle premialità nell’ambito del Piano di Sviluppo Rurale (lo strumento di finanziamento regionale all’agricoltura). Vengono altresì stabiliti criteri di priorità a favore dei pastori presidii del territorio nell’ambito delle procedure di concessione in uso e di fida pascolo ovvero di alienazione o assegnazione dei beni di proprietà regionale e dei relativi enti strumentali nonché dei terreni agricoli incolti, abbandonati o insufficientemente coltivati . Rispetto al valore culturale del pastoralismo (peccato che la Regione Basilicata sia rimasta ancorata alla definizione di “pastorizia” che evoca inevitabilmente qualcosa di marginale e arcaico e risulta circoscritto alla sola attività produttiva slegandola dalla sua dimensione culturale come se essa rappresentante qualcosa di separato che acquista un suo valore solo se su di essa si posa l’occhio legittimizzante dello studioso (di materie etnoantropologiche).  La Regione Basilicata, in ogni caso – al di là del limite di una legge che appere troppo scissa in due ordini di interventi slegati tra loro –  si impegna quindi in prima persona (sarà interessante capire se affidando a soggetti terzi e agli stessi “pastori presidi del territorio” qualche ruolo, a: a) diffondere la conoscenza ed il rispetto del patrimonio storico rurale, dell’ambiente, del paesaggio, della pastorizia e della transumanza; b) tutelare e valorizzare il patrimonio della pastorizia e della transumanza; c) adottare appositi programmi volti a preservare e valorizzare il patrimonio culturale di saperi, di tecniche e consuetudini legate alla pastorizia, all’allevamento estensivo e transumante ed alle produzioni agroalimentari che le comunità rurali hanno storicamente praticato.

Le Feste dell’alpeggio/transumanza si sono affermate a partire dagli anni ’90 del secolo scorso. Tra le più longeve Chiareggio (Valmalenco), Borno, Bagolino, Schilpario, Songavazzo (ma ce ne sono tante altre che non citiamo per il rischio di dimenticarne qualcuna).


Disposizioni regionali per la tutela e la valorizzazione del pastoralismo, dell’alpeggio, della transumanza e per la diffusione dei relativi valori culturali

Il progetto di legge lombardo (firmatari Malanchini, Fermi, Brianza, Borghetti, Violi, ovvero tutto l’ufficio di presidenza del Consiglio a sottolineare il carattere bipartisan dell’iniziativa) reca il titolo si differenzia dalle leggi approvate in Veneto e in Balsilicata pur presentando dei punti in comune.  Innanzitutto riconosce la valenza multidimensionale del pastoralismo come valore pubblico: riconosce l’interesse pubblico delle attività agro-zootecniche del pastoralismo, dell’alpeggio e della transumanza, quali presìdi del territorio, per il ruolo strategico nella salvaguardia dell’ambiente, del paesaggio […] nonché quali componenti della filiera della produzione agroalimentare tradizionale locale anche a marchio di qualità e per il loro valore culturale.

Le misure non vanno mai a sovrapporsi a quelle del Piano di Sviluppo Rurale. La legge prevede, però, misure specifiche di sostegno per l’attività di manutenzione territoriale e di recupero di terreni abbandonati: La Regione può riconoscere sostegni finanziari in favore dei pastori e dei conduttori d’alpeggio, singoli o associati, che eseguono direttamente opere di manutenzione del territorio in accordo con gli enti locali competenti. Possono essere beneficiari di misure di sostegno economico da parte della Regione anche gli enti locali che eseguono opere di manutenzione dei terreni abbandonati o incolti, al fine di destinarli alle attività disciplinate dalla presente legge.

Transumanza a Vezza d’Oglio (Valcamonica)

Un principio fondamentale sancito dalla legge riguarda il libero passaggio delle greggi e il pascolo lungo i percorsi di transumanza. Viene pertanto incoraggiata la transumanza a piedi e incoraggiati i movimenti del “vagantivo” da parte dei pastori che svernano in pianura. La Regione promuove, in collaborazione con i Comuni e con gli enti competenti in materia di sicurezza stradale e sanità pubblica veterinaria, nel rispetto delle competenze degli stessi, l’individuazione di percorsi di transumanza e monticazione, nei quali sia garantito il libero passaggio delle mandrie e delle greggi ed il pascolo, coinvolgendo i proprietari pubblici e privati, dei prati stabili e delle aree idonee al pascolo.

Banca dati dei prati stabili, loro tutela e valorizzazione. Apparentemente non strettamente pertinente con il pastoralismo, l’attenzione del progetto di legge i prati stabili si spiega con la loro importanza per la transumanza (in quanto il loro pascolamento rappresenta una risorsa indispensabile per i pastori ovini transumanti in inverno) e considerato che tutt’oggi la produzione del fieno di prato stabile di alcune zone (Pandinasco in particolare) è  tutt’oggi fondamentale per le aziende agropastorali delle valli. Queste ultime non potrebbero mantenere i loro sistemi d’alpeggio in estate senza l’apporto di fieno dalla pianura durante l’inverno.

Tra le altre iniziative previste dalla legge vi sono:

– L’istituzione della giornata regionale per la diffusione dei valori culturali relativi al pastoralismo, all’alpeggio e alla transumanza;

– l’istituzione della Consulta del pastoralismo;

-l’apertura di un bando annuale finalizzato all’erogazione di specifici fondi e benefici economici, a sostegno delle manifestazioni aventi carattere storico culturale in tema di pastoralismo, alpeggio, transumanza;

– l’apertura di bandi di concorso annuali rivolti alle scuole che producano studi o elaborati inerenti ai temi del pastoralismo, transumanza e alpeggio al fine di finanziare: a) borse di studio; b) tirocini formativi, c) viaggi di istruzione.



Come si vede, forse per via di uno spirito di sussidiarietà che in Lombardia è più radicato, la Regione prevede iniziative gestite da vari soggetti e non da essa stessa o dagli enti strumentali: imprenditori agricoli, enti locali, istituti scolastici, associazioni





La legge “pro-pastoralismo”, pur in un quadro limitato degli interventi, rappresenta un elemento di novità non da poco. Sancisce che vi sono delle attività inquadrate come agricole che hanno valore più per le esternalità positive che producono (paesaggio, cultura, valori sociali di identificazione, patrimoni culturali che mantengono vivi) che per il ridotto volume di Produzione vendibile (carne, formaggi). Sancisce che queste attività meritano un riconoscimento, non solo sotto il profilo delle attività economiche e ambientali ma anche per le loro valenze culturali.  Un riconoscimento che la cultura tecnoburocratica tende ancora a negare. Il Testo unico lombardo in materia di agricoltura riconosce L.R. 31 del 5 dicembre 2008 (Art. 24 ter) riconosce la funzione ambientale e socio-economica delle malghe che costituiscono un bene di interesse collettivo il cui corretto utilizzo concorre a garantire la conservazione della biodiversità, dei paesaggi e dell’assetto idrogeologico territoriale della montagna. E la cultura? Alla cultura dell’alpeggio non è stato sinora assegnato alcun valore in sé dai tecnoburocrati e la funzione “sociale” è stata vista, semmai, solo dal punto di vista del valore ricreativo (ovvero urbanocentrico) mentre è del tutto ignorata quella socio-culturale, ovvero simbolica, con valore di identificazione della comunità locale, di memoria storica, di fattore evocativo di coesione e solidarietà (per via di una lunga storia di gestioni collettive, cooperative, del patrimonio comune di pascoli e boschi).  Quando, però, si dimenticano questi aspetti fondamentali, la celebrazione dell’alpeggio e della transumanza diventano solo occasione turistica e il tutto scade nel folklore staccato dalla storia e dalla società locale. Allora il residuo valore culturale viene disperso perché il folklore non stimola orgoglio ma lo deprime. Quando un elemento non viene più riconosciuto più come patrimonio locale si rompe un legame, si svuota un o scrigno (“sono cose da turisti”).


Ma se la dimensione culturale insita nel pastoralismo non viene considerata e riconosciuta, se il valore culturale viene degradato a folklore, diventa poi difficile contrastare l’ambientalismo da salotto che tende sempre di più a far pesare i “superiori” valori conservazionistici, incompatibili con le attività tradizionali, con il “disturbo antropico”. Valori ormai egemoni in larga parte dell’amministrazione regionale (anche in quella agricola dove il moderno animal-ambientalismo si è innestato sul vecchio forestalismo ideologico). Le attività tradizionali (alpeggio, transumanza) se non sono riconosciute per il loro valore a 360° diventano ancor più dei vasi di coccio destinati a soccombere a fronte delle trionfanti visioni della “wilderness” del “ritorno dei grandi predatori”. Di grande importanza quindi l’affermazione che c’è un’attività, antica capace di rispondere ad esigenze attualissime, che rappresenta “l’altra faccia del pianeta”,  una forma di ambientalismo “altro”, che recupera i saperi ambientali del passato, che lasciando operare chi della montagna, dei fiumi, delle pianure ha grande esperienza (perché sono, da generazioni e tutti i giorni, il suo “posto di lavoro”), può ottenere, con mezzi modesti, spontanei, grandi risultati.

Un primo successo, intanto, è stato conseguito indicando il “pastoralismo” (realtà che comprende pratiche agricole e culturali in modo indissociabile) come oggetto della legge. Un risultato che ha implicato superare le resistenze che tendono ancora a considere il “pastoralismo” quale voce specialistica del linguaggio antropologico (denotante la sola dimensione culturale, per lo più ristratta al nomadismo).  Il linguaggio corrente come ha adottato “transumanza” (in origine una voce del linguaggio specialistico dei geografi) ha adottato anche “pastoralismo”. Transumanza e pastoralismo, nati come termini colti, si sono popolarizzati perché fanno riferimento all’avvenuto riscatto di attività considerate all’ultimo gradino della gerarchia sociale, divenute degne di attenzione della cultura “alta”. Oltre a mantenere il potere evocativo di spazi senza confine e di una vita dura ma libera.

Pulito l’oratorio campestre

(12/09/2021) Oggi grandi pulizie all’antica chiesa campestre del Corneanello a Rivolta d’Adda. L’oratorio, sulla antica strada per Casirate, esisteva già nel 1100 sul sito dove sorgeva anche un castello.

In vista della tappa della transumanza dei Bergamini a Rivolta (28/09/2021) che comprenderà la visita guidata in carrozza a questo oratorio, le donne che si prendono cura della chiesetta, i volontari dell’associazione pastoralismo alpino e della Pro loco di Rivolta si sono impegnati in un’opera di pulizia straordinaria dell’edificio sacro.

Le rotture delle reti anti-piccioni e la conseguente intrusione dei pennuti nella cella campanaria, avevano determinato un accumulo impressionante di guano che intasava le scalette di accesso alla cella campanaria stessa e dilagava sul coro e sul pavimento dell’aula dell’oratorio. Dopo un lavoro impegnativo la chiesetta è stata restituita a una condizione dignitosa.

Pandinasco: acqua, fieno, latte, bergamini

(09/08/2021) La Gera d’Adda/Pandinasco sarà attraversata a fine settembre dalla Transumanza dei bergamini, la rievocazione storica delle secolari transumanze tra le valli orobiche e la Bassa pianura lombarda. In quest’area il passaggio delle mandrie dei bergamini è ancora impresso nella memoria dei meno giovani.

I nostri allevamenti non potevano competere con le mandrie di bovini dei “malghesi” con spiccata attitudine alla produzione lattiera che in inverno venivano, dopo l’estate trascorsa in montagna, nelle nostre campagne dove c’erano foraggi in abbondanza anche in autunno. A. Bellandi, L’agricoltura cremasca tra passato e presente, in “Insula Fulcheria”, 37 (2008), pp.241-255.

Molte famiglie di allevatori di oggi discendenti di coloro che ancora mezzo secolo fa esercitavano la transumanza, sfilando con le loro mandrie nell’ammirazione delle persone del posto. Il nesso tra la transumanza dei bergamini e questa porzione del cremasco e del lodigiano (in sinistra Adda) appare quindi scontato e ancora ben presente nella memoria collettiva. Nonostante ciò può essere utile comprendere quanto profondo è questo nesso, quanto profonde le radici di questo fenomeno.

Il Pandinasco, insieme alla zona a Nord di Crema, è senza dubbio area vocata all’allevamento animale. Per certi versi proprio a causa del suo carattere agricolo “povero”. Quando la sussistenza era strettamente legata alla disponibilità cerealicola erano considerate ricche le terre da pane. Così queste terre che alternano ghiaie a terreni umidi (i “paduli” le zone paludose o comunque umide erano ancora ben presenti nell’Ottocento), erano considerate più povere di quelle poste a Sud-Est.

Mappa dello Stato Maggiore imperiale del 1833. Si osservano i “mosi”, ma anche la presenza di aree palutose lungo il fiume Torno nei pressi della stessa Pandino.

Tutta l’area a Nord di Crema era umida e venne adibita alla coltivazione del riso e del lino. Tra Trescore, Bagnolo e Vaiano si estendevano, ancora nell’Ottocento, i “mosi”, ultimo residuo delle vaste paludi del “lago” Gerundo. Nell’Ottocento erano ancora estesi i boschi (non solo lungo l’Adda ma anche tra Pandino e Spino). Terre povere dal punto di vista delle coltivazioni, quelle del Pandinasco erano però preziose per i transumanti. Sino al Trecento essi erano definiti “malghesi” (non perché proprietari di pascoli pa perché proprietari di “malghe”, consistenti gruppi di animali: pecore, capre, bovini). I malghesi mungevano anche le pecore, il cui prodotto principale era però la lana. Dal Quattrocento, per marcare la novità di un allevamento sempre più specializzato nel senso dell’allevamento bovino e della produzione casearia, di inizia a parlare di “bergamini”.

Nel medioevo i “malghesi” che scendevano dalle valli bergamasche (ma anche dalla Valcamonica), sfruttavano le aste del Brembo/Adda, Serio, Oglio per raggiungere il Po. Nei loro trasferimenti tra il Po (e le foci dei suoi affluenti) e gli alpeggi estivi, essi attraversavano le aree tra l’Adda e il Serio e tra il Serio e l’Oglio. Ai lati dei fiumi vi erano infatti ampie aree con terreni formati da alluvioni “recenti” (in senso geologico) dove la coltivazione era difficile e l’unico sfruttamento possibile era mediante il pascolo. Valerio Ferrari ha evidenziato, basandosi sull’attenzione dedicata dagli statuti cremaschi, l’importanza che rivestiva, nel tardo medioevo, la transumanza (ovvero la presenza e il transito di malgarii forenses, ovvero dei malghesi forestieri.

Malghesi medievali in una miniatura del Theatrum sanitatis di scuola lombarda (fine Trecento)

Gli statuti di Crema – di cui possediamo la redazione quattrocentesca, ma che possono essere ritenuti di formulazione trecentesca – d’altro canto testimoniano la diffusione dell’allevamento transumante, in quel distretto, in forma così rilevante da richiedere una specifica rubrica, intitolata De malagriis forensibus venientibus ad pasculandum, che ne regolamentasse lo svolgimento. Vi si stabiliva che i malgarii forenses venientes et ducentes aliquas bestias ad pasculandum super territorio Cremae, dopo cinque giorni, al massimo, di presenza sul territorio cremasco, non potessero condurre il bestiame a pascolare su terre gravate da consolidati diritti altrui (honor curtis vel pasculatus) se non dopo aver preso i necessari accordi con gli aventi titolo, sotto pena pecuniaria differenziata a seconda che si pascolassero bestiae grossae (per lo più bovini) ovvero bestiae minutae (pecore e capre).(V. Ferrari, Contributi toponomastici all’interpretazione del paesaggio della provincia di Cremona. 5. Il paesaggio pastorale, in “Pianura”, Scienze e storia dell’ambiente padano, 33 (2014), pp. 3-34 (p.11).

Alla fine del Quattrocento troviamo, nell’area di cui ci stiamo occupando, un riferimento ai bergamini è contenuto nell’istromento di divisione delle sorelle Angela e Ippolita Sforza Visconti (anno 1493) Miscellanea di storia italiana, Vol. 4 Di Regia Deputazione sovra gli Studi di Storia Patria per le Antiche Provincie e la Lombardia, pp. 443 ssg. Nella minuziosa descrizione delle pertinenze della corte di Prata (Prada, fraz. di Corte Palasio) viene citata una volta una “caxa [casa]da bergamino” e un “caxoto da bergamino”. Queste strutture si trovavano in aperta campagna, tra rogge e il corso del Torno. Una condizione intermedia tra quella dei malghesi medievali e quella dei bergamini moderni che si sistemavano all’interno delle cascine.

Sugli sviluppi del fenomeno della transumanza nel Pandinasco nei secoli successivi sarebbero necessarie delle indagini specifiche (negli archivi storici notarili e, dal settecento, in quelli parrocchiali). Un elemento molto interessante è fornito dall’opuscolo pubblicato dal naturalista lodigiano Agostino Bassi nel 1820 per celebrare le innovazioni agrozootecniche e casearie introdotte dal conte Giovanni Barni Corrado nella sua possessione di Roncadello (Dovera) (A. Bassi, Sulla fabbrica del formaggio all’uso lodigiano nel luogo di Roncadello in Gera d’Adda, G.B. Orcesi, Lodi, 1820). La dissertazione descrive le iniziative del conte Barni nella bonifica di terreni, evidentemente molto umidi, nella costruzione di stalle, importazione di capi bovini dal Friuli, avvio della produzione del grana che, ad onta dello scetticismo dei lodigiani, secondo lo studioso, riuscì benissimo. Era il primo grana prodotto nell’area. Dopo qualche decennio la situazione non doveva essersi evoluta di molto se, alla metà del secolo (1853) la produzione casearia dei distretti di Pandino e di Crema della provincia di Crema e Lodi vedeva il netto monopolio dei bergamini. Era di là da venire la trasformazione dei fittabili in allevatori e la piena integrazione tra le attività agricola e zootecnica. Questa si verificherà (in tempi che andrebbero precisati attraverso apposite indagini) solo allorquando i bergamini divennero fittabili.

Il distretto di Pandino nel contesto della Provincia di Crema e Lodi (1816-1859). In verde i prati stabili attuali (Fonte Servizio cartografico Regione Lombardia)

La differenza con una parte del Lodigiano non potrebbe essere più netta. Come si vede nelle seguenti tabelle e grafici, nella porzione meridionale del Vescovado di Lodi il bergamino era già sparito a metà Ottocento. In realtà non era sparito: come fittavolo, capo stalla, casaro, stagionatore di grana (vedi gli Stabilini a Codogno, con la più grande casera del Lodigiano) era ben presente, solo con ruoli diversi da quelli degli avi. Intermedia tra la Gera d’Adda e il (Nord) Cremasco, la situazione del distretto di Lodi, dove, non solo nei Chiosi intorno alla città, ma anche nella porzione più a Nord del Distretto, i bergamini erano numerosissimi e di Borghetto. Anche la situazione dei “lattai” (i latè della lingua parlata) è un indice importante di una traiettoria evolutiva: quando il bergamino, in quanto transumante, “scompare” dai radar (perché i fittavoli hanno accumulato abbastanza esperienza in ambito zootecnico o, più facilmente, perché i fittavoli sono essi stessi ex bergamini o perché diventa reperibile personale salariato competente: capi-stalla, casari), allora, per una fase storica che in qualche area è stata secolare, in altre aree più breve, appaiono numerosi i latè. Perché mai? Perché il rischio collegato alla lavorazione del grana è, ancora per tutto l’Ottocento, molto alto e gli imprenditori agricoli capitalisti preferiscono scaricarlo su altre figure sociali. Il fatto che nel Pandinasco e nel Nord Cremasco ancora a metà Ottocento i lattai siano pochissimi è indice di un’evoluzione tardiva (parallela allo sviluppo della praticoltura, che, specie nel Cremasco, si svilupperà con la fine delle risaie di palude).

Tabella 1 – Situazione dei caseifici (casoni) della provincia di Crema e Lodi (1853)

DistrettofittavolilatèbergaminiTotale
Lodi444886178
Pandino322025
Borghetto26222068
Sant’Angelo3238676
Crema522027
Codogno383142
Casalpusterlengo5116471
Totale1215711189
C. Cantù et al. 1859. Grande illustrazione del Lombardo-Veneto, ossia Storia delle città, dei borghi, comuni, castelli, ecc. sino ai tempi moderni, Vol. 5, Corona e Caimi, Milano, p. 50. (per Crema i dati sono ricavati da: Rapporto annuale della Camera di Commercio di Pavia per l’anno 1852, 1853.

Tabella 1 – Situazione dei caseifici (casoni) della provincia di Crema e Lodi (1853)

DistrettofittavolilatèbergaminiTotale
Lodi24,727,048,3100,0
Pandino12,08,080,0100,0
Borghetto38,232,429,4100,0
Sant’Angelo42,150,07,9100,0
Crema18,57,474,1100,0
Codogno90,57,12,4100,0
Casalpusterlengo71,822,55,6100,0
64,030,25,8100,0
C. Cantù et al. 1859. Grande illustrazione del Lombardo-Veneto, ossia Storia delle città, dei borghi, comuni, castelli, ecc. sino ai tempi moderni, Vol. 5, Corona e Caimi, Milano, p. 50. (per Crema i dati sono ricavati da: Rapporto annuale della Camera di Commercio di Pavia per l’anno 1852, 1853.

Tabella 3. I comuni della provincia di Lodi e Crema nel 1853

LodiArcagna, Bottedo, Cà de’ Zecchi, Campolungo, Casaletto, Cassino d’Alberi,  Casolate,  Cervignano, Chiosi di Porta d’Adda, Chiosi di Porta Cremonese, Chiosi di Porta Regale, Cologno,  Comazzo,  Cornegliano,  Dresano,  Galgagnano,  Gugnano, Isola Balba,  Lodi,  Lodivecchio,  Merlino,  Mignete,  Modignano,  Montanaso,  Mulazzano, Paullo, Pezzolo dei Codazzi, Pezzolo di Tavazzano, Quartiano, Salerano, Santa Maria in Prato, Sordio, San Zenone,  Tavazzano,  Tribiano,  Vigadore,  Villa Pompeana, Villa Rossa, Zelo Buonpersico
PandinoAbbadia di Cereto con San Cipriano, Agnadello, Boffalora, Corte del Palasio,  Crespiatica,  Dovera con Postino e Barbusera, Fracchia (oggi Spino),  Gardella, Nosadello, Pandino con Nosadello e Gardella,  Rivolta, Roncadello, Spino, Torno (oggi Crespiatica), Vailate con Cassine de’ Grassi
Distretto di BorghettoBorghetto, Cà de’ Bolli, Cavenago, Caviaga, Ceppeda, Grazzanello, Mairago, Motta Vigana, Ossago, San Colombano, San Martino in Strada, Sesto, Soltarico
Sant’AngeloBargano, Bonora, Cà dell’Acqua, Caselle, Castiraga da Reggio, Cazzimano, Fissiraga, Cascina Guazzina, Marudo, Massalengo, Mongiardino, Orgnaga, Sant’Angelo, Trivulzina, Valera Fratta, Vidardo, Villa Nuova
CodognoCaselle Landi, Castelnuovo Bocca d’Adda, Cavacurta, Codogno, Corno Giovine, Corno Vecchio, Corte Sant’Andrea, Fombio, Gattera, Guardamiglio, Lardera, Maccastorna, Maleo, Meletto, Mezzana, Mezzano Passone, Mirabello, Regina Fittarezza, San Fiorano, San Rocco al Porto, Santo Stefano, Senna, Somaglia, Trivulza
CasalpusterlengoBertonico, Brembio, Cà de’ Mazzi,  Camairago,  Cantonale,  Casalpusterlengo,  Castiglione,  Livraga,  Melegnanello, Orio, Ospedaletto, Pizzolano, Robecco, Secugnago, Terra Nuova,  Turano,  Vittadone,  Zorlesco

Con un salto di qualche decennio, arriviamo alla famosa Inchiesta agraria Jacini, dal nome del politico, imprenditore, possidente terriero Stefano Jacini, di Casalbuttano. Siamo alla fine degli anni ’70 dell’Ottocento quando l’economia agricola italiana è scossa da una crisi generale, frutto dell’apertura dei commerci internazionali alle derrate agricole (segnatamente cereali) di oltre Atlantico. E’ significativo che le descrizioni più accurate e diffuse dei bergamini nei volumi dell’inchiesta riguardanti la Lombardia siano quelle relative al Cremasco (comprensivo delle Gera d’Adda).

Questi malghesi, per lo più nativi delle vallate bergamasche, seriana e brembana, sono proprietari di mandrie bovine, in cui trovansi capi di ogni età, ma per lo più femmine. Essi provvedono al mantenimento delle loro mandrie con pascoli di loro proprietà o presi in affitto durante i mesi estivi, pascoli che si trovano appunto nelle valli sopra indicate. Per l’inverno invece, e precisamente dalla fine di settembre al principio di maggio, secondo una consuetudine, che ci sembra antica, scendono al piano, dove hanno preventivamente comperato il fieno che loro abbisogna in qualche cascinale. I patti tradizionali per tali contratti sarebbero: che il malghese deve pagare il fieno, misurato in fienile, al prezzo stabilito in rate fisse e minore del prezzo corrente di circa lire due il quintale, il foraggio lo deve consumare interamente in luogo; a lui compete il pascolo delle erbe dette quartirole, di cotica vecchia. Il proprietario dal canto suo deve fornire stalla, stramaglia per il letto degli animali, casa per la famiglia del malghese, locali per la lavorazione del latte, porcili, talora anche una determinata quantità di legna e di granoturco in natura. (Atti della Giunta per la Inchiesta agraria Vol. VI tomo II, fasc. III. Roma, 1883, Il Circondario di Crema, Commissione presieduta dall’. On. Comm. P. Donati).

La relazione ci informa anche sulla concentrazione territoriale dei bergamini, sulla consistenza delle loro madrie, sulle loro produzioni casearie. Osserviamo che il bergamino, negli atti ufficiali, è sempre chiamato “malghese”, un po’ perché il termine “bergamino” era ritenuto “volgare”, un po’ perché in alcune zone, come osservato già ma proposito della bassa Lodigiana, i bergamini, diventando casari salatiati, capi-stalla, mungitori, erano ancora indicati come “bergamini”.

I malghesi si trovano più numerosi nella zona di Ghiaia d’Adda, e in quella a settentrione della città di Crema, meno in quella a sud, e quasi punto in quella cremonese (…) Nelle due prime zone si può calcolare un malghese per ogni comune; il numero medio dei capi bovini, che compongono le mandrie di questi ultimi varia solitamente dai 15 ai 40 capi (…) [E’] caratteristica nel Cremasco la produzione delle varie qualità di stracchini. Alla produzione di questi ultimi attendono i malghesi, i piccoli lattai, ecc. tutti quelli insomma (e sono i più) che cercano di trarre un guadagno qualunque da piccole partite di latte (…) malghesi che, come si avvertiva, attendono ordinariamente alla fabbricazione di stracchini, li conducono per venderli sovente sul mercato di Bergamo(Ivi).

La relazione sul Circondario di Crema dell’Inchiesta Jacini fornisce anche altre notizie interessanti: apprendiamo che il grana (inviato a deposito nelle casare di Lodi) era prodotto (come logico) solo da chi aveva più di 40 vacche (qualche fittavolo e qualche bergamino), mentre il grosso dei bergamini era dedito alla produzione di stracchini. Erano tre i tipi di stracchino: il quartirolo (più simile al salva cremasco attuale che al taleggio, con forme di ben 4-8 kg e scalzo alto 8-10 cm). Era il tipo di formaggio destinato al consumo locale e ne veniva esportato poco. Lo stracchino di Gorgonzola era più pregiato (forme sino a 15 kg, stagionate sino a sei mesi). Era venduto sui mercati di Lodi, Casalpusterlengo, Treviglio e da questi affluiva alle stagionature di Gorgonzola. Infine la crescenza, prodotta con latte grasso e molto caglio nel periodo autunno-invernale (ricca di acqua è poco conservabile) era destinata al mercato di Milano.

Nei decenni successivi, specie dopo l’inizio del Novecento, l’area del Pandinasco si affermerà come quella di maggiore densità di capi bovini allevati. A fare da traino a questo sviluppo, la grande vocazione alla foraggicoltura (con i fontanili e l’abbondanza di rogge), la presenza in zona di un tessuto di medie aziende agricole che, sotto la spinta dei bergamini che dopo la prima guerra mondiale accentuarono la loro “fissazione” alla bassa quali fittavoli, si orientò ad un indirizzo zootecnico specializzato (mentre i grossi fittavoli del milanese, pavese e lodigiano, sotto la spinta della “battaglia del grano”, tornarono a privilegiare i cereali). Va però aggiunto un altro fattore, indirettamente legato ai bergamini: la nascita dell’industria casearia che, dopo gli anni ’20, indusse i bergamini prima a conferire i loro stracchini ai depositi delle grandi aziende, poi a vendere il latte.

Densità dell’allevamento bovino in Lombardia al Censimento dell’agricoltura del 1930
L’ex stabilimento Invernizzi a Caravaggio

Negli anni ’20 la Galbani (dal 1926 guidata da una delle tante famiglie Invernizzi del mondo del latte), la Invernizzi, la Mauri, realizzarono o acquisirono nuovi stabilimenti nell’area di Melzo, Treviglio, Caravaggio. Non esistevano ancora le cisterne refrigerate e il raggio di raccolta era di una ventina di chilometri. La Martesana e la Gera d’Adda, terre di bergamini divennero ancora di più terre di latte.

La vecchia sede della Scuola Casearia di Pandino

Negli anni ’50, a sancire il ruolo di Pandino quale cuore di un comprensorio foraggero-caseario, venne fondata la Scuola Casearia che continua tutt’oggi a sfornare tecnici di caseificio molto richiesti anche da grandi aziende.

Cosa rimane di tutto ciò in un’epoca in cui il latte arriva a prezzo vile dalla Lituania e il mercato mondiale del latte risente di quello che succede in Australia o altrove? Non poco, anzi tanto. A partire da una risorsa che altrove è scomparsa: il prato stabile, fattore chiave di una zootecnia che rivaluta il legame con il territorio, sia sotto la spinta della globalizzazione (che impone la differenziazione e la valorizzazione massima delle risorse specifiche locali) che degli imperativi ecologici. E poi c’è la storia dei bergamini che significa una cultura, dei valori, uno stile produttivo che hanno ancora molto da dire.

I prati stabili nella pianura lombarda (fonte: Regione Lombardia)

Bergamini e Brescia


   

(28/11/2020) In vista del 2023 (Bergamo-Brescia “capitale della cultura”), un positivo segnale nella direzione del riconoscimento di un capitolo di storia sociale che accomuna le due provincie




La “transumanza” a Bagolino. Dalla Valsassina  alla val Sabbia, ferro e formaggio contraddistinguono un comprensorio caratterizzato da grandi competenze nella metallurgia, nel caseificio e nell’allevamento. Il comprensorio dal quale, per secoli, si sono dirette, verso le pianure lombarde, emiliane, venete, piemontesi, le correnti di transumanza dei bergamini lecchesi (storicamente milanesi), bergamaschi e bresciani.
(28/11/2020) Sul Giornale di Brescia, due settimane fa, è apparso un bell’articolo di Claudio Baroni nella pagina della cultura (segnalatomi da Stefano Manzoni di Fara Gera d’Adda, originario di Morterone, paese di bergamini). Un frutto del riconoscimento, da parte dell’Unesco, della transuanza quale “patrimonio immateriale dell’umanità”. Esso ha spinto a “guardare in casa” alle transumanze, sia a quelle storiche che a quelle attuali, che hanno caratterizzato e caratterizzano i nostri territori lombardi.



Parlando di una famiglia originaria di Castione della Presolana (Bg), i Tomasoni, che praticava la transumanza con le proprie vacche da latte verso la bassa bresciana, l’articolista si riferisce a loro come “bergamini” e chiarisce con precisione le modalità essenziali della transumanza. Citando il libro che Piergiuseppe Tomasoni, emigrato in Germania, ha voluto scrivere per omaggiare l’epopea dei suoi avi, ma anche di tutti i “bergamini”, l’articolo ricorda come, tra le due guerre, i “bergamini” avessero preso in affitto, o acquistato, fondi agricoli nella bassa bresciana. Tra i cognomi citati: Tomasoni, Toninelli, Chiodi, Armanni, Ferrari, Migliorati, Cozzi. Ma ce ne sono tantissimi altri.
Ottorino Milesi1, non dimenticato direttore dell’Ispettorato agrario di Brescia, sulle colonne dello stesso GdB, scriveva nel 1974 a proposito dei “mandriani”  :
Parlano con orgoglio delle loro origini di montanari bergamaschi ed assicurano che sui registri degli statuti del loro paese risultano dati certi di diritto al pascolativo risalenti al medioevo. Come loro vivono ancora un centinaio di famiglie di mandriani nomadi (i Bertocchi, i Boldini, gli Olini, i Tanghetti, i Poli, i Campana, i Belotti, ecc.2

È interessante osservare come nell’elenco di Milesi non figuri alcuna famiglia bergamina citata da Tomasoni, segno della loro numerosità. Nonni materni di Piergiuseppe Tomasoni erano, per esempio, i Vitali di Pizzino (val Taleggio). Piergiuseppe, oltre a ricostruire la genealogia dei Tomasoni, è risalito anche agli avi Vitali scrivendo un altro libro in due vol. (“gli antenati”, “i discendenti”, con riferimento ai nonni materni). Il libro mi è stato segnalato da Massimo Vitali di Gorgonzola, figlio di bergamini di Pizzino fissatisi come agricoltori a Gorgonzola e discendente anch’egli dei nonni di Tomasoni). 






Agostino Antonio Vitali era nato a Soncino mentre la moglie a Orzinuovi (classico polo di attrazione dei bergamini per la grande estensione di coltivazioni foraggere frutto delle secolari bonifiche della “campanea”). Il Vitali morì a Castel Mella. Attraverso queste vicende famigliari si segue la traiettoria dei bergamini che, da transumanti diventavano fittavoli e da fittavoli – sempre in forza delle loro capacità imprenditoriali – proprietari dei fondi (continuando a condurli e ad allevare bestiame che, fino a dopo la seconda guerra mondiale, almeno quello asciutto, continuavano a portare in estate in montagna).



Le parentele bergamine costituiscono una rete che lega tra loro le valli e le pianure, al di là dei confini provinciali (un tempo di stato). Basti dire che ai Vitali di Pizzino sono collegate famiglie dell’alta val Seriana (Messa) e di chissà quante altre valli. Lo “scambio matrimoniale” avveniva in pianura ma, dal momento che le famiglie potevano frequentare ora il milanese, ora il cremonese, ora il bresciano,la rete era estesissima.



Un aspetto significativo del nuovo interesse per i “bergamini” (l’interesse di Tomasoni per la genealogia accomuna anche altri discendenti di questa “tribù”)  è il riconoscimento del loro rappresentare un elemento importante che accomuna Bergamo e Brescia. Molti agricoltori e allevatori della bassa bresciana (poi magari divenuti anche titolari di caseifici e salumifici), hanno origini bergamasche in quanto discendenti di bergamini. L’acquisto di fondi da parte loro è proseguito anche dopo la guerra.  Giuseppe Gallucci, zootecnico dell’Ispettorato agrario di Brescia, nei suoi ricordi degli anni ’60, ricorda che:… erano molti gli allevatori delle valli bergamasche che venivano a svernare nella pianura con tutta la famiglia. Gli stessi frequentavano poi i mercati di Rovato e di Montichiari dove portavano i loro prodotti caseari. Risparmiando al massimo, molti poi hanno comprato le aziende dove le loro bovine mangiavano il fieno durante l’inverno3 .

La sottolineatura della capacità di risparmio dei bergamini è un fatto comune a molti degli autori che si sono occupati di loro. Dal momento, però, che non bastava, neppure in passato, privarsi di un pezzettino di carne per acquistare un’azienda agricola, che non bastava l’avarizia e la tesaurizzazione… ma bisognava anche guadagnare, dietro quel rinfacciare ai bergamini il “risparmio feroce”c’era l’invidia sociale (di chi stava in alto ma anche in basso nella scala sociale) per le loro capacità tecniche e organizzative che consentiva ai bergamini quando non “mandati a gambe per aria” per via del tagliù (l’afta epizootica) di  diventare fittavoli e poi proprietari. Persino i salariari disprezzavano i bergamini, quei salariari che, se avevano in tasca qualche soldo se lo bevevano all’osteria o sfoggiando il vestito “della festa” di foggia cittadina. Il bergamino non aveva complessi di inferiorità nei confronti della cultura cittadina, la sua era un’identità forte, si vestiva da montanaro anche quando faceva mercato in piazza a Brescia o a Milano, non aveva bisogno di cammuffarsi da cittadino.
Il risentimento, l’invidia nei confronti dei bergamini (che, almeno in pianura, sapevano bene celare la loro ricchezza) emerge bene, siamo nei primi anni del Novecento, nelle parole di un grosso esponente della proprietà fondiaria milanese, il senatore Ettore Conti che polemizzando con i fittavoli “liberisti” (lui era un conservatore filantropo) rinfaccia loro l’origine bergamina:
Chi sono e che cosa sono poi questi fittabili? Salvo le debite eccezioni, la prosapia loro discende dalle Alpi. Probabilmente i trisavoli dei presenti conduttori erano bergamini che a furia di stenti e di economie riuscirono a mettere insieme quanto occorreva per spodestare, offrendo aumento d’affitto al proprietario od a’ suoi amministratori, il fittabile che da parecchi anni dava loro l’asilo invernale e vendeva il fieno per il mantenimento delle loro mandre. Questi mandriani, se furono felici e contenti di aver posto fine alla loro vita randagia non per ciò abbandonavano il loro sistema di economia feroce. Economia in tutto e per tutto, salvo che nella figliolanza, creata prodigalmente. Così, con virtù indiscutibili, ma che portate alla esagerazione diventano difetti gravi e deplorevoli, colla loro sobrietà riuscirono a mettere insieme quanto, alla loro morte, poteva abbisognare, a ciascuno dei figli maschi per l’acquisto o l’impianto di nuove aziende agricole4 .Per comprendere perché i bergamini come fenomeno economico e sociale abbiano avuto scarso riconoscimento in sede storica e scarsi apprezzamenti dai contemporanei (tranne che da parte dei veterinari) è necessario anche far riferimento a quella ostilità e diffidenza che sempre è riservata dagli “stanziali” ai “nomadi”, anche se onesti e industriosi (gli si riconosceva sempre la puntualità e la precisione nei pagamenti). Come visto, poi, i bergamini, entravano a volte in concorrenza con i fittabili (per “spodestarli”) e, indirettamente, anche con altre categorie agricole.  Al tempo in cui si formavano le prime leghe bianche nella bassa bresciana, i “malghesi bergamaschi” venivano accusati di essere tra le cause dei bassi salari dei lavoratori agricoli in quanto, con la loro proverbiale parsimonia accettavano patti che tendevano a mantenere alti gli affitti dei fondi, il che poi spingeva i fittavoli a rifarsi sui salariari5.
Quanto, una certa ostilità nei confronti dei bergamini abbia contribuito ad alimentare un sentimento poco amichevole nei confronti dei bergamaschi (almeno in certe zone) o quanto possa essere stato vero l’inverso (ovvero che ai bergamini fosse riservata una diffidenza in quanto bergamaschi), è difficile stabilire in assenza di elementi che possano chiarire questi aspetti. Di certo, come vedremo in seguito, i massicci e perduranti flussi di emigrazione dalle valli bergamasche verso il territorio bresciano (montagne e pianura) possono aver determinato, o quantomeno contribuito a determinare, un forme di concorrenza e di invidia. Ovviamente da considerare tenendo in relazione ai ceti sociali coinvolti (come insegna la differenza di atteggiamento nei confronti dell’attuale immigrazione straniera delle classi alte e dei ceti popolari più deboli).
Nel prendere in esame l’emigrazione bergamasca va considerato il fatto che, non solo i bergamini ma anche i bergamaschi di altre categorie, formavano comunità tendenzialmente poco integrate, orgogliose della loro origine e forti della consapevolezza delle loro capacità. Costituita da personale altamente qualificato: minatori, maestri di forgia, bergamini la comunità bergamasca era oggettivamente forte di competenze specifiche tramandate da generazione in generazione (il che favoriva l’endogamia). Va notato che, nei secoli passati, anche il mestiere di allevatore e casaro “professionale” rientrava allora in quelli ai quali si associavano competenze arcane, segreti professionali al limite della magia (come i fabbri e i metallurgici).  In tempi dei quali si conserva la memoria orale, il pastore, il bergamino (come altri “nomadi”) erano al tempo oggetto di diffidenza e di ammirazione. A loro si chiedevano previsioni del tempo e magari rimedi e trattamenti “terapeutici” al limite della magia (tra i bergamini vi erano dei guaritori degli animali e degli uomini). 


La pratica del “segno”

Le comunità bergamasche erano, non solo nel bresciano:…salde e inassimilabili dall’ambiente in cui vivono; le loro tecniche, la loro personalità collettiva, i legami intrattenuti con la loro patria, mantengono ed esaltano il senso che hanno della loro identità. Il reclutamento degli apprendisti e dei successori in terra bergamasca, spesso all’interno della loro stessa famiglia, permette loro di perpetuare le loro piccole collettività6.La transumanza, più di ogni altra attività, favoriva il mantenimento di legami con le valli di origine. Era comprensibile che comunità di accoglienza potessero nutrire sentimenti negativi nei confronti di questi immigrati. I bergamaschi, d’altra parte, non potevano non guardare con invidia alle risorse bresciane (miniere che si esaurirono più tardi, una industria siderurgica di più lunga durata, una grande pianura agricola).
Le rivalità territoriali sono poi tanto più accanite quanto più interessano collettività simili e portano a non  far volentieri riferimento all’altro, specie se per riconoscerli meriti.
Per questo, molto probabilmente, i bresciani non usavano chiamare “bergamini” i proprietari delle mandrie transumanti; avrebbe implicitamente implicato una “primazia” bergamasca. 

Bergamini/malghesi: le eccezioni confermano la regola
Jacopo da Bassano, l’Annunciazione ai pastori (metà XVI secolo)

Agostino Gallo, il grandissimo agronomo bresciano del Cinquecento, mette in bocca a messer Avogadro, nobile proprietario bresciano la seguente espressione:  Sempre io amai grandemente voi malghesi e pecoraj; perché in vero siete di molta comodità e di utilità a noi Bresciani 7 . Un apprezzamento che parrebbe smentire le considerazioni precedentementi . Ma l’apprezzamento dell’ “utilità” di figure come i malghesi e i pecorai si modifica nel tempo, oltre che dipendendo dal tipo di relazione con la quale i transumenati entrano con i diversi attori sociali. Nel Seicento, contro le pecore, vi saranno “bandi” e una forte ostilità di comunità di pianura e agricoltori. Un’ostilità complessa perché i grossi proprietari nobili, così come i piccoli agricoltori indipendenti continuarono ad accogliere volentieri i pastori. Certo è che i bergamini apportavano due elementi fortemente deficitari nella pianura bresciana sino agli ultimi decenni dell’Ottocento: il letame e i latticini. La loro utilità era quindi indiscutibile. 
Agostino Gallo diede anche una definizione del “malghese”:
Al bestiame grosso, cui non ponno bastare pochi bocconi qual di passaggio carpiti, provvede all’intero loro mantenimento il Pastore, chiamato 
malghese. Compra il fieno per l’inverno: ha in aggiunta un poco di pascolo per l’Autunno, e alle basse ancora per Maggio, poi per la State prende in affitto de’ pascoli nelle montagne per la frescura 8 .


Il grande agronomo parla spesso nella sua opera di “malghesi bresciani” (per esempio per raffrontare il loro formaggio – l’odierno bagoss o nostrano di val Trompia – a quello dei colleghi piacentini – il grana). Non fa riferimento ai bergamaschi (probabilmente perché frequentavano allora solo la fascia occidentale della pianura irrigata dall’Oglio), ma dimostra di conoscere la voce “bergamino” che utilizza però solo due volte, nel capitolo sui fieni, mentre, in quello sui malghesi, è presente solo la voce “malghese” (otto volte). Come mai?
Secoli dopo,  Don Francesco Ugoni, discendente di antica famiglia comitale bresciana, che, oltre a gestire le proprietà di famiglia a Pontevico ed educare i nipoti orfani (Camillo e Filippo, letterati e rivoluzionari), fu autore – all’inizio dell’Ottocento – di diverse opere agronomiche. Sui prestigiosi Annali di agricoltura, curati dall’agnonomo bolognese Filippo Re, pubblicò una Memoria sopra l’agricoltura di una porzione del Dipartimento del Mella [la futura provincia di Brescia senza la Valcamonica]  situata a mezzo giorno9.  In quest’opera fece un interessante cenno ai bergamini, anzi ai “bergamaschi”:Prima della epidemia bovina, che tanto infierì per tutta  l’Italia nel 1796, 1797 e 1798; molti erano i malghesi del paese che consumavano colle loro vacche i fieni delle praterie stabili […] Ma dopo la strage de’ bestiami avvenuta, la massima parte dei malghesi suddetti è andata a male, e sono pochissimi quelli che hanno potuto conservare. le loro vacche, onde presentemente nell’inverno viene qualche malghese o bergamasco delle nostre valli a consumare parte del fieno delle cascine, i latticinj dei quali sono appena appena bastanti per a popolazione 10.


Ex voto settecentesco. Alcuni bergamini invocano Sant’Antonio da Padova e Sant’Ambrogio perché intercedano presso la Vergine con il bambino affinché protegga il loro bestiame

Come si vede, anche a Brescia  era noto il termine “bergamasco” utilizzato per indicare, per antonomasia, il transumante con mandrie “da formaggio”.  Pergamaschus è utilizzato insieme a pergaminus nel XV secolo, poi, però, nella forma italiana di “bergamasco” diventò raro.  Mano a mano che l’uso comune dell’aggettivo “bergamino”, riferito anche a manufatti di origine bergamasca, per indicare “di Bergamo” diventava arcaico, il sempre più usato “bergamasco” rappresentava un riferimento esplicito a qualche nesso con Bergamo. Ugoni non aveva però remore a parlare di “bergamaschi delle nostre valli”, quindi bergamaschi… bresciani. Un vezzo letterario? Comunque un’eccezione.
Chiarisce il carattere di quasi-geosinonimi  della coppia “bergamino”/”malghese”, il milanese Domenico Berra, un ricco avvocato agricoltore e allevatore con una bergamina a Crescenzago, oggi comune di Milano. Egli scrisse negli anni ’20 dell’Ottocento;
I Bresciani chiamano Malghesi que’ proprietari di mandrie di vacche i quali […] alla fine di settembre poi o al più al principio dell’ottobre scendono con le loro mandre alla pianura ove rimangono infino a maggio, mantenendo il bestiame con erbe e fieni comprati. Di questi proprietarj di vacche noi ne abbiamo tuttora moltissimi nel Milanese, Lodigiano, Pavese e Cremonese e sono detti volgarmente Bergamini11.
Un osservatore super partes, l’agronomo bavarese Joannes Burger, trattando dell’agricoltura del Lombardo-Veneto, osservava che  i transumanti erano chiamati sia bergamini che malghesi e che provenivano dalle montagna di Bergamo e di Brescia:Come ho già detto altra volta, essi si chiamano Bergamini o Malghesi. Se ne trovano ancora molti in Lombardia e nelle provincie di Mantova e di Verona, benchè il loro numero, a confronto degli anni andati, siccome ho inteso dire, sia d’assai diminuito. Nelle montagne di Brescia e di Bergamo vi sono del pari che in Isvizzera de’proprietari di bestiame, i quali non possedono in patria che quel tanto di terra che basta per alimentare le loro vacche nella state, e nell’autunno vengono giù alla pianura a cercar pascolo ne’campi per quella stagione e pel successivo inverno. Perchè essi vengono da Bergamo furon detti Bergamini, e di qui fu derivato il nome di Bergamina alla mandra di vacche destinata alla produzione del formaggio12.
La variazione lessicale dipende non solo dall’area geografica ma anche dall’epoca e dal contesto d’uso. Berra riferiva che la voce “bergamino” apparteva al registro “volgare”. Divenne così nell’Ottocento, non certo nei secoli precedenti. Gli Ordini di provvisione (regolamenti annonari) di Milano del Cinquecento e del Seicento citano parecchie volte i “bergamini” a proposito della vendita al minuto dei latticini sul mercato “della balla”13 (i mercati contadini per la vendita diretta non solo una novità).  Essi erano anche menzionati a proposito del divieto loro imposto di pascolare e acquistare fieno entro un raggio di cinque miglia dalle mura cittadine14 (onde non far concorrenza sul mercato del fieno cittadino in un’epoca di numerose, sontuose e pesanti carrozze). 
Se facciamo un passo indietro nel tempo (al Quattrocento), vediamo che l’erario ducale milanese otteneva ottimi cespiti dal sal pergaminorum, il sale destinato ai bergamini (che dovevano salare i formaggi)15. A Piacenza, come in altre città, il commissario addetto alla tassa sul sale si occupava anche, tra gli altri, del seuddetto sal pergaminorum 16.  Per tutto il Settecento secolo, nello Stato di Milano, il termine “bergamino” era utilizzato in inchieste ufficiali e provvedimenti fiscali 17. Ma era così anche nello Stato veneto, a Bergamo, come si evince  dal seguente proclama di sanità del 1761.



Con la perdita di importanza (relativa, non in termini assoluti) della transumanza dei bergamini) la voce passò a un registro “gergale” e “volgare” e, negli atti ufficiali e comunque scritti si dette la preferenza, anche nell’Insubria, a “madriano” e “malghese”, ritenuti termini più “tecnici”.  Il significato di “bergamino” scivolò da quello, che aveva avuto per secoli, di “proprietario di mandrie transumanti” a quello di casaro, capo-stalla e, in ultimo, di “mungitore” (ci sono contratti sindacali degli anni ’60 del Novecento nella bassa Lombardia e nel basso Piemonte che la utilizzano con questo significato).Oltre al bergamino c’era anche la “bergamina”, che non era la donna delle famiglie di bergamini, ma la mandria, la stalla o anche la singola vacca da latte. Anche nei dialetti emiliani, oltre che in quelli lombardi, erano utilizzate entrambe le voci: bergamino (bergamèn) e bergamina (bergamìnna)18. Va notato, per inciso, che la provincia di Modena è quella dove è più diffuso il cognome Bergamini, seguita da Ferrara, Bergamo, Bologna, Milano, Verona, Brescia, Rovigo e Mantova (sarebbe interessante, a tal proposito, capire quanto la diffusione in Emilia sia legata ai bergamini piuttosto che a tessitori o a contadini in genere). 

Bovegno: uno dei centri della transumanza

Il bresciano Domenico Brentana, originario di Bovegno, in alta val Trompia, tipica località di bergamini (anche i Brentana lo erano stati), nell’ampio saggio dedicato al paese natio, pur utilizzando 19 sempre la voce “malghese” (anche per indicare i transumanti), utilizza tre volte la voce “bergamina” per riferirsi alla mandria lattifera. Era professore di zootecnia a Parma, fu anche preside di quella facoltà di veterinaria ed è probabile che, oltre che dalla letteratura tecnica lombarda dell’Ottocento, egli abbia assimilato quell’uso lessicale in terra parmigiana.
Di fatto, in uno spazio che va da Alessandria e Vercelli sino a Ferrara e Bologna si riconosceva, anche attraverso attestazioni linguistiche, una qualche relazione tra i fatti attinenti la transumanza, la mungitura, la lavorazione del latte, le vacche da latte e… Bergamo. “Bergamino” era infatti un etnonimo al pari di “bergamasco” (usato in passato, come già visto, in alternanza). L’opera letteraria del duecento bergamasco è il Liber pergaminus di Mosè del Brolo20, un’esaltazione della città.  
In definitiva possiamo dire che l’identificazione dei transumanti con i “bergamini” ha conosciuto ampia estensione geografica e sociolinguistica.  Il fatto che il bresciano faccia eccezione può trovare un’altra spiegazione, al di là del fattore di rivalità con Bergamo, nella circostanza che, anche dalle valli bresciane, scendevano dei transumanti con le loro mandrie.  Un numero consistente di transumanti, però, scendeva anche dalla Valsassina e da quelle terre della valle Imagna, della val Taleggio, dell’alta val Brembana occidentale che appartenevano alla diocesi di Milano e che, in parte restarono incorporate nello Stato di Milano anche dopo la dedizione di Bergamo a Venezia. Vi erano quindi (non pochi) bergamini milanesi che, però, non solo venivano chiamati così in pianura ma anche nelle loro valli. 




Transito di bergamini da Introbio, “capitale” della Valsassina in una foto di inizio Novecento

Nella Valsassina lecchese il nome di bergamino era di uso corrente e non ha mai comportato alcun “disagio campanilistico”. Luigi Formigoni, che fu direttore dell’Ispettorato agrario di Como (la provincia di Lecco è di recente istituzione) e fu un grande ammiratore delle capacità allevatoriali dei “suoi” bergamini (pur essendo nato a Milano da genitori modenesi). Egli, non potendo evitare di utilizzare quel nome, ormai radicato, che richiamava Bergamo, e che in qualche modo oscurava il primato dei valsassinesi, cercò di riprendere la  suggestiva, ma infondata21, ipotesi etimologica già avanzata nell’Ottocento da Stefano Jacini (e da altri autori prima di lui22) : in lingua celtica infatti berg significa monte e man uomo23. Il caso di Formigoni indicae fin dove possono condurre le ragioni del “patriottismo” ma induce anche a distinguere tra “patriottismi” popolari e quelli alimentati dagli esponenti dei ceti colti. Questi ultimi possono aver contribuito a conservare, nei confronti di altre città/territori, sentimenti riconducibili a fatti di parecchi secoli prima attraverso il culto delle “memorie civiche” che si è perpetuato, un po’ anacronisticamente, per lungo tempo dopo la fine della civiltà comunale che lo aveva generato. Se, però, queste memorie diventano memoria collettiva popolare e si conservano inossidabili attraverso i secoli è perché trovano corrispondenza in elementi della realtà sociale in gradi di riattualizzarli. La realtà, però, cambia profondamente e le ragioni della rivalità tra territori del passato possono diventare quelle della collaborazione. Bisogna saper superare certe inerzie mentali.


In vista del 2023

Fare riferimento all’epopea dei bergamini oggi ha il significato di valorizzare una storia comune a bergamaschi e bresciani. La massiccia emigrazione bergamasca nel bresciano (non è azzardato affermare che i bresciani hanno una forte componente bergamasca) ebbe una secolare componente bergamina, destinata a insediarsi stabilmente nel territorio di pianura. Non solo, ma il fenomeno bergamino nelle valli bresciane ebbe caratteristiche molto simili a quello delle valli bergamasche tanto da poter far ritenere che il fenomeno dosse unico. I bergamini della montagna bresciana si spingevano a svernare sin nel lodigiano (come i pastori di pecore). Tale Antonio de Valcamonica bergamino (così definito nel contratto), nel 1461 prendeva a soccida oltre cento bovini da latte da un affittuario di una grande possessione del vescovo di Lodi 24. Negli stessi anni, a conferma della generalità del fenomeno una ducale emanata a Brescia del 14 giugno 1464 proibiva ai “malghesi”, pena gravissime sanzioni, di svernare fuori dello stato veneto25 . Sappiamo che continuarono a dirigersi verso il milanese26 . Per secoli (sino al Novecento) i bergamini delle valli bresciane, mentre i bergamaschi occupavano molte cascine bresciane si sono diretti verso il mantovano e il reggiano effettuando anch’essi per secoli la transumanza a lungo raggio, come i valsassinesi e i bergamaschi.Oggi, esaurita l’epopea dei bergamini (ma la loro “spinta propulsiva” è rintracciabile nei caratteri odierni delle strutture zootecniche e agroalimentari della bassa Lombardia), ormai lontani anche i tempi della mungitura a mano e dei bergamini-mungitori sullo scagnèl a un piede, ereditato dalla tradizione alpina (semmai fiorisce la letteratura sui bergamini-sikh)27, definitivamente consacrato nel linguaggio corrente il termine “malghese” a indicare l’uomo delle malghe-pascoli (che lui chiama ancora monti, mut, montagne), una opportuna convenzione potrebbe stabilire di definire come “bergamini” i transumanti storici con vacche da latte, tra XV e XX.   “Malghesi storici” (quelli delle malghe-greggi o malghe-mandrie, nel significato più antico ancora vivo in parte della Lombardia) andrebbero invece definiti, per fare chiarezza, i transumanti medievali, che avevano in prevalenza pecore da latte. Chiarendo che, se è indubbio il nesso tra bergamini e Bergamo è altrettanto vero che i bergamini non erano solo bergamaschi. 
Bergamo e Brescia sono state proclamate congiuntamente “città italiana capitale della cultura 2023”. La candidatura era stata avanzata dopo la prima letale ondata dell’epidemia Covid dell’inverno-primavera 2020. Si è trattato di un moto spontaneo teso a far prevalere su una rivalità, che andrebbe circoscritta all’ambito propriamente sportivo, le ragioni della solidarietà, di forti retaggi e caratteri comuni, di relazioni basate su movimenti migratori e correnti di scambio commerciale (spesso intrecciate all’emigrazione stessa). Si tratta di un’iniziativa che punta, guardando oltre la lunga emergenza e gli aspetti emotivi, a consolidare le opportunità di collaborazione e di complementarietà tra due città e territori, non solo contigui ma anche molto simili, rafforzandoli sul piano della consapevolezza culturale e – ma le cose sono strettamente connesse – su quello della messa in rete di risorse e della proiezione verso l’esterno.In vista si questa scadenza risulterebbe preziosa una più sistematica ricostruzione delle vicende storiche legate all’emigrazione, ai commerci, alle transumanze in grado di inquadrare aspetti chiave che hanno definito le relazioni di lungo periodo tra Bergamo e Brescia (con tutte le loro implicazioni socio-culturali). Un lavoro del genere restirebbe un quadro, forse inaspettato, della continuità, la sistematicità, l’estensione dei fenomeni di osmosi tra i due territori, fenomeni che conosciamo ancora solo sommariamente. 
Qualche spunto

In realtà abbiamo già molte indicazioni della stretta e costante interrelazione tra i due territori, in tempi meno vicini forse più stretta che nel recente passato. Basti pensare all’importanza degli scambi tra le valli bergamasche e Brescia attraverso la comoda via d’acqua del Sebino (quando le merci, per terra, dovevano viaggiare con le carovane di muli). Saliva grano dalla pianura bresciana, scendevano formaggi.


1825, il 27 maggio Bortolo Bergamini di Ardesio invoca la grazia alla Madonna di Ardesio per aver salva la vita dalla tempesta abbattutasi sul lago d’Iseo. Come si vede, oltre ai passeggeri l’imbarcazione trasportava colli di merci

Rovato resterà sino alla metà del XX secolo un grande centro caseario dove affluivano i formaggi d’alpeggio bergamaschi (tranne quelli della val Brembana che erano destinati alla stagionatura a Bergamo). Qui operarono anche ditte e famiglie della Valsassina e della val Taleggio a conferma che il centro della Franciacorta era uno degli snodi più importanti del settore di tutta la Lombardia (gli altri erano Codogno, Corsico, Milano).



Nel Seicento, quando il lanificio bergamasco era ancora florido, ma era piombato in una gravissima e irreversibile crisi a Milano, Como, Monza, Cremona e Brescia, i lanaioli di quest’ultima città presero a commercializzare il panno bergamasco. Il lanificio si restrinse poi alla val Gandino. Forse a questa supremazia bergamasca nel lanificio di deve il proverbio, diffuso nelle valli bresciane che recita: Bröt tép, bröta zènt, pan bah, i vé töcc dal Bergamàh ( Brutto tempo [le perturbazioni atlantiche], brutta gente, panno basso [sinonimo di bassa qualità] ). 28 
Con lo sviluppo del setificio, che ebbe grande importanza nella bergamasca specie nel Settecento e nella prima metà dell’Ottocento, le campagne della bassa bresciana fornivano abbondante materia prima alle filande bergamasche. Invece, nel campo metallurgico, fu Brescia, con le valli, a emergere, con il grande sviluppo dell’industria siderurgica che si prolungato sino in tempi recenti.  I magistri dei forni fusori bergamaschi che, forse per primi, avevano messo a punto la tecnologia dell’alto forno, tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento emigrarono nelle valli bresciane, segnatamente in val Trompia. Ma questi non sono che alcuni esempi.
Si è già fatto riferimenti all’emigrazione. Che questa abbia creato una forte connessione tra Bergamo e Brescia lo aveva già messo in evidenza Paolo Guerrini, nei suoi primi studi sche risalgono agli anni ’40 del secolo scorso29.  Inizialmente limitati al XIV secolo i primi studi di Guerrini sono stati poi confermati da altri autori successivi che presero in considerazione anche il secolo successivo30. Anche la presenza di moltissimi cognomi uguali a Brescia e a Bergamo era già stata osservata da Guerrini (quando non c’era internet a rendere facili certe ricerche):  Moltissimi cognomi bergamaschi ripetono nomi di paesi e di località della vicina provincia di Bergamo, e specialmente delle sue tre valli Seriana, Brembana e Imagna, dalle quali è venuta sempre verso Brescia e il territorio bresciano una forte immigrazione di mandriani, casari, contadini, e operai di industrie varie, ma soprattutto del lanificio e della concia delle pelli 31. A Brescia l’immigrazione bergamasca tese a crescere tra XIV e XV secolo (in relazione anche all’affermarsi del dominio veneto). Nel 1388 il 51% degli estimati era costituito da immigrati, nel 1416 saliva al 54, nel 1430 si abbassava al 47%. La quota di bergamaschi sugli immigrati fu crescente, rispettivamente del 23%, 33% e 40% alle tre date 32. Se l’emigrazione bergamasca verso Brescia fu massiccia dopo la peste del 1349 (quando anche molti milanesi si trasferirono a Brescia), essa – diretta verso tutta la pianura lombarda – precedeva il periodo comunale e proseguì oltre il medioevo e l’età moderna tanto che Giuliana Albini parla di emigrazione fisiologica che attraversa tutta la storia bergamasca33.
Uno dei motivi di questo fenomeno è da ricercare nel rapporto tra la città e le valli. Bergamo è una città relativamente piccola (rispetto al quadro italiano). Essa contava, verso il 1330, 10-20 mila abitanti mentre Brescia, sempre sulla base di stime, poteva superare i 40 mila abitanti. Della stessa taglia di Brescia, probabilmente più grande era Cremona, mentre Verona era ancora più popolosa 34.
Se la città è di taglia demografica inferiore a quelle vicine, se la pianura bergamasca è poco estesa, le valli bergamasche sono, al contrario, estese ed erano densamente popolate nel periodo del boom economico medievale. In esse erano attive miniere (ferro e argento) con i loro centri industriali (lana e metallurgia), i dinamici centri (Gromo, Ardesio, Gandino, Clusone, Serina, Zogno). Ma l’emigrazione bergamasca non ha rappresentato solo un travaso dalla montagna ad altre città (non bastando lo “sfogo” di Bergamo). Gli artigiani si insediavano nelle valli, artigiani, contadini e malghesi nella pianura. Ciò ha contribuito, molto più che l’emigrazione verso Brescia, a popolare il territorio bresciano di bergamaschi (è noto che le città mantengono l’equilibrio demografico solo grazie all’immigrazione e hanno saldi naturali spesso negativi).
Un’altra caratteristica dell’emigrazione bergamasca è che non è un’emigrazione di poveri montanari, come un inveterato cliché tende a far ritenere. Era emigrazione che riguardava anche le classi alte, desiderose di per far fortuna con i commerci 35. Così troviamo  mercanti bergamaschi non solo a Brescia ma anche nelle città venete che si occupano del commercio caseario, di cereali, di lana. Anche i facchini, peraltro, erano maestrane qualificate e ben organizzate come dimostra la compagnia Caravana. Approfondiremo questi aspetti in un prossimo articolo.
A secoli di distanza, sulle gelosie indotte dall’emigrazione bergamasca dovrebbe prevalere la considerazione che bergamaschi e bresciani sono stati, insieme, protagonisti dello sviluppo di settori (caseificio, siderurgia, industria armiera, tessile) di rilievo in ambito internazionale.  Un riconoscimento che stimola a guardare avanti.

Gandino: la rivincita della lana

(18/04/2012) Anna Carissoni ha discusso con i titolari del lanificio Ariete di Gandino le prospettive della lana. Legate alle sue caratteristiche naturali che ne fanno il materiale ideale per gli accessori da letto

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Silvano Pasini

di Anna Carissoni

Dopo decenni di sistematica svalutazione, la lana potrebbe tornare a giocare un ruolo importante sia nella nostra vita che nella nostra economia, considerato il fatto che si tratta di un prodotto davvero naturale suscettibile di mille usi in funzione della salvaguardia della nostra salute

Ne sono convinti i titolari della ditta “Ariete” di Gandino, forse l’unica rimasta in Italia ad effettuare il lavaggio della lana sucida – in 8 ore di lavoro gli impianti ne possono trattare fino a 8.000 chilogrammi – che arriva qui da ogni parte d’Italia e anche dall’estero. Silvano, Claudio e Susanna Pasini, padre e figli, portano avanti, innovandola costantemente, la secolare tradizione dell’industria laniera della Valgandino: Silvano è nipote di quel Rino Pasini, detto anche “il sarto dei pastori”, scomparso negli anni ’80, che trasformava la lana bergamasca nel grosso “pannolano” con cui confezionava i gabà (mantelli) che poi spediva non solo in Abruzzo, in Sicilia e in Sardegna, ma anche verso il Nord, in Trentino, in Tirolo, in Svizzera…

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“Noi adesso non facciamo più gabà per i pastori, ma siamo sempre in contatto con questa particolare categoria di produttori perché ritiriamo quasi tutta la loro lana ( i Pasini hanno una loro rete di raccolta, i loro camion corrono un po’ ovunque a raccogliere la lana, bisogna far presto perché se è bagnata, e spesso lo è, la lana nel giro di 24 ore fermenta ed ingiallisce, rovinandosi), nei nostri impianti trattiamo il 90% di tutta la lana prodotta nell’Italia del Nord e gran parte di quella prodotta nell’Italia Centrale e Meridionale, oltre ai grandi quantitativi che ci giungono dall’Inghilterra e dalla Nuova Zelanda “- dice Silvano Pasini.

“Certo la nostra lana non è competitiva rispetto alle lane estere- aggiunge Claudio – perché è meno fine, ma un suo utilizzo è sempre possibile, noi per esempio ne facciamo un prodotto nuovo per l’edilizia, il Polarwool, totalmente naturale e compatibile con l’ambiente, per l’isolamento termico ed acustico degli edifici: oltre al risparmio energetico, sfruttando sia l’igroscopicità della lana (cioè la capacità di assorbire e rilasciare l’umidità presente nell’aria) che la sua grande traspirabilità, permette un elevato comfort termo-igrometrico sia in estate che in inverno. Il resto della lana che lavoriamo serve per fare materassi, moquette e tappeti”.

Una produzione che ha assicurato nel 2010 alla ditta Ariete da parte di Confindustria il primo premio Odysseus per l’Innovazione tecnologica ambiente/energia , uno dei riconoscimenti che hanno premiato anche la caparbietà con cui i Pasini hanno resistito alla crisi ed alla tentazione di chiudere la ditta, come hanno invece fatto altre manifatture presenti nel fondovalle industriale della Valgandino, le cui strutture abbandonate, vuote e silenziose, danno a chi passa una stretta al cuore.

“Dal 2000 al 2008, gli anni peggiori, da una trentina di dipendenti siamo scesi a 12, abbiamo perso molti soldi e abbiamo pensato seriamente di chiudere tutto. Poi però il bilancio dell’anno scorso si è chiuso in pareggio e questo ci ha ridato un po’ di fiducia, anche se rimane grave il problema di tanti nostri vecchi clienti che hanno chiuso e di quelli che non pagano”.

Ma il problema più grave rimane la svalutazione della lana in Italia:

“ Alla recente Fiera di Francoforte abbiamo constatato che, pe rl’Europa e non solo, il futuro è nella lana, prodotto ideale sia per vestire che per dormire in buona salute e all’estero questo l’hanno capito…. Anche il Principe di Galles, con cui siamo in contatto, ha lanciato in tutta Europa una campagna a favore della lana cui parteciperemo anche noi. Per anni si è fatto credere alla gente che la lana ospita gli acari responsabili delle allergie, ma gli acari si nutrono delle cellule morte della pelle che perdiamo per il rinnovamento naturale, non la lana, e comunque gli acari ci sono anche nelle altre fibre.Senza contare che alcuni materiali creano nel letto un micro-clima sbagliato, non per nulla non possono essere esposti al sole! Insomma è un problema di cultura, la gente in realtà, soprattutto i giovani, ignora i pregi salutari della lana. Molti materassi vengono infatti venduti come “totalmente naturali” mentre non lo sono affatto e per la sicurezza dei compratori dovrebbero essere etichettati, come si fa per tutti gli altri prodotti tessili, con l’indicazione delle percentuali di ciascun materiale contenuto, cosa che le nostre leggi non prevedono….”.

Anche a proposito di allergie, secondo i Pasini vigono molti malintesi:

“Se le reali cause delle malattie allergiche – di cui soffrono 18 milioni di Italiani – sono ancora perlopiù sconosciute, si può dire però che queste malattie sono scatenate da fattori genetici ed ambientali. Nel secondo caso, esistono alcuni fattori ambientali che possono influire sulla probabilità che una persona diventi allergica: sono infatti più colpiti da allergie coloro che vivono in case umide, nei bambini che nei primi mesi di vita dormono su materassi e cuscini di fibre non naturali, e nei soggetti che abitano in case pulite frequentemente con spray detergenti. E’ stato dimostrato scientificamente che il bambino sano che nei primi mesi di vita dorme con materassi, cuscini, coperte e lenzuola confezionati con materiale naturale al 100% ha un rischio 5 volte minore di sviluppare asma e malattie allergiche nei primi sette anni di vita. Comunque nessun materiale è completamente privo di allergeni, esattamente il contrario di quello che si è pensato per anni….

Perciò sarebbe molto salutare mettere suolette di lana anche dentro le scarpe tipo ginnastica che vanno tanto di moda, usare “piumini” di lana più o meno leggeri a seconda delle stagioni,  usare materassi di lana o ricoperti di lana… ….Insomma, anche al di là di tutte le ricerche scientifiche di oggi, ci sarà pure un motivo se le pecore possono vivere sia alle bassissime temperature del Nepal che in quelle caldissime dei deserti australiani, se i nostri vecchi chiedevano ai pastori una pelle di pecora da mettere nel letto dei malati per evitare loro le piaghe da decubito….”.

Silvano Pasini ha scritto anche al Ministero della Salute, chiedendo una campagna di informazione, magari tramite un programma tv, che spieghi al pubblico i pregi della lana. “Ciò potrebbe rilanciare il consumo di lana e ne farebbe aumentare il prezzo, aiutando così anche tutti gli allevatori italiani”.

I pastori, appunto, che in Italia allevano circa 12 milioni di pecore e che, se e quando trovano un compratore, gli vendono la lana a 20/30 centesimi al chilo. Ma tosare una pecora costa 2 euro, perciò spesso, visto che non tosare le bestie non si può perché va a scapito della loro salute, i pastori la lana la bruciano, oppure la sotterrano o l’abbandonano lungo i fiumi: “Noi i pastori li conosciamo bene, sappiamo che già lavorano tra mille disagi e abbiamo pensato di dar loro una mano: abbiamo raddoppiato il prezzo della lana che ci vendono, ora gliela paghiamo 50 centesimi al chilo, ma per pareggiare le spese di tosatura ci sarebbe bisogno di un ulteriore aiuto – quantizzato in circa 50 centesimi per ogni capo tosato – che potrebbe venire da qualche ente pubblico o da qualche istituzione”. I Pasini si sono perciò rivolti al Ministero dell’Agricoltura, alla Camera di Commercio, alla Regione ed alla Provincia, ricevendone però risposte negative. L’unico interlocutore attento che hanno trovato è stata la Coldiretti di Bergamo, che li ha rimandati alla sua sezione di Clusone in considerazione dell’importanza della pastorizia in Alta Valle Seriana.

“Certo non sarebbe la soluzione di tutti i problemi dei pastori – conclude –servirebbero anche altri incentivi – come per es. in Veneto, dove i pastori possono affittare i pascoli con un contributo della CEE o come la Camera di Commercio di Biella che sostiene considerevolmente i pastori del territorio – ma questo potrebbe essere un primo passo positivo. Fermo restando che l’azione più urgente da svolgere sarebbe comunque una campagna informativa a favore della lana per cambiare la cultura in merito che si è diffusa in questi ultimi decenni”.

Bergamini pilastro del caseificio

(27.12.19) Nel celebrare la proclamazione della transumanza “patrimonio dell’umanità” è doveroso richiamare come la transumanza, in ambito alpino-padano, ebbe una connotazione particolare, basata sull’allevamento di vacche da latte e sull’attività casearia. Le tradizioni casearie lombarde (ma anche delle regioni vicine) e la stessa nascita della moderna industria del latte devono molto allla transumanza dei “bergamini”.

Nell’affermare l’importanza della transumanza dei bergamini, casari e allevatori di bovini da latte, non si cesserà mai di insistere sull’effetto formidabile che lo scambio tra pianura e montagna ebbe sullo sviluppo della moderna agricoltura a indirizzo zootecnico della pianura irrigua lombarda.  Oggi  è difficile capire questo fenomeno per non poche ragioni ma due valgono a farci capire: 1) il ruolo insostituibile del concime organico nel determinare l’affermazione di un’agricoltura intensiva basata su rotazioni, irrigazione e… letame. Nel medioevo, era dominante la cerealicoltura estensiva asciutta che utilizzava i bovini quali animali da lavoro. Le poche vacche servivano per lo più da madri di buoi e davano due litri di latte al giorno. Il latte e i formaggi  erano per lo più pecorini, frutto di un sistema pastorale  e transumante che sfruttava gli spazi ancora incolti. Un sistema del tutto separato dal punto di vista agronomico e sociale da quello agricolo. I grandi proprietari concedevano i diritti di pascolo su larghe estensioni ai “malghesi” (che avevano per lo più pecore da latte, qualche capra e qualche vacca) mentre i latifondi coltivati erano suddivisi in tante unità mezzadrili gestite da una famiglia di coltivatori con scarsi mezzi. La rivoluzione dell’irrigazione è stata anche una  rivoluzione delle strutture fondiarie: al posto delle piccole unità mezzadrili sorsero poche grandi unità organiche, le cascine, ampiamente provviste di fabbricati, incluse stalle e caseifici. Le cascine vennero cedute in affitto a imprenditori. Il capitale bestiame, però, lo portarono i montanari transumanti e solo molto gradualmente gli affittuari si dotarono di mandrie proprie di lattifere, chiamate nel milanese “bergamine” proprio perché alle origini della moderna agricoltura della pianura irrigua lombarda,  le mandrie  erano il larga misura transumanti e, un estate tornavano per l’alpeggio sulle Alpi orobiche. “Bergamina” era la mandria di vacche da latte e bergamino il suo proprietario.

I bergamini, grazie alla possibilità di svernare in pianura, dove acquistavano il fieno dagli affittuari che conducevano le cascine,  potevano allevare molte più vacche dei contadini di montagna. Questi ultimi spesso ne avevano solo una, 4-5 era già un bel “capitale”. Bisogna pensare che: 1) i prati erano pochi perché il montanaro doveva coltivare segale, orzo, grano saraceno, rape, fagioli, mais, patate; 2)  ogni famiglia aveva  un po’ di bestiame e quindi tanti avevano tanti piccoli appezzamenti; 3) il fieno andava sfalciato a mano, spesso su terreni in pendio, e ci voleta tempo e fatica.

I bergamini, con le loro “bergamine”, furono ben accolti dagli agricoltori di pianura. I contratti d’affitto, da essi stipulati con la grande proprietà (enti assistenziali e patriziato milanese), imponevano di mantenere sul fondo un certo numero di vacche da latte, pena l’escomio. La ragione è evidente: non si voleva, dopo tutti gli investimenti in opere di irrigazione, bonifiche, fabbricati, che la terra perdesse fertilità e che il capitale fondiario “evaporasse”.  Ma il “fittavolo” che aveva già il suo bel da fare a gestire un’azienda con decine di dipendenti, a seguire i mercati, le complicate procedure dell’utilizzo e del pagamento dell’acqua di irrigazione, cercava di esimersi dalla “grana” dell’allevamento e della lavorazione del latte.

Erano epoche (lo fu sino all’Ottocento) in cui le competenze relative alla cure delle malattie del bestiame, alla riproduzione animale, alla lavorazione del latte erano considerate alla stregua di  saperi esoterici  i cui depositari li custovivano gelosamente, di padre in figlio. Gli agricoltori di pianura non avevano alcuna domestichezza con il bestiame (gli animali venivano acquistati dai commercianti e non riprodotti in azienda); in più il clima, il regime alimentare, le condizioni igienico-sanitarie, i sistemi di stabulazione (scarsità di luce e di ricambi d’aria) rendevano impossibile o comunque anti-economico allevare la “rimonta”, ovvero allevare vitelle da vita. Dopo il Cinquecento, massicciamente nel Settecento e nell’Ottocento, il rifornimento delle giovani vacche (si acquistava l’animale che aveva già partorito e prodotto latte) veniva principalmente dai montanari svizzeri che si erano specializzati nel rifornire il mercato degli agricoltori della bassa.  Anche se il problema del rifornimento della “rimonta” aveva trovato una soluzione con l’import da oltre Gottardo, restava il problema del personale addetto al bestiame. Ma lo scoglio principale era quello della caseificazione. I casari assunti dai fittavoli pretendevano salari elevati, una casa più che decente e… facevano di testa loro.

Così anche quando i fittavoli iniziarono gradualmente a gestire direttamente le “bergamine” (con personale che, specie i capi-stalla, era in prevalenza costituito da elementi di origine bergamina), l’attività di caseificazione, con tutti i rischi che comportava, continuò ad essere demandata ai lacé (laté).

Una cascina diroccata nell’Est milanese. A destra il “casone” (caseificio) di impostazione ottocentesca

Costoro erano figli “cadetti” di famiglie transumanti con diversi eredi al ruolo di regiùr o che, per motivi vari,preferivano staccarsi dal padre/zio o dai fratelli e che si dedicavano in prevalenza alla lavorazione del latte (pur continuando a mantenere qualche vacca e ad allevare suini), rimanendo in pianura tutto l’anno. L’attività di lattaio non richiedeva una famiglia numerosa (come quella dei transumanti che spesso dovevano dividersi tra più compiti e più località) ed era gestibile individualmente.

In una statistica del 1857 si osserva che nel circondario di Lodi e nel Pandinasco  la presena dei bergamini era preponderante tra  i gestori dei “casoni”.  Dove i “bergamini di ventura” erano già stati in parte o in tutto sostituitidalal gestione diretta del fittavole della stalla, vi erano ancora parecchi “lattaj”.  Nella zona di Codogno erano be erano rimasti pochissimi. Come si spiega questa forte differenza nell’ambito dlelo stesso lodigiano? Nella parte bassa lo sviluppo delle grandi cascine era stato più precoce, in più la dimensione dei fondi è rimasta maggiore. Nella parte più a Nord le aziende erano di dimensioni ridotte e di conseguenza gli affittuari avevano meno risorse organizzative ed economiche.  Intorno a Lodi, la zona dei Chiodi (corrispondente ai Corpi santi di Milano) era caratterizzata da piccole cascine e da un’attività casearia favorita dal facile rifornimento alla citta con la vendita diretta.

La loro condizione era comunque in qualche modo altrettanto “nomade” di quella dei bergamini che continuavano a salire in montagna per l’alpeggio a ogni fine primavera. Sia i lattai che i bergamini stabilivano con i conduttori delle cascine contratti semestrali: da San Michele a San Giorgio e da San Giorgio a San Michele. Il primo era il contratto per l’acquisto del fieno, tipicamente dei transumanti (che a maggio salivano in montagna), il secondo era il contratto “per l’erba” che stipulavano i bergamini che restavano in estate in pianura. Anche per i lattai valeva una uguale ripartizione che corrispondeva – in termini caseari – alla produzione, alla “sorte”, “vernenga” e di quella “maggenga” che contraddistinguevano due produzioni distinte per qualità e prezzo con riferimento al prodotto più importante, specie nel lodigiano, ovvero il formaggio “di grana”.

Un bergamino (un Papetti di Foppolo), orgoglioso del proprio bestiame)

I lattai, come i bergamini si spostavano spesso da una cascina all’altra; era rarissimo che tornassero per più anni nella stessa. Molti si spostavano ogni anno o ogni sei mesi. I motivi potevano essere pratici (se la “bergamina” cambiava di dimensione servivano stalle e fienili adeguati alla nuova situazione) o legati a contestazioni sulla qualità del fieno. Fondamentalmente, però, il bergamino (e con lui il laté che partecipava delle stesse origini e della stessa cultura), preferiva non vincolarsi a rapporti stabili che gli avrebbero fatto perdere la sua indipendenza. Egli era l’unico che non si cavava il cappello davanti al fittavolo. Si sentiva alla pari con  il fittavolo  (che, non di rado, era stato a sua volta bergamino o era discendente di bergamini).

Famiglia di bergamini di Parre (val Seriana) in alpeggio a Bienno (Valcamonica). I bergamini per l’alpeggio si spostavano anche in altre vallate.

Così come il bergamino acquistava il fieno, e con esso il diritto all’uso dei locali di abitazione, stalle, caseificio, porcilaia (più legna, farina e altri generi alimentari), anche il lattaio “affittava” il latte che pagava a scadenze regolari (dopo aver venduto il formaggio) e otteneva gli stessi “appendizi contrattuali” del bergamino (locali, legnoa…).  Orgogliosi della propria indipendenza, il bergamino e il lattaio di origine bergamina erano insofferenti in massimo grado alla rigida organizzazione per scale gerarchiche, formalismi e rigide competenze della cascina . Un senso di indipendenza che queste figure hanno conservato a lungo. D’altra parte, all’interno della grande famiglia bergamina  vi era una  organizzazione del lavoro tutt’altro che improvvisata. Solo che i ruoli erano “flessibili” e spesso interscambiabili.

Alcune delle località dove è stato attivo Antonio Invernizzi, figlio del “Pedron”, papostipite del ceppo degli Invernizzi Pedron di Barzio (Valsassina) e nonno di Egidio Invernizzi fondatore della INALPI di Moretta (Cuneo)

Le donne bergamine per vestiario e atteggiamenti e competenze (e “grinta”) non si differenziavano troppo dagli uomini, anzi. Una sosta nella transumanza (Piazza Brembana)

Le donne, per esempio, al contrario di quello che potrebbe far sembrare (superficialmente e pregiudizievolmente) il regime patriarcale erano capaci di svolgere anche le mansioni tipiche degli uomini: guidare i carri, assistere i parti delle vacche. Nella famiglia bergamina era chiaro chi comandasse, ma secondo logiche comprensibili e accettate, non per affermazione gerarchica fine a sé stessa, come rivendicazione di uno status sociale o di forme esteriori di superiorità, come invece accade nelle grandi organizzazioni impersonali. La superiorità delle PMI, che in Italia derivano da solide famiglie contadine patriarcali, è legata a questa capacità organizzativa, alla flessibilità che contrasta con le distorsioni burocratiche e gerarchiche delle grandi imprese. I bergamini hanno trasposto queste qualità nel settore alimentare (latte e industria suina). 

A Melzo nel 1906 sorge, per opera di Egidio Galbani, il primo stabilimento caseario con impianti moderni e in corrispondenza dello scalo ferroviario. Inizialmente Galbani aveva operato, come tanti altri lattai bergamini nell’ambito delle cascine della zona. La scelta di Melzo era legata ai collegamenti ferroviari ma anche alla presenza in zona di molti bergamini (la zona, caratterizzata dall’affioramento dei fontanili e quindi propizia all’irrigazione e alla produzione foraggera è anche all’incrocio delle rotte di transumanza da Nord, dalla Valsassina e da Est, dalle valli bergamasche).

Nell’ambito dei tanti piccoli caseifici gestiti dai lattai bergamini che, nel corso del Novecento, si sono gradualmente distaccati dalle cascine per aprire caseifici autonomi, sono emersi veri e propri capitani di industria. Il più grande è stato Egidio Galbani.

A lui si devono molte delle innovazioni che hanno fatto la fortuna dell’industria casearia italiana anche se bisogna ricordare che, già nel 1926, il Galbani abbandona (le circostanze non sono mai state chiarite) la ditta da lui fondata verso il 1880. Essa manterrà il nome del fondatore ma sarà gestita dai fratelli Invernizzi (Achille – che fu presidente del Milan – e Rinaldo), una famiglia con radici in Valsassina come quella di Galbani,  meno celebrata, sia per i forti legami con il regime fascista sia per le poco limpide circostanze della cessione alle multinazionali. A Melzo vi era anche la Invernizzi, una ditta importante ma che si mosse sempre sulla scia della Galbani. Chi non ricorda la “mucca Carolina” e le campagne promozionali “all’americana” della Invernizzi! Ma a Melzo, a sottilineare una storia fatta non solo dalle “punte” vi erano almeno altri sei piccoli caseifici Invernizzi!

Ai Galbani, agli Invernizzi, ai Locatelli si riconosce di aver saputo creare una grande industria casearia partendo dalla storia dei bergamini, dalla transumanza praticata dalle famiglie di estrazione. Ci si dimentica, però, che la storia del caseificio lombardo comprende anche altre ditte grandi e medie di origine bergamina. Ci si dimentica anche che le maestranze, i tecnici, i direttori degli stabilimenti appartenevano alla stessa “comunità di pratica”, erano figli o nipoti di bergamini , avevano maturato le loro esperienze nelle piccole latterie, da lattai, da figli di lattai.

La sede londinese della Mattia Locatelli. La Locatelli ha radici che risalgono ai primi dell’Ottocento e per lungo tempo ha mantenuto la sede a Ballabio, poi trasferita a Lecco e, in ultimo, a Milano. Era la ditta più orientata all’export, con sedi a Londra, New York e Buenos Aires. 

In Italia aveva sedi produttive in Piemonte, in Lazio, in Emilia e in Sardegna in modo da coprire la produzione dei principali formaggi tipici itraliani da esportazione (Grana, Pecorino, Gorgonzola). A Londra, però, c’erano ai primi del Novecento almeno sei ditte valsassinesi con una sede o una rappresentanza

Non si darebbe il giusto riconoscimento ai bergamini se ci si limitasse a legare il loro contributo a quelle poche famiglie da cui sono sorti i celebrati marchi del caseificio italiano (tutti finiti nelle mani dei francesi).  Tra le grandi ditte di matrice bergamina va senz’altro collocata anche la Arrigoni di Crema. Limitata alla tradizionale produzione di Gorgonzola era la Devizzi che ha operato a Gorgonzola tra il 1889 e il 1981.

Lo stabilimento Arrigoni di Crema negli anni Venti del Novecento

Magazzini della Devizzi di Gorgonzola

A sottolineare la dimensione “corale” del fenomeno dello sviluppo dell’industria casearia a partire dall’attività dei bergamini  si può prendere in esame  la presenza, nelle ragioni sociali delle ditte casearie nelle provincia di Milano (comprendente anche Lodi e parte della prov. di Monza e Brianza), di cognomi di  matrice bergamina nel periodo antecedente la seconda guerra mondiale. Su 233 ditte con un cognome nella propria denominazione, 110 sono riconducibili a detta matrice. Quasi la metà.  

Tabella – Caseifici “bergamini” in provincia di Milano  (Annuario industriale della provincia di Milano, Edito dalla Confederazione fascista degli industriali della provincia di Milano, Milano,1939)

CognomeOrigineCaseifici n.
InvernizziValsassina – V.Imagna28
LocatelliValsassina – V. Imagna – V.Taleggio12
Vitali + De VitaliV.Taleggio10
ManzoniValsassina -V.Taleggio – V.Imagna9
Ticozzi + TicozzelliValsassina5
DanelliV.Taleggio4
StracchiAlta V. Brembana4
CattaneoAlta V. Brembana3
ValsecchiValsassina – V.Imagna3
ArioliAlta V. Brembana2
CacciaGandino (V.Seriana)2
MiglioriniAlta V. Brembana2
Mor StabiliniAlta V.Seriana2
PapettiAlta V.Brembana2
Plati + PlattiValsassina2
Redondi + RotondiV.Taleggio2
Sfondrini + FondriniAlta V. Brembana2
BellavitiV.Taleggio1
BonettiAlta V. Seriana1
BuzzoniValsassina1
CalviAlta V. Brembana1
ChiaveriV.Taleggio1
CombiValsassina1
DedèAlta V. Brembana1
DevizziValsassina1
MorettiAlta V.Brembana – V.Seriana1
OldaniV.Taleggio1
RebuzziniV.Taleggio – V.Brembana1
ScandellaValsassina/V.Seriana1
SconfiettiAlta V. Brembana1
ScorlettiAlta V. Brembana1
ZenoniLeffe (V.Seriana)1

La presenza dei caseifici “bergamini”, che in molti casi sono ancora attivi all’interno delle cascine, è legata ai due “poli” della valle del Ticino e della Martesana, alle zone quindi della linea delle risorgive, e dei navigli (al tempo stesso canali di irrigazione e importantissime vie di trasporto (vedi qui il mio saggio: “I navigli vie di acqua e di latte. O meglio di caci e stracchini”).  Qui sorsero anche le prime industrie casearie (ad Abbiategrasso e Magenta più che stabilimenti depositi di raccolta della produzione  artigianale dei bergamini da parte delle stesse grosse ditte). 


I bergamini e i lattai di matrice bergamina sono quasi assenti a Nord di Milano in ragione dell’assenza, mancando l’irrigazione (almeno sino alla realizzazione del canale Villoresi) di grosse cascine ad indirizzo misto (foraggero e cerealicolo). Qui vi erano parecchi caseifici gestiti da famiglie dell’alta Brianza dove non era assente una tradizione locale di caseificio (vedi il formaggino di Montevecchia).

Inzago (Martesana): qui si trovano ancora aziende che praticano la transumanza. Come la famiglia Cattaneo che alpeggia a Cambrembo, in alta Val Brembana, da dove è originaria (come Carlo Cattaneo)


Se ci spostiamo nel Novarese, una statistica di diversi anni precedente (1905) attesta una schiacciante preponderanza dei produttori caseari di origine bergamina. Sono 113 su 168. Per di più tra gli altri produttori parecchi hanno cognomi brianzoli, comaschi, milanesi, pavesi. 

   Tabella – Caseifici “bergamini” in provincia di Novara

L. Richter, Guida Tecnica Industriale dei Circondari di Novara, Domodossola, Pallanza, Varallo, Tipografia Gioachino Gaddi, Novara 1905. Prima edizione.

CognomeOrigineCaseifici n.
InvernizziValsassina – V.Imagna35
Ticozzi + TicozzelliValsassina16
Arrigoni + ArrigoneValsassina – V.Taleggio14
GalbaniValsassina9
AnnovazziValsassina – Alta V. Brembana8
CombiValsassina5
LocatelliValsassina – V.Taleggio – V.Imagna5
CasariValsassina4
GipponiV.Brembana4
RosaValsassina3
BergaminiValsassina/Ardesio (Alta V.Seriana)2
OrlandiValsassina2
ZanottiMedia V. Seriana2
BonettiAlta V. Seriana1
MerloValsassina1
SantiAlta V. Brembana1
ScandellaValsassina – V.Seriana1
ZanettiAlta Val Seriana1

Tra i produttori caseari di matrice bergamina nel Novarese predominano in modo schiacciante i valsassinesi (concentrati nell’area di Abbiategrasso). Anche nella precedente statistica milanese avevamo notato una forte presenza valsassinese ma bilanciata da una significativa presenza dei taleggini e di originari dell’alta val brembana, con qualche caso di matrice seriana. Anche a Novare, in ogni caso, non è trascurabile la presenza di originari dell’alta val Brembana e della val Seriana. Il caseificio Santi di Cameri, fallito qualche anno fa, è la testimonianza più importante. Non a caso i Santi (Sàncc) sono presenti nella statistica del 1905.

Oggi la presenza valsassinese a Novara è manifesta nella presidenza (riconfermata) del Consorzio del Gorgonzola in capo a Renato Invernizzi. La ditta SI (di cui era titolare Renato) è però stata acquistita la scorsa estate (come in precedenta la Santi) dal gruppo IGOR, ormai leader incontrastato nel mondo del gorgonzola.

Si mantengono indipendenti, nel mondo del gorgonzola, gli Eredi Baruffaldi, anch’essi originari di Barzio in Valsassina.

Tornando nel Milanese tra i piccoli caseifici di origine bergamina troviamo i Papetti di Liscate, alle porte di Milano (presenti a Liscate nella statistica del 1939) che continuano con successo a produrre il loro stracchino da generazioni.

A produrre gorgonzola nel milanese, ad Abbiategrasso ci sono gli Arioli, famiglia tra le più blasonate per le secolari transumanze da Piazzatore (e in minor misura Mezoldo), entrambe località dell’alta val Brembana, e la Bassa. A Gorgonzola  non c’è più nessuno (anche in conseguenza dello scontro tra il comune e il consorzio sulla deco “stracchino di Gorgonzola”).

Il nome Arrigoni è tenuto alto da diverse ditte. La più grande e la Arrigoni Battista di Pagazzano nella bassa pianura bergamasca . La bassa pianura bergamasca con Caravaggio, Treviglio, Fornovo San Giovanni, Calvenzano, Pagazzano, ha costituito  – in parte costituisce ancora – un  formidabile quadrilatero del latte con Melzo/Gorgonzola, Lodi e Crema/Pandino.

Tra le ditte Arrigoni va ricordata la Arrigoni Sergio di Almè e, più recente la casArrigoni che ha il merito di aver mantenuto la sede  nella frazione Peghera di Taleggio (dove c’è anche la ditta Arnoldi). In CasArrigoni lavorano sia Tina che Marco, figli del fondatore Giovanni. Il titolare è Alvaro Ravasio, marito, di Tina che – a differenza di tanti che sono scesi in pianura – si è stabilito in montagna affascinato dall’attività del suocero e della moglie. Alvaro è presidnete del consorzio dello strachitunt, il “gorgonzola dei bergamini”, quello a due paste, nato quando non esistevano frigoriferi e spore di Penicillium.

E il nome Invernizzi, quello che identifica, più di ogni altro, i transumanti (indicati come “quelli che vengono in inverno”, gli invernali, con attributo poi cognominizzato), hanno ancora un nesso con la realtà casearia. Non sono poche le piccole realtà che possono vantare il blasone Invernizzi nella denominazione della ditta. Tra queste, in Valsassina, culla del caseificio bergamino, la Daniele Invernizzi, capace di fare della tradizione un elemento di innovazione, sia sul piano del marketing (nomi dei formaggi, confezioni con riferimenti storici) che sul piano della tecnica di produzione basata sull’uso di latte km 0 e sulla stagionatura nelle classiche “grotte” della Valsassina, veri frigoriferi naturali dove, dalla roccia viva, spirano correnti a 7°C.

Gabriele Invernizzi, figlio del fondatore Daniele (di famiglia di transumanti), con Gualtiero Marchesi e il formaggio del Lasco, un brigante valsassinese entrato nella leggenda

La grotta della Daniele Invernizzi a Ballabio (il caseificio è a Pasturo). A Ballabio avevano casere di stagionatura i Locatelli, la Galbani e tante altre ditte ora dimenticate. Erano decine le “grotte” per la stagionatura del gorgonzola, prima chge, negli anni Trenta, la filiera si spostasse a Novara dove erano state realizzati grandi magazzini refrigerati sotterranei presso lo scalo ferroviario. E’ la storia che rivive in questa grotta.


Perché solo piccoli caseifici possono chiamarsi Invernizzi? Perché il marchio Invernizzi, acquisto dalla Kraft (oggi della Lactalis), rivendicava l’esclusiva contro i tanti  produttori caseari di cognome Invernizzi. La Kraft ha tollerato i piccoli ma ha imposto il suo assurdo monopolio ai grossi. Fare formaggio è “mestiere da Invernizzi”. Abbiamo già visto che a Novarea la Invernizzi si è chiamata SI. Un caso analogo, ma ancor più clamoroso è quello della INALPI di Moretta (Cuneo).   Un marchio che oggi sfrutta il richiamo alle “Alpi” , un fatto non da poco perché l’onnipresente Kraft (ciocolatto) utilizza solo latte “alpino”, e Cuneo – anche l’altopiano – è ricompreso nell’area. La ditta, però, era nata con il nome del fondatore  Egidio Invernizzi.

Lo stabilimento INALPI a Moretta (Cuneo)

Oggi Egidio. che a un certo punto decise di rinunciare alla battaglia legale caratterizzata da alterni pronunciamenti, si consola sostenenendo che, dopotutto, la ditta era giovane, fondata nel 1966 e che non era un gran capitale di marchio. Però il nome Egidio, rimanda al grande Galbani e coniugato con il cognome Invernizzi è un concentrato di grande tradizione casearia. In ogni caso oggi l’INALPI, gestita dai figli di Egidio, è una grande azienda dinamica. Ma nel solco più puro della storia dei bergamini e del caseificio lombardo. Un caseificio che in terra piemontese è rappresentato anche dai Biraghi (evidentemente per il latte i lombardi hanno una vocazione particolare) e, nella forma moderna, industriale, è stato portato dai Locatelli. I Locatelli in Piemonte hanno impiantato, sin dagli anni Venti del Novecento, ben sette caseifici. Il più importante era quello di Moretta.


La storia di Egidio Invernizzi e della Inalpi.  Abbiamo già visto che il nonno di Egidio era un lattaio “nomade” (come tutti i laté bergamini). Un altro figlio del  Pedron  era Battista che vediamo nella foto sotto. Siamo negli anni Venti e la foto è stratta da La Campagna, organo della Cattedra ambulante di agricoltura di Como (none sisteva la provincia di Lecco). Fatto eccezionale il bergamino Invernizzi Pedron si era meritato un articolo . Nella foto è ritratto nella classica posa, con la scussala (il grembiale da casaro) arrotolato sul fianco. Sullo sfondo il Pizzo dei Tre Signori. L’alpeggio è Sasso che era proprietà della famiglia Invernizzi Pedron. Chi pensa ai bergamini come a dei “poveri allevatori di montagna” sbaglia tutto se confonde la loro vita dura, la loro “rozzezza” (molti si recavano anche in piazza Fontana a Milano a fare mercato – ancora negli anni Trenta – con gli zoccoli di legno, il bastone il tabarro) con una condizione misera e  mancanza di intraprendenza.

Non pochi, come i Pedron avevano anche parecchi terreni in montagna.  I  Pedron, in particolare,  avevano  (c’è tuttora) una cappella al cimitero di Barzio essendo tra i più grossi proprietari di terreni e di immobili del paese. I bergamini erano gente dura e parsimoniosa, che badava al sodo, ma non erano privi di intraprendenza. La vita nomade gli impediva di spendere in beni di consumo (vestiti, arredamento) , così i guadagni andavano tutti nell’ampliamento della bergamina  (grande onore era avere  più di 100  capi)  e nella tesaurizzazione (sino a tempi recenti in monete d’oro). Quest’ultima era necessaria per ricostituire la mandria in caso di epidemia (l’afta epizootica picchiava duro). Così vendendo dei capi e utilizzando il “tesoretto” i bergamini, con lo stupore di chi li considerava dei “poveri montanari” sempre con la puzza di vacca addosso, erano in grado, al momento buono, di acquistare anche dei fondi in pianura. Va notato, però, che al insieme all’abbigliamento montanaro, indossato con orgoglio, i bergamini esibivano  catene d’oro dell’orologio, orecchini d’oro (una vecchia tradizione contro il malocchio), gilè. Durante la transumanza, che era una specie di festa e motivo di ostentazione (specie delle belle vacche e dei costosi campanacci) il bergamino si vestiva al meglio, così questi bambini come questi ritratti a Taleggio in partenza per la pianura .



Tornando a Egidio Invernizzi egli ricorda che, da figlio di un laté, gli toccava da ragazzo pulire le baste dei maiali. Nel frattempo si dedicava agli studi. Dopo il diploma di ragioniere si recò all’estero acquisendo una specializzazione in tecnologie casearie di prim’ordine  in Germania (dove si iscrisse a una scuola superiore di caseificio non avendo ancora i requisiti di età minima), in Olanda e in Nord America. Con il curriculum acquisito non ebbe difficoltà a entrare alla Locatelli, prima della vendita alla Kraft. Una mano la ricevette da degli zii, uno capo del personale, l’altro della contabilità che erano uomini di fiducia di Locatelli, gente di Ballabio, valsassinesi. Non andavano diversamente le cose alla Galbani e alla Invernizzi: se eri di famiglia bergamina o solo di paesi come Morterone (dove erano quasi tutti bergamini e in larga misura Invernizzi) il posto era assicurato, anche senza cv. Dal magazziniere al direttore. Dopo essere stato a Vevey  per dei corsi dalla Kraft,  nel frattempo subentrata alla guida della Locatelli, al rientro Egidio viene destinato allo stabilimento di Moretta, che sarà per lui fatale. Qui conosce la futura moglie, figlia di commercianti di bestiame. Con lei  deve però trasferirsi a Soncino (Cremona), dove c’era un altro stabilimento Locatelli con il ruolo di direttore. Qui, però si rende conto che la disciplina di una multinazionale svizzera non è compatibile con l’indole indipendente di un bergamino; torna a Moretta e avvia, partendo quasi dal nulla. una sua azienda favorito anche dalle relazioni acquisite nella sede di Moretta della ex-Locatelli (oggi acquisita dal pastificio Rana). E così dalla Locatelli è sorta una nuova grande Invernizzi. Peccato che non possa chiamarsi così. Ma essa rappresenta un capitolo in linea con una grande storia di imprenditori con le radici in montagna o meglio nella transumanza: da Egidio a Egidio.