Celebrare le transumanze: i bergamini lombardi


(26.12.19) La transumanza ha veramente meritato di essere proclamata “patrimonio dell’umanità”. E’ bene ribadirlo in un contesto in cui questi riconoscimenti appaiono ormai sempre più inflazionati e le attribuzioni largamente influenzate da fattori politici. Oggi, però, il riconoscimento Unesco ha ancora un valore (che diminuirà inesorabilmente con la moltiplicazione dei riconoscimenti). Di certo catalizza l’attenzione del pubblico e delle istituzioni. Tutto ciò va utilizzato per far emergere i contenuti che danno sostanza ai “patrimoni”. Nel caso della transumanza siamo di fronte a un valore che non è difficile provare. Lo attesta la sua antichità, la sua diffusione, il suo influsso economico, sociale, culturale, la sua grande varietà.

Varietà, per l’appunto. L’immagine stereotipata è però legata ai “belanti fiumi lanuti” ma la transumanza ha coinvolto e coinvolge altre specie animali. Nelle Alpi essa ha riguardato (e riguarda ancora, sia pure in misura ridotta) anche lo spostamento dalla pianura alla montagna di mandrie di vacche da latte con i loro muggiti e scampanii. Con il declino dell’industria laniera in età moderna, soprattutto con la limitazione della filiera delle lane “nostrane” a un comparto  minore del lanificio , destinato al settore di mercato delle divise militari e dei panni “grossolani” per i contadini, l’importanza economica della transumanza bovina, legata alla produzione casearia, ha sorpassato ampiamente nelle regioni alpine italiane l’importanza economica della transumanza ovina.

Particolarmente importante da questo punto di vista è stata la transumanza dei bergamì delle valli orobiche (dalla Valsassina alla Valcamonica) di cui tratta l’efficace compendio di Antonio Carminati, direttore del Centro Studi Valle Imagna, che qui presentiamo. Questa transumanza, che proveniva anche dalle valli bresciane (Trompia e Sabbia), è stata praticata dal Quattrocento a tutto il Novecento ed è grazie ad essa che si è sviluppata la moderna industria casearia lombarda. E’ dai transumanti che discende in larga misura il ceto agricolo attuale della bassa pianura lombarda che si è formato attraverso il continuo secolare passaggio dei bergamini nelle file della categoria dei “fittavoli”, un passaggio che si è fatto più imponente dopo le due guerre mondiali quando i bergamini sono diventati spesso anche agricoltori proprietari.

L’importanza della transumanza dei bergamì va oltre l’aspetto economico. Essa rappresenta un capitolo importante di storia sociale in forza dei legami che la transumanza ha stabilito tra montagna e pianura, tra vallata e vallata, tra le stesse provincie di pianura. I bergamì attraverso i loro spostamenti (potevano svernare un anno nel pavese, l’altro nel milanese, un anno nella bassa bresciana e l’altro nel lodigiano), attraverso i matrimoni, estendevano i ceppi famigliari su più valli e più aree della bassa, creando una rete di connessioni.

Una storia ancora misconosciuta, specie alla luce della sua significativa valenza socioculturale. Nonostante che, almeno da quindici anni a questa parte, il Centro Studi Valle Imagna e, dal 2014, il Festival del pastoralismo di Bergamo, operino attivamente per la sua divulgazione.

L’attenzione che il riconoscimento Unesco della transumanza, ma anche quello, sempre da parte dell’Unesco, di Bergamo quale città creativa per la gastronomia (grazie ai formaggi delle valli orobiche nati dalla tradizione bergamina), fanno ben sperare sulle possibilità di operare nel 2020 una svolta ai fini di un meritato riconoscimento da parte di istituzioni e comunità lombarde della storia singolare e importante dei bergamini che sono al tempo stesso: “veramente figli delle nostre montagne” (come diceva l’etnografo bergamasco Volpi) ma anche figli delle nostre pianure, veramente figli della Lombardia, un paese in realtà molto più unito, pur con tutta la sua ricchezza di differenze e policentrismi, di quanto esso si percepisca. E i bergamini stanno a ricordarcelo o, meglio, a farcelo scoprire.
La transumanza dei bergamini orobici patrimonio culturale immateriale dell’umanità



di Antonio Carminati

N.d.r.  nel testo l’autore utilizza le forme della parlata della valle Imagna. La parlata dei bergamini di altre valli poteva presentare forme diverse. Per tutti valeva poi una più o meno ampia contaminazione con le parlate della pianura come conseguenza di una lunga frequantazione.
Negli ultimi mesi sono balzati agli onori della cronaca alcuni fenomeni sociali ed economici, sedimentati nel corso dei secoli e connessi alla straordinaria fioritura di attività zoo-casearie, che hanno richiamato l’attenzione sulla dimensione rurale delle valli orobiche. Innanzitutto il riconoscimento di Bergamo quale “Capitale europea dei formaggi”, con le sue nove Dop, rispetto alle cinquanta esistenti su tutto il territorio nazionale, e le ulteriori trenta produzioni storiche che rendono straordinariamente articolato il paesaggio del gusto. Poi è intervenuta la dichiarazione di Bergamo quale “Città creativa Unesco per la gastronomia”. Infine la dichiarazione ufficiale, sempre targata Unesco, della transumanza quale patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Tre elementi strettamente correlati, i quali, per quanto ci riguarda, mettono in relazione i prodotti caseari con territori ben definiti e la tradizione umana e professionale dei malghesi. La cultura dei bergamini esprime la vita e il lavoro di gruppi transumanti sostenuti da un’economia zoo-casearia, dei quali Bergamo rappresenta la principale culla storica e culturale. Al centro di questo nuovo interesse, ancora prima dei formaggi, certamente espressioni eloquenti di una articolata capacità produttiva, ci sono le persone, i bergamini, che, soprattutto nel passato, hanno saputo esprimere elevate e ingegnose attitudini professionali, instaurando relazioni coerenti e sostenibili col loro ambiente umano durante il regolare succedersi delle stagioni. Una corporazione costituita da gruppi familiari seminomadi, abili allevatori di vacche da latte provenienti dalla montagna, transumanti dal monte al piano seguendo le stagioni, specializzati nella lavorazione del latte, dotati di una propria organizzazione sociale e di un particolare codice linguistico. Quello del bergamino transumante è innanzitutto uno stile di vita.

Attrezzi per la lavorazione del latte. Sant’Omobono, 1927. Fotografia di Paul ScheuermeierIn un suo scritto pubblicato nel 1930 sulla Rivista di Bergamo, Luigi Volpi così descrive i bergamini: “Veramente figli delle nostre montagne sono questi uomini rudi e solitari che portano il nome della nostra terra quasi a significarne una caratteristica […] E quando «i bergamì» chiudono la loro giornata raccogliendosi nella baita a pregare Iddio che ha loro dato prosperità e salute essi devono sentirsi figli prediletti della terra nostra, che madre generosa dà loro il pane e l’esistenza serena e libera. Negli stessi anni in cui Volpi descriveva i bergamì, per la precisione solo tre anni prima, il linguista ed etnografo svizzero Paul Scheuermeier compiva la sua straordinaria ricerca sul mondo contadino italiano, costituendo un archivio di ineguagliabile valore. Le immagini relative ai bergamì che vi proponiamo in questo racconto non sono molte ma, ma rappresentano documenti importanti su un fenomeno che ebbe lunga durata e vasta estensione ma che è rimasto largamente “sotto traccia”. Da anni il Centro Studi Valle Imagna, insieme ad alcuni studiosi, ha intrapreso un programma di ricerca e divulgazione su un capitolo di storia sociale lombarda, quello dei bergamì, la cui importanza viene via via confermata dal progresso delle indagini.

Contadino intento a “bàt la ranza”. Sant’Omobono, 1927. Fotografia di Paul ScheuermeierPer i bergamini la società era suddivisa in tre principali gruppi: c’erano innanzitutto loro, ai livelli più elevati della scala sociale dell’antico mondo contadino, in continuo movimento stagionale tra la montagna e la pianura, grandi camminatori di un tempo, allevatori di monte dotati di grandi aperture verso la realtà esterna, situata al di là della loro culla naturale circondata da crinali.Continue e affinate relazioni sociali hanno consentito loro di padroneggiare dovunque andassero, di cascina in cascina alla Bassa, di pascolo in pascolo sulle alture, con abilità e coraggio. Sono stati veri e propri imprenditori nel settore zoo-caseario, molti dei quali hanno dato origine a tradizioni economiche familiari di prim’ordine. Poi c’erano i marà, ossia i piccoli allevatori di monte rimasti per sempre ancorati nel loro piccolo mondo antico, espressioni della piccola proprietà contadina della montagna orobica, agganciati a un economia molte volte di sussistenza, i quali non avevano avuto la forza o la necessità di scendere dai monti al piano con il loro modesto allevamento zootecnico. Anch’essi praticavano forme di transumanza interna alla valle, dalle contrade in prossimità del villaggio di residenza durante la stagione invernale, sino ai pascoli di monte, nei löch [letteralmente “luoghi”, i maggenghi] anche molto distanti, durante l’alpeggio estivo. Infine i móch erano i braccianti o semplici agricoltori della pianura, considerati i servi della terra, che peraltro non possedevano, vivendo in uno stato di pesante soggezione nei confronti dei padroni, espressioni dell’antica nobiltà terriera di estesi latifondi, o dei loro diretti intermediari e fittavoli. Il loro limite consisteva nel non aver mai respirato l’aria di libertà della montagna e di non essere riusciti ad affrancare la loro esistenza nemmeno alla piccola proprietà contadina.Dice bene un caro amico – classe 1933, nato e vissuto da bergamino – quando afferma che la montagna, se per un verso riempie i polmoni di aria fresca di libertà, in modo particolare l’estate durante l’alpeggio, dall’altro, tutte le mattine, al risveglio, ti dice già quello che quel giorno non puoi non fare. Mungitura, lavorazione del latte, pascolo delle vacche, e pi di nuovo la ripetizione nel pomeriggio delle medesime azioni. Sempre, tutti i giorni, per tutta la vita. A riempire gli spazi intermedi, poi, ecco una miriade di altre attività, connesse e accessorie a quelle principali, come fà la fòia, bàt dó ol rüt [raccogliere la foglia per la lettiera, spandere il letame], curare la vacca colpita da ü culp de mòrbe [mastite], consegnare gli stracchini ai commercianti,…

La lavorazione del latte in alpeggio. Borno, 1920. Fotografia di Paul ScheuermeierOl cagièr (quel bergamì specializzato nella lavorazione del latte) ha tra le mani un mastello basso di legno sopra la grossa culdìra [caldaia] di rame appesa alla sigógna, il braccio orizzontale di legno girevole, imperniato su un altro verticale, utilizzato per avvicinare e allontanare la caldaia dal fuoco, in relazione alle esigenze derivanti dall’attività di caseificazione. All’intorno sono presenti alcuni attrezzi utilizzati dal casaro, come lo spino, un grosso penàcc (la zangola) e il caratteristico secchio per la pesa e il travaso del latte. Al termine della cagliata, dopo aver riposto la pasta ancora calda, avvolta nel patì [tela], dentro il fassaröl [fascera], il bergamì trasporta, avvalendosi delle due sègie [secchi di legno]  appese al bàsol [bilancere],ol pastù [beverone] per i maiali (la pòrca coi purselì) [la scrofa con i suinetti], da versare nell’àlbe [truogolo] scavato in un grosso tronco. I maiali, liberi in alpeggio con le vacche, accompagnano sempre la bergamina [mandria] e vengono allevati con il siero residuo ottenuto dalla lavorazione del latte. Prima di lasciare l’alpeggio per la pianura, durante la stagione autunnale egli porta a termine lo spandimento del letame nei prati migliori, avvalendosi del dèrel dol rüt [cesto del letame], e il riordino della baita, dove farà ritorno la stagione successiva.

Vita in alpeggio. Gandino, 1932. Fotografia di Paul ScheuermeierIl bergamì vive sui monti – da giugno a settembre – assieme alla sua bergamina (la mandria delle vacche e manze) e i rifornimenti di generi alimentari di prima necessità (soprattutto la farina gialla per la polénta) avvengono a dorso di asini e muli. Così pure il trasporto di utensili e materiali vari. Quella del mulattiere è una professione che si trasmette di padre in figlio. Al ritorno dal monte, poi, i quadrupedi scendono carichi di cassette di stracchini o di grosse ceste contenenti pesanti forme di strachitùnt. Esistono diversi basti o selle di legno per gli asini e muli da soma, in relazione al trasporto dei vari carichi.Il bergamì è il proprietario del bestiame. Alla fine dell’estate lascia le sue montagne per spostarsi nelle cascine della pianura lombarda, dove trascorrerà l’inverno. In primavera, poi, ritornerà regolarmente in alpeggio. Sul carèt [carretto a due ruote] ha caricato le masserizie essenziali. Il carro a due ruote, trainato da un solo cavallo, è dotato di un’impalcatura lignea ad arco, a volte costituita da semplici pèrteghe, [pertiche] sopra la quale, all’occorrenza, possono essere distesi i teli di copertura. Elemento distintivo del singolare viaggiatore transumante è la grossa caldaia capovolta sul carro, che il bergamì utilizza per le due cagliate quotidiane.

Bergamini. Sant’Omobono, 1927. Fotografia di Paul ScheuermeierDurante la transumanza il bergamì segue rotte e percorsi consolidati da una tradizione plurisecolare, che si snodano lungo le aste fluviali dei principali bacini idrografici lombardi (Brembo e Adda, Serio e Oglio). Queste, oltre a garantire l’approvvigionamento idrico alla famiglia e alla mandria durante gli spostamenti, facilitano l’orientamento in relazione alla localizzazione delle cascine della Bassa. La transumanza può durare da tre o quattro giorni, per coloro che si fermano nelle cascine distribuite nella cintura a Est della città di Milano (Treviglio, Rivolta d’Adda, Gorgoncola), sino a sei o sette giorni, necessari per raggiungere le aree a Sud della capitale Lombarda, verso Melegnano, e, oltre ancora, nel Lodigiano o nell’Oltrepò Pavese. La mandria non compie più di trenta chilometri al giorno e un sistema organizzato di stallazzi, distribuiti lungo le principali rotte bergamine, consentono di organizzare le tappe successive.Paul Scheuermeier ha documentato la transumanza nel 1927 dalla Costa del Palio sino a una cascina nel Cremasco della famiglia Invernizzi Pietro. Il bergamì di norma preferisce viaggiare la notte con le vacche, o la mattina di buonora, per non essere disturbato dalle automobili, e quando attraversa i centri abitati inserisce nelle ciòche [campanacci] delle vacche in cammino öna bràca de fé [una manciata di fieno], per bloccare il suono dei campanacci. Il bergamì è sempre in cammino con la sua mandria: chi in testa alla singolare caroàna [convoglio], impugnando il lungo bastone da viaggio e indossando con orgoglio la scossàla [grembiule] più bella, e chi, invece, cammina inserito a metà o in coda alla bergamina, tutti vestiti con il semplice camisòt [tipico camiciotto di tela azzurra] da lavoro e il cappello di feltro sul capo. Egli sale a caàl söl bast [a cavallo sul basto] solo per dimostrare, durante una sosta in transumanza, come cavalca in montagna, seduto su una sella imbottita di paglia, mentre il figlio porta appesa al collo la colàna [collare a spalla] del cavallo, che l’indomani servirà al quadrupede per il traino del carretto.

Il bergamino Pietro Invernizzi. Sant’Omobono, 1927. Fotografia di Paul ScheuermeierIl carèt del bergamì in viaggio segue la mandria in coda. Dietro rimane solo la pòrca [scrofa] , che fatica a camminare e spesso bisogna tirarla con una corda e spingerla di frequente con un bastone. Durante la sosta giornaliera, in corso di transumanza, mentre la mandria è al pascolo, il carro della famiglia bergamina rimane nel prato vicino alla strada. Il telo bianco che lo copre durante il percorso è stato tolto. Le gabbie con i polli, il vitellino e i bambini vengono messi a terra. Sul carro passeranno la notte le donne con i bambini, mentre il bergamì, se la gimbarda [ripiano appeso con catene sotto il pianale del carretto] è occupata dagli utensili vari, dormirà per terra, avvolto in una semplice coperta, senza mai allontanarsi dalle sue vacche. Nella notte il cammino riprenderà.

Durante la transumanza. Sant’Omobono, 1927. Fotografia di Paul ScheuermeierLa Costa del Palio, sino a tutta la prima metà del secolo scorso, l’estate brulicava di vacche al pascolo, sia sul versante verso Brumano e Fuipiano che nella valle di Morterone, verso la Culmine di San Pietro e oltre ancora. L’abbaiare dei cani e il muggito delle vacche si diffondevano nell’aria, richiamando la presenza dei gruppi di bergamini in alpeggio. Tutti i giorni, dopo la festa della Madonna del Rosario a Fuipiano (prima domenica di settembre), erano utili per la partenza, la mattina, di buonora, sempre dopo la mungitura. Pietro Invernizzi trascorreva la prima notte con la sua mandria a Selino Basso, dove il bergamì aveva avuto la possibilità di pascolare un prato fino all’indomani: in pagamento avrebbe dato al proprietario il latte munto la sera stessa e la mattina dopo. Così farà anche nelle tappe successive, fino a quando raggiungerà con la bergamina la cascina alla Bassa – da tre a sei giorni di viaggio – dove tiene una parte delle provviste raccolte in locali utilizzati l’anno precedente. Altri bergamini provenienti dalla Costa del Palio facevano la prima tappa a Ponte Giurino, dove c’era un grande stallazzo.

Durante la transumanza. Sant’Omobono, 1927. Fotografia di Paul ScheuermeierSul carro dei bergamì c’è di tutto: accanto alle masserizie della famiglia e agli attrezzi per la lavorazione del latte e la gestione della stalla, trovavano posto i bambini più piccoli, ma anche polli, maialini, vitellini nati da poco,… colmo sino all’inverosimile, tutto ricoperto dal bel telo bianco a nella parte superiore. È il carro da viaggio, una sorta di casa ambulante, utilizzato per raggiungere la cascina in pianura. Durante ogni sosta l’allevatore transumante si assicura dello stato di salute delle sue vacche e provvede alle due mungiture, quella del pomeriggio (appena giunto alla tappa) e nelle prime ore del giorno successivo (prima di ripartire di nuovo). Il bergamì si lega velocemente alla cintura lo sgabello da mungitura a una sola gamba con cinghie di cuoio. La notte diversi bergamini, quando le vacche sono radunate, le legano con d’ü cordöl [una fune]fissato a la gambìsa (l’arco di legno da mettere al collo degli animali, a guisa di collare), a un picchetto conficcato nel terreno; altri, invece, le lasciano libere nel pascolo loro assegnato, ma sempre sorvegliate a vista dal famèi [garzone].

Il bergamino Pietro Invernizzi. Sant’Omobono, 1927. Fotografia di Paul ScheuermeierAd attendere la bergamina in pianura, ecco le enormi masse di fieno frusciante accatastate sui fienili della cascina. Il cas de fé [cassero, scomparto tra un pilastro e l’altro del fienile] è il foraggio ben pressato e compattato esistente tra un pilastro e l’altro del fienile situato al primo piano. La parte esterna della mida dol fé [mucchio di fieno], sotto la gronda, si affaccia dal piano superiore verso la corte della cascina. Al piano terra c’è la stala de l’vache [stalla delle vacche] e all’intorno, nello spazio antistante, è un continuo andirivieni di persone impegnate nelle varie attività: chi è intento a trasportare secchi di latte col bàsol, mentre altri provvedono alla movimentazione di ras-ciàde [forcate]  di erba o di strame. Il bergamì era già sceso in cascina il mese di agosto per fare il contratto con il fittavolo: ora, però, si tratta di provvedere alla quantificazione definitiva del peso di ciascun cas de fé, avvalendosi dell’intervento dell’apposita squadra di taì [tagliatori], i quali provvedono a realizzare due casèle [carotaggi] in altrettante zone distinte del fienile, la prima scelta dal fittavolo, la seconda dal bergamino.

Vita in cascina. Sant’Angelo Lodigiano, 1927. Fotografia di Paul ScheuermeierGiunti in cascina, di norma ai bergamini veniva concesso il diritto di pascolo sino al 25 novembre, quando… a Santa Caterina, i àche en cassìna. Le vacche sarebbero poi rimaste rinchiuse nella stalla almeno sino a San Giorgio (23 aprile), ossia sino all’apertura della nuova stagione dell’alpeggio. Per molti allevatori rimaneva il problema di trascorrere alla Bassa gli ultimi quaranta dé [quaranta giorni] , sino a quando, ai primi di giugno, si poteva cargà mut [salire all’alpeggio]risalendo con la mandria di bruno alpine i sentieri della valle per raggiungere i pascoli ottenuti in concessione. In cascina il bergamino faceva una vita di stalla e il suo impegno principale quotidiano consisteva nella mungitura e nella lavorazione del latte, ma alla Bassa molti allevatori iniziarono a vendere il latte alle grosse aziende di trasformazione lattiero-casearia. La stala de l’vàche della cascina era molto diversa da quella di piccole dimensioni lasciata vuota in montagna e, sullo sfondo, oltre la prima porta, c’è la stala de manzète [manzette] e, più in là ancora, quella dol caàl. Il bergamì, quando può, organizza al meglio la distribuzione degli animali, tenendo distinti gli spazi per gruppi omogenei.

Vita in cascina. Sant’Angelo Lodigiano, 1927. Fotografia di Paul ScheuermeierAnche in cascina, come in montagna, l’abbeverata delle vacche avviene all’esterno, all’occorrenza anche nel grosso mastello di legno, chiamato in pianura segión [“secchione”]utilizzato in mancanza di una fontana in prossimità del pozzo, collocato di norma al centro nella corte. Non ci sono ancora le bacinelle per l’acqua applicate alla mangiatoia e due volte al giorno, mattina e sera, solitamente prima della mungitura, le vacche vengono slegate e, a gruppi di cinque o sei per volta, in relazione alla grandezza della fontana, si accompagnano all’esterno per l’abbeverata (dabbià fò i àche a bìf).

Vita in cascina. L’avveberata . Sant’Angelo Lodigiano, 1927. Fotografia di Paul ScheuermeierI fittavoli avevano stretto una formidabile alleanza con i bergamini, i quali erano costantemente deficitari di foraggio durante l’inverno e agivano da produttori di prezioso concime per campi e prati. Laggiù, alla Bassa, i bergamini, anche davanti ai padroni delle cascine, i se tuìa do mai ol capèl [non si toglievano mai il cappello, sottinteso “davanti al fittavolo o al proprietatio della cascina”], ossia mantenevano la loro dignità, grazie alla specifica forza contrattuale. Non si sporcavano le mani. Due volte al giorno il fittavolo inviava nella stalla alcuni braccianti per ripulire il letame dalla lettiera e trasportarlo nel luogo prestabilito, all’aperto – la méssa dol rut [concimaia] – dove sarebbe giunto a maturazione da lì a pochi mesi. Il trasporto del letame avveniva con la carèta senza sponde (stravacà la carèta, rovesciare la cariola), ma in precedenza si utilizzava la barèla [barella], trasportata almeno da due lavoranti.

Vita in cascina. Sant’Angelo Lodigiano, 1927. Fotografia di Paul ScheuermeierAnche nella cascina, il centro della vita del bergamì rimane sempre la stalla delle vacche. Nel contratto di cascina è previsto pure l’utilizzo di una o due grandi stanze per ospitare la famiglia transumante, ma rimangono ambienti freddi; d’accordo, c’è il focolare, ma anche la legna va razionata. La stalla, come avveniva prima in montagna, anche alla Bassa rappresenta la sala, il luogo privilegiato dell’incontro tra le persone, sino a trasformarsi in un piccolo ma efficace laboratorio artigianale. La presenza della sedèla da muns [secchio per mungere] e dol bidù dol làcc [bidone del latte], rivoltati all’insù sopra un cavalletto provvisorio, rivelano che siamo in presenta di un’attività zoo-casearia. Le donne, soprattutto la sera, sedute sulla baca [panca]posta contro il muro dell’andadüra [corsia centrale della stalla], sono intente a lavorare a maglia e a rammendare; altre, invece, sedute söl scàgn [su uno sgabello] o su qualche altro appoggiofilano la lana col füs [fuso]. La stalla si trasforma in uno spazio di socialità. Gli uomini costruiscono scope di saggina e altri piccoli manufatti di legno occorrenti per l’attività domestica quotidiana.

Pescarolo, 1927. Fotografia di Paul ScheuermeierIl bergamino vive in cascina, ma non partecipa alla vita e al lavoro quotidiano nella corte. Lui è di passaggio e, soprattutto, non è mezzadro, né dipendente. È in attesa di ritornare sui suoi monti. Mentre osserva le sue vacche nella stalla, sull’aia della grande corte alcune donne sono intente a fà sö la mèlga [raccogliere il mais essiccato sull’aia] con in mano rastèl, palòt e scua [rastrello, pala e ramazza]. Al centro c’è il pozzo, attrezzato di impianto manuale per il sollevamento dell’acqua, mentre all’intorno non mancano tettoie, granai, casa del fittavolo, portici del fienile, stalla per le vacche (in grado di contenere anche cento o duecento capi), “casa del bucato”, caseificio, abitazione degli “obbligati” o braccianti. Il bergamino anche in cascina mantiene la propria indipendenza.

Vita in cascina. Sant’Angelo Lodigiano, 1927. Fotografia di Paul ScheuermeierUn’altra stagione è passata. Il bergamì è ritornato alla vita in cascina, dove trascorrerà con la mandria e la famiglia i mesi invernali. È il tempo del riposo e del ripensamento per i tanti impegni conclusi e quelli da affrontare. Qui si confronterà nuovamente con fittavolo e braccianti. Nella stalla, sempre accanto alle sue vacche, seduto sullo scagn [sgabello], si dedica a varie attività, si intrattiene con familiari e ospiti, mentre osserva le sue mucche ruminare e vigila continuamente sul loro stato di salute… Ma già pensa alla stagione successiva, a quando cioè potrà ritornare in quota, sull’alpe, a traguardare lontani orizzonti…

Pescarolo, 1927. Fotografia di Paul Scheuermeier

Condividi:

Transumanza amara

divieto_di-transumanza.JPG

Transumanza: patrimonio UNESCO!

di Anna Arneodo (di Coumboscuro)

(17.12.19) Ho sentito con piacere la bella notizia: è un bel regalo di Natale! Mi riconosco in questo sogno di conquista di civiltà, di riconoscimento culturale, di riappropriazione di identità, di rimpianto “pietoso” di un mondo che non c’è più, ma che nostalgicamente ci appartiene.

Ma cos’è questa transumanza? È il ricordo scolastico di versi dannunziani “Settembre, andiamo. È tempo di migrare. Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori lascian gli stazzi e vanno verso il mare”?

È una bella foto di un fiume di schiene lanute o il suono festoso dei campanacci sbatacchiati da prospere vacche valdostane?

Oppure è la festa similfolcloristica di una finta transumanza ad una fiera di paese con finti pastori vestiti di camicie a scacchi e cappelli da cowboy?
Una transumanza che scorre con bellissime immagini sui media, che non puzza, che non sporca, che non porta con sé fatica, sudore, sofferenza, stanchezza.

La transumanza reale è fatta di pastori, di uomini e donne che ogni giorno faticano, si appassionano, si sporcano, si arrabbiano, si scontrano di continuo con questa società che corre in una direzione opposta e contraria alla loro, che li costringere ad essere – i pastori e non più i lupi – in via d’estinzione.

I pastori vorrebbero poter sognare un mondo bello di montagne verdi, fiumi di pecore, mucche, agnelli e vitelli, cani, campanacci, ma poi si scontrano con la burocrazia, i divieti, le tasse da pagare. «Sulle strade statali, dell’ANAS, con le bestie non puoi più passare!». Ma la transumanza, patrimonio dell’UNESCO, dove passa? Su Google, sul cellulare, sullo smartphone?

Nel momento stesso in cui il sistema costringe noi pastori e montanari a scomparire, a morire, innalza la nostra immagine stereotipa a “patrimonio dell’umanità”. Vergogna!

Anna Arneodo
Borgata Marchion 8/A- COUMBOSCURO
12020 Monterosso Gana- CN
017198744
meirodichoco1@gmail.com

Il grido di un pastore: “Non ci vogliono più!”

di Giuseppe “Pinoulin” (di Roaschia)

(20.09.19) Ho letto su La Guida, il nostro settimanale, che non vogliono più lasciar fare le transumanze. Io sono pastore, nato in transumanza tanti anni fa (e se le conto supero le 150: penso sia un record).

Ma quelli che fanno queste leggi sanno cosa sono e cosa vogliono dire? Sanno chi sono i veri custodi delle nostre montagne? Sono i pastori, i veri amanti degli animali, non gli animalisti che non hanno mai avuto una gallina, ma solo cani. Essere pastori vuol dire fare un lavoro duro senza mai fare ferie per amore degli animali. Ma sapete cosa vuol dire vietare una tradizione fatta da migliaia di anni? Le nostre città in questi anni sono piene di cani e i muri delle case sono tutti gialli e c’è una puzza che fa male. Però se non hai un cagnolino non sei nessuno e – lasciatemelo dire – è uno schifo anche per la salute dei bambini.

Sulle montagne abbiamo già il problema dei lupi che i miei colleghi pastori devono già mantenere. A me i lupi non piacciono, ma meno ancora sopporto chi li protegge. Sono un nostalgico, pastore e ho pagato anch’io le stragi fatte dai lupi.

Le nostre montagne, coltivate da contadini, margari e pastori, dai veri montanari, erano belle non distrutte dal turismo o patachin di massa. Ora, abbandonate da pastori e montanari, divengono pericolose per incidenti e alluvioni. La montagna è bella ma non va solo calpestata e si devono rispettare anche le persone che lavorano, con poche comodità e tanta fatica e con affitti mostruosi e come tetto le stelle, sempre al pericolo di fulmini o massi che ti vengono addosso.

Le industrie inquinano l’aria e i fiumi, ci fanno respirare veleni, l’odore di una mandria o di un gregge è un profumo, non adoperi la mascherina, perché è salute.
Voglio dire ai nostri amministratori: fate cose belle, meno scandali, amate e non sprecate il denaro pubblico che non è vostro, siate responsabili e pensate anche a chi, meno fortunato, mangia la paglia, ma forse vi ha anche votati.

Nelle ultime transumanze ho notato tanti giovani non del mestiere che per un giorno sono felici di fare un lavoro che noi facciamo tutti i giorni. Ricordate che il pastore e il margaro non vanno in ferie: le ferie le fanno tutte quando sono anziani e non possono più lavorare. E non fanno Natale, per servire chi mangia il
latte anche quel giorno, alle bestie non puoi portare il giornale e la TV al posto del fieno.

Il ritorno della pecora da latte

FESTIVAL DEL PASTORALISMO DI BERGAMO Il ritorno della pecora da latte nelle valli bergamasche

(31.10.19) C’e’ in vista un arricchimento ulteriore della ricchissima varietà di tradizioni e tecniche casearie delle valli orobiche, sancita dalla proclamazione di Bergamo città creativa Unesco per la gastronomia non più tardi di ieri.
Sabato 2 novembre al Parco dei colli (Via Valmarina, Bergamo) si parlerà infatti
(convegno dalle 10) delle possibilità di avviare allevamenti di pecore da latte nelle valli , si parlerà anche delle problematiche dell’allevamento di questo tipo di animale e delle razze ovine con questa attitudine. Chi seguirà la “Giornata della pecora da latte” potrà assistere alla mungitura e alla caseificazione del latte ovino. A età giornata non mancherà la polenta (monovarietale con la farina del mais antico delle Fiorine di Clusone) accompagnata da formaggi vaccini e ovini e salumi di pecora.

Una curiosità? Una moda? No, nel modo più assoluto. Il Festival del pastoralismo ha la vocazione per proporre temi storici e culturali per favorire riscoperte e rispolvero di tradizioni dimenticate. Non solo in modo fine a sé stesso ma per incentivare l’economia del territorio (agroalimentare e turistica). Il tema della pecora da latte è un tema storico serio.

Da noi la caseificazione del latte ovino declina con la modernità mentre la vacca da latte compie la sua marcia trionfale legata all’intensificazione agrozootecnica e all’affermarsi di economie di mercato. Oggi, però, sono in atto fenomeni opposti. In montagna c’è il rischio dell’abbandono se non si promuovono forme di gestione agropastorale estensiva che abbiano valore economico ed ecologico. La capra si è già presa le sue rivincite, ora è la volta del della pecora da latte. E’ un ritorno, non una novità. Pochi sanno che, sino al Trecento, anche in Lombardia (al monte come al piano) il formaggio era prevalentemente ovino. E si è continuato a produrlo sino all’Ottocento.

Si fa l’errore di considerare la produzione di latte (e formaggi) ovini una esclusiva delle regioni mediterranee. In realtà il formaggio ovino era quello più consumato nella pianura padana ma anche nell’Europa centro settentrionale sino al Trecento. Anche in Inghilterra. Da noi gli alpeggi del vescovo di Bergamo erano caricati con pecore da latte. Ma le nostre pecore sono state munte ancora per secoli.
In tempi recenti, dopo che la lana, con gli anni ’60 del secolo scorso. è crollata di valore, l pecora Bergamasca è diventata sempre più “da carne” e siamo rimasti così senza pecore d latte. Chi oggi è interessato a recuperare una nicchia produttiva con il latte e i formaggi ovini, deve quindi rivolgersi altrove. Le pecore da latte più vicine sono quelle del Piemonte sud-occidentale. Qui troviamo la Frabosana delle Alpi marittime e la Langarola delle colline. Un’altra pecora piuttosto “vicina”, simile alle precedenti e presente in pianura padana con le transumanza era la Massese. Vanno quindi conosciute per poter scegliere. Poi ci sono la Sarda, la Frisona (olandese), la Lacaune (francese), la Assaf (israeliana)


Transumanza patrimonio umanità

Tra pochi giorni la proclamazione

Manca solo l’approvazione finale del comitato intergovernativo dell’Unesco che si attende darà responso favorevole nella prossima riunione a Bogotà il 9-14 dicembre.  Intanto , relativamente alla realtà alpina, si segnala l’uscita di un volume sul tema che abbraccia diversi periodi storici e diverse regioni .

(22.11.19) Anno memorabile se, come tutto lascia prevedere, la candidatura della Transumanza a patrimonio dell’umanità, lanciata in Molise nel 2015, arriverà in porto a dicembre. Un evento che rappresenta il coronamento di un movimento di rinnovato interesse per una pratica che si sviluppò in epoche preistoriche nelle stesse aree dove avvenne la domesticazione dei principalo animali domestici e che interessa più continenti.  Alla transumanza viene assegnato un grande valore ecologico; ostacolata, guardata con sospetto, contrapposta alla più “razionale” e “ordinata” pastorizia stanziale, la transumanza si sta prendendo delle rivincite in un periodo di ripensamento critico di sistemi di produzione agrozootecnica poco sostenibili, indifferenti all’esigenza di adattamento all’ambiente e di rispetto delle culture umane. Alla candidatura italiana si erano associate la Grecia e l’Austria; in Italia al  Molise anche altre regioni del Sud, per la transumanza alpina, la Lombardia e la provincia di Bolzano.

Capire la transumanza nella sua poliforme realtà

Le transumanze assumono caratteri molto diversi a seconda della specie animale e dei contesti agricoli, orografici ecc.  La transumanza alpina, intrecciata alla pratica dell’alpeggio, non conosce (almeno in epoca contemporanea) la realtà del tratturo ma le sue direttrici sono, nonostante questo, ben strutturate. Movimenti all’interno del massiccio alpino, entro le valli, tra le valli, da una regione all’altra, dalla pianura alla montagna definiscono un sistema complesso. Pochi sanno che, in certe zone della pianura padana, convergevano pastori friulani, veneti, trentini, lombardi e dell’appennino tosco-emiliano. Anche sugli alpeggi potevano trovarsi pastori transumanti provenienti da località vicine come pastori di altre regioni. Per conoscere questa realtà è appena uscito il volume “La Transumanza tra storia e presente” edito dalle edizioni Festivalpastoralismo.

Non solo passato

Anche se meno imponente, in passato, delle transumanze tra i pascoli appenninici e le pianure delle Maremme e della Puglia, la transumanza alpina è oggi è  una realtà consistente, specie in Lombardia, con  150  mila pecore che si spostano ogni autunno e primavera tra la pianura padano-veneta e le Alpi, spesso ancora a piedi.  Ancora praticata è anche la transumanza bovina, anche se  molto ridotta rispetto al passato e quasi del tutto limitata al Piemonte. Per conoscere questa importante realtà, nella sua dimensione storica e attuale è stato pubblicato da pochi giorni un libro dalle nostre edizioni Festivalpastoralismo

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Libro-Transumanza.JPG

I contributi raccolti nel volume rappresentano nel loro insieme quanto di più organico prodotto sinora nell’ambito delle Alpi italiane sul tema della transumanza. Non mancano infatti studi specifici relativi a singole regioni o ad ambiti più ristretti e diverse pubblicazioni di carattere tecnico (sugli alpeggi), ma nessuno abbraccia l’intero Arco e l’insieme dei fenomeni qui trattati.  Qui, invece, vengono trattate le transumanze ovine e quelle bovine, la realtà dell’età moderna e quella contemporanea sino ad arrivare a considerazioni sulla realtà attuale della transumanza alpina. L’area interessata comprende la Liguria, il Piemonte, la Lombardia, il Veneto e il Friuli.

Il volume, pubblicato nel novembre 2019 consta di 217 pagine, illustrato (B/N), carta lucida, brossura. Formato 23,5 x 16, 5. ISBN 978-88-943252-1-8. Prezzo di copertina 16 €.

Acquistabile on line su questo sito (vai qui) a 16 € (spese di spedizione comprese)

Contenuto del volume

Nota del curatore p. 11

Prefazione, di Gianpiero Fumi p. 13

La gente del nomos. Note di introduzione, di Giovanni Kezich p. 15

Transumanza e pensionatico nelle alpi friulane in età moderna: validità e limiti, di Mauro Ambrosoli p. 19

 Percorsi della transumanza lungo il canale di Agordo: persistenze tra preistoria e storia, di Elodia Bianchin Citton, Italo Bettinardi, Giulio di Anastasio, Gabriele Fogliata p. 31

Strategie di posta. a pastorizia transumante nel territorio padovano alla metà del Settecento, di Daniele Rampazzo p. 47

Transumanza bovina veneta, di Sergio Varini. p. 59

La geografia storica dei pastori bergamaschi, di Anna Carissoni p. 77

La pastorizia in alta Valcamonica dal 1500 alla sua estinzione, di Giancarlo Maculotti p. 85

I ‘bergamini’: un profilo dei protagonisti della transumanza bovina lombarda, di Michele Corti  p. 95

I malghesi dell’alta valle Brembana, e di alcune aree confinanti, nelle fonti d’archivio tra fine ‘500 e fine ‘700, di Natale Arioli p. 145

La routo: un’antica tradizione documentata dall’ecomuseo della pastorizia, di Stefano Martini p. 167

Alpi marittime: alla ricerca delle transumanze perdute, di Andrea Lamberti e Walter Nesti p.171

Transumanza in Piemonte: un’opportunità multifunzionale? di Luca Maria Battaglini. p. 189

 Dove vai, pastore? Centinaia di migliaia di passi sulle tracce del gregge, di Marzia Verona p. 197

Il ‘Progetto transumanza’: alle radici dell’identità biellese, di Emilio Sulis e Giovanni Vachino p. 209

A Dalmine con Luciano Ravasio

A DALMINE PRIMA TAPPA DELLA TRANSUMANZA DEI BERGAMINI (con Luciano Ravasio)

(29.09.2020) Arrivano finalmente i meritati tributi ai bergamì, a questi personaggi così emblematici, “veramente figli della terra di Bergamo” come scriveva il Volpi nel 1930, ma che possiamo dire anche veramente figli della terra lombarda, di cui conoscevano valli e pianure. Dopo il film “L’ultimo bergamino”, proiettitato per la prima volta a Fuipiano lo scorso sabato 26 settembre (seconda proiezione a Inzago, Milano dove è stato girato, domani 30 settembre ) arriva anche la canzone. Che non poteva che essere della voce bergamasca per eccellenza, attenta alle radici rurali e pastorali della tèra de bèrghem: Luciano Ravasio. Sotto il programma della prima giornata della Transumanza dei bergamini con la tappa a DALMINE

Partirà domani dalla Trucca (nei pressi dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII), la Transumanza dei bergamini Bergamo – Gorgonzola. Non una sfilata rievocativa di pochi chilometri ma un tragitto di 40 km percorso con una piccola mandria di bovini da latte (Fabrizio Bertolazzi di Serina) reduce dall’alpeggio in alta val Brembana. Una transumanza “a scala 1:1” quindi, con tutti i problemi di una transumanza vera. A partire dalla ricerca dei prati lungo il percorso dove far sostare e pascolare gli animali e dalla ricerca di strade poco o nulla trafficate (facendo riscoprire aspetti suggestivi e inaspettati del territorio). Anche nella prima tappa Bergamo – Dalmine, pur nel contesto dell’intensa urbanizzazione si transiterà su vecchie strade campestri. A causa della visita, del ministro Manfredi all’Università, è stata annullato il passaggio per le vie di Città bassa (già percorse dalle “mini transumanze” del 2017 e 2019). Così il convoglio dei bergamini entrerà subito in territorio di Treviolo e arriverà a Dalmine (piazza del mercato e area a prato adiacente) alle 16.

Dalle 18 in piazza del mercato vi sarà distribuzione di polenta di farina di mais Spinato di Gandino condita con strachitunt dop e taleggio dop con latte della val Taleggio caseificato in val Taleggio a latte crudo (coop Sant’Antonio Vedeseta) nonché di casoncelli della bergamasca e scarpinocc di Parre conditi con burro di montagna (latteria sociale di Branzi) (accompagnamento Valcalepio doc).

Vi sarà la possibilità di acquistare formaggi, il cappello dei bergamini, il bastone dei pastori, libri. La serata della transumanza a Dalmine comprenderà la messa in scena di “quadri di vita bergamina”. Una teatralizzazione che vedrà attori protagonisti il Giopì e la Margì e il milanese Marino Zerbin. Un dialogo in bergamasco e in milanese che sottolinea come i bergamì fossero dei “ponti” tra la realtà bergamasca e qualla milanese (ma anche lodigiana, cremasca, bresciana e anche oltre).

Concluderà la serata (alle 21) Luciano Ravasio. Il noto cantautore bergamasco non poteva mancare a questo appuntamento dal momento che ha di recente composto una canzone dedicata proprio ai bergamì “cow boy nostrani a piedi” canta Tavasio (ma sempre con i cavalli e sapevano cavalcare a pelo). Il programma di Ravasio spazierà da canzoni popolari a tema a riferimenti alla recente triste vicenda Covid. Per ri-partire (come facevano sempre i bergamini anche dopo le “botte”).

Conclusa la Transumanza a Gorgonzola

(05/10/2020) Si è conclusa ieri, domenica 4 ottobre a Gorgonzola la Transumanza dei bergamini 2020. Quattro tappe per quaranta chilometri. Partita con il sole mercoledì da Bergamo è arrivata a Gorgonzola (dopo una tappa in piazza a Inzago) con un sole splendente. Solo la giornata di venerdì 2 è stata caratterizzata dalla pioggia che ha costretto ad annullare il programma serale.

Attraversando 13 comuni, nel contesto di un territorio fortemente urbanizzato, la transumanza di quest’anno – prima esperienza in assoluto di questo genere di rievocazioni in Lombardia – ha rappresentato un “collaudo” impegnativo per l’organizzazione del Festival del pastoralismo. Che è stato superato grazie all’impegno di una cinquantina di volontari aderenti a diverse associazioni.

Per il prossimo anno, con una decina di giorni di anticipo (alla sera iniziava a fare fresco e umido anche nelle belle giornate) , l’appuntamento è lungo la tratta Bergamo – Lodi.

VAI ALLA GALLERIA FOTOGRAFICA

In ricordo di Tino Ziliani

In ricordo di Tino Ziliani

Tino al primo Festival del pastoralismo di Bergamo (il “campo dei pastori” ad Astino

Il Festival del pastoralismo intende dedicare a Tino Ziliani, che fu tra gli attivi promotori della prima edizione nel 2014, un evento – dedicato alle greggi e ai pastori – da tenersi in primavera a Spirano (Bg). Tino è scomparso improvvisamente il 24 febbraio e vi è il fondato timore che anche l’anniversario non potrà essere l’occasione per quella commemorazione che gli amici di Tino aspettano. Non è certo il caso di organizzare una commemorazione online. Anche l’appuntamento di primavera, a metà aprile, non è affatto al riparo dalle misure Covid.

In qualche modo è però giusto ricordarlo – senza aspettare le calende greche – con delle qualcosa che vada al di là del necrologio. Michele Corti, presidente del Festival del pastoralismo, che ha seguito, sin dalla nascita nel 2000, l’Associazione pastori camuni (poi “lombardi”) presieduta da Tino, ha scritto una traccia di una biografia di Tino che potrà essere ampliata quando sarà possibile spostarsi, incontrare di persona i parenti, gli amici, i tosatori, i pastori e ricostruire la sua figura come essa merita.

Tino Ziliani e l’Associazione pastori lombardi (in ricordo di un pastore)

Super transumanza a Lecco

3000 pecore passano in città 

(20/05/2020) Lecco sfida Madrid e Marsiglia.  Sabato 23 maggio, in mattinata, passeranno dal centro di Lecco 3200 pecore dei pastori Galbusera, dinastia (alla quinta generazione) di pastori brianzoli doc. Sono diretti ai pascoli della Valsassina. E’ la prima volta che i tre greggi dei Galbusera effettuano la transumanza insieme. Uno spettacolo da non perdere. Ma sapevate che a Lecco c’è la Via delle Pecore e che …

La transumanza a Marsiglia

(21.05.20) Lecco città di transumanza. Oggi è vista come un fatto curioso, una novità. Forse c’è più interesse per il fiume che cammina belante di qualche tempo fa. Non pochi anni fa le pecore erano considerate un residuo arcaico di un mondo che era meglio archiviare, che “disturbava”, che sporcava, che puzzava. Non è un fatto locale ma epocale, globale, l’effetto della post-modernità o, se si vuole, del rigetto di una modernità ormai estrema e dagli sviluppi inquietanti. Non a caso l’Unesco il 19 novembre scorso ha dichiarato – tra le troppe cose che inflazionano il riconoscimento un tempo prestigioso – la transumanza “patrimonio immateriale dell’umanità”. In Italia non si è fatto molto per divulgare e celebrare questo evento. Poi è venuto il virus. Ora a Lecco la super-transumanza inedita è anche festa per il riconoscimento Unesco e per il superamento della fase critica dell’epidemia.


Le pecore svolgono anche il servizio di  tosa-siepi. Scherzi a parte, oggi sono più le persone felici di questa irruzione di una dimensione diversa che quelle che si lamentano per i piccoli inconvenienti del passaggio.

Così i pastori passavano senza farsi notare, di notte. Sono da decenni che Franco Galbusera passa con le sue pecore. Oggi c’è non solo più tolleranza ma anche simpatia e il passaggio delle pecore è tornato, come da secoli, una festa. Con la gara a immortalare il gregge nell’insolito paesaggio urbano.  In questi giorni i greggi dei Galbusera si sono avvicinati a Lecco pascolando nell’alta Brianza. Domani si riuniranno a San Michele (il santuario di origine longobarda alle pendici del monte Barro, di fronte alla città). Sabato mattina passeranno il ponte Azzone Visconti e da lì attraverseranno la città in direzione Valsassina. La partenza da Galbiate sarà alle 6. Attraversato il ponte il gregge percorrerà  via Amendola, Largo Caleotto, via Tonale, via Don Luigi Monza, via Valsecchi, Montalbano, Ballabio. Quindi lo spettacolo sarà per metà mattinata. Ideale.
Sarà uno spettacolo grandioso. E’ la prima volta che tre greggi passano insieme.  Negli anni scorsi, transitavano in giorni diversi, al massimo mille pecore per volta.
Partecipare anche per un attimo fuggente a un evento chr trasmette il senso di un ritmo che non si arresta, che continua ad essere cadenzato con la crescita dell’erba,  con una epidemia non ancora archiviata, è oggi quanto mai terapeutico. Ma è anche occasione, al di là delle sensazioni, della dimensione emozionale, per riflettere sulla relazione tra la città e la montagna, tra il presente e il passato. Per chiederci anche che futuro vogliamo.


Franco Galbusera, famiglia di pastori brianzoli, oggi ha residenza a Pasturo

Lecco città di transumanza?

Riprenderemo subito a parlare delle pecore che attraverseranno Lecco dopodomani. Prima, però, qualche piccola considerazione storica per capire perché Lecco non è solo la città della transumanza delle foto sui social ma lo è anche in ben altri termini.  Se Bergamo è la capitale indiscussa della transumanza del Nord Italia, anche Lecco e Brescia, città pedemontane, sono a pieno titolo città di transumanza (come in Piemonte Biella, Saluzzo, Mondovì).  Il fatto che sembri strano è dovuto solo a una percezione distorta. Ferro e formaggio, ferro e transumanza  sono stati un binomio indissolubile. Però ci si ricorda solo del ferro. Eppure minatori e pastori usavano gli stessi alpeggi. Padroni dei pascoli e delle miniere erano spesso gli stessi personaggi (i Manzoni tanto per non far nomi). Per secoli ferro e transumanza si sono date il cambio: quando era in crisi una delle due attività la valle si spostava sull’altra (notiamo che in passato la Valsassina iniziava a Lecco e finiva a Bellano perché “valle” era un concetto etnostorico, non di pedante idrografia).  Lecco è stata la capitale del formaggio. Ma non lo sanno neppure i lecchesi (il formaggio è anche un fatto silenzioso – lavorano i microbi – tutto all’opposto dei vulcanici altiforni che hanno alimentato le mitologie del Novecento, in versioni di “destra” e di “sinistra”).
La sede attuale della provincia è la Villa Locatelli, dinastia di formaggiai valsassinesi con origini nella transumanza. Il senatore Umberto Locatelli, morto nel 1958, titolare della ditta, fu personaggio importante in città, donò importanti opere pubbliche, fu pres. del Cai e dell’Ana, realizzò rifugi. I Locatelli erano anche allevatori (a Ballabio, al prato della Chiesa) e contruibuirono come pochi al progresso zootecnico. Anche sponsorizzando la Fiera di Lecco, che anche nel dopoguerra vedeva larga presenza di animali.


Il Caleotto, complesso industriale che ha segnato la storia sociale di Lecco

Se la Locatelli divenne la più grande ditta casearia dopo la Galbani (sempre di qui e sempre con quelle origini), fino agli anni ’30 non poche e non poco importanti erano le ditte casearie cittadine. Il gorgonzola arrivava a fiumi alla stazione di Lecco (il 20% del volume del formaggio italiano passava di qui), ma il grosso saliva in Valsassina nelle famose casere. Pochi sanno, però, che vi erano altre ditte importanti di gorgonzola a Lecco: la Corti a Castello (con grossi magazzini-casere a Balisio), la Milani in via Belvedere (con magazzino-casera con tanto di ghiacciaia, con macchina del ghiaccio made in Lecco).  Nel 1927 Filippo Tommaso Marinetti gratificò i  lecchesi che, al contrario di altri, non avevano fischiato una sua opera teatrale: Lecchesi, geniali amici del ferro veloce e del formaggio fortificante. Parole futuriste che esaltavano il formaggio. Una cultura della modernità ben diversa da quella di tempi a noi più vicini.

Lecco negli anni ’30 dell’Ottocento (si nota il tracciato nella nuova strada del lago di Como e dello Spluga, per quei tempi una vera autostrada). Pallino rosso Osteria del Vincanino (oggi via Vincanino), pallino giallo Via delle Pecore, pallino blu l’area di sosta dei bergamini lungo il Gerenzone.

La transumanza tra la Valsassina e la Brianza è fatto che anticipa i tempi storici, ma ben documentata è la transumanza moderna, a partire dal tardo medioevo, tra la Valsassina e la bassa pianura lombarda. La transumanza dei bergamini, con le vacche da latte, è continuata sino agli anni ’60. Ma subito dopo la guerra le vacche arrivavano già in treno, sbarcando, con indescrivibile confusione (e “imboasciamento”) alla stazione, poi, dal 1953, hanno continuato per un po’ in camion. Prima dell’espansione urbana vi erano possibilità di sosta nei prati nei pressi del borgo lungo il Gerenzone (viale Turati).

Quei greggi inarrestabili

La transumanza ovina non si è mai interrotta. Chissà a cosa si deve la dedica alle Pecore dell’omoniva vietta (molto tortuosa e pedonale) sull’antica via che scendeva la valle del Gerenzone in sponda destra (opposta a Castello, per intenderci). Va detto che le vacche sono meno agili e più ingombranti e che i bergamini, dalla metà dell’Ottocento, erano dotati del carro a due ruote, con una copertura in tela bianca sortretta da céntine come i carri del Far west americano). Così il bergamino scendeva (e saliva) lungo la strada principale; il pastore del passato, con piccoli greggi, prendeva stradine più campestri.

Sono cambiate proprio molte cose: i greggi oggi sono di mille pecore.  Se la transumanza bovina si è intrecciata con la grande storia, con le dinastie industriali dell’agroialimentare, quella ovina, mantenendosi sotto traccia, è sempiterna. In mezzo alle grandi trasformazioni del territorio non solo riesce a trovare spazi, ma ne conquista di nuovi.

Con la cessazione delle piccole attività agricole in montagna ma anche in collina, le pecore assumono un ruolo preziosissimo di manutenzione e cura dello spazio non più coltivato. Vale per i campi, le terrazze (i ronchi brianzoli), ma anche per i pascoli e gli alpeggi. Erano tanti un tempo i bergamini che si contendevano gli alpeggi, ora tra le poche aziende zootecniche rimaste in Valsassina non tutte alpeggiano. E se non ci fossero i veri pastori i pascoli finirebbero agli speculatori che – attraverso truffe più o meno legalizzate – riecono a incassare fortissimi contributi per pascolare poco e male (talvolta per nulla). Ben vengano quindi i pastori come i Galbusera.


I Galbusera hanno tre greggi. Andrea, il figlio di Franco – quarta generazione di pastori –  nato a Colle Brianza, da tempo ha una propria azienda (a Garbagnate). Pascolano separatamente, ognuno ha le sue zone tra la bassa e l’alta Brianza. Poi a maggio, come  si è sempre fatto, si sale in Valsassina. Un gregge  pascola i piani d’Erna e la conca di Morterone, il bellissimo paesino dietro il Resegone, che un tempo era abitato da moltissime famiglie di transumanti (con le vacche da latte, bergamini).  Oggi i prati sono diminuiti moltissimo, il paesaggio si è trasformato e perderebbe del tutto le sue caratteristiche e il suo fascino se il bosco avanzasse ulteriormente. Un altro gregge pascola la zona delle Grigne. Non mancavano le pecone sulle Grigne ma utilizzavano solo i pascoli più alti e sassosi.


Pascolo a Morterone

Ora anche i pascoli disseminati di cascine delle quote più basse sarebbero incolti se non vi fossero i greggi transumanti. Il terzo gregge utilizza i pascoli della Culmine di San Pietro e di Artavaggio ai confini con la val Taleggio. Poi scende in val Brembana e risale sino in alta valle nella zona del laghi Gemelli. E’ un grande comprensorio pascolivo nelle Orobie occidentali tra Lecco e Bergamo che questi greggi mantengono. Considerato l’impegno organizzativo per gli spostamenti a piedi e con i mezzi e i benefici ambientali e paesaggistici apportati, i contributi – in casi come questi – rappresentano un giusto corrispettivo per dei servizi resi.

Bergamo capitale della transumanza

Bergamo si consacra capitale della transumanza del Nord Italia con i bergamini e la pecora “Gigante di Bergamo”

(25/10/2019) Bergamini e pecora “Gigante di Bergamo” al centro della sesta edizione del Festival del pastoralismo di Bergamo. Il Festival del pastoralismo si conferma come manifestazione che collega storia e tradizione con aspetti di attualità che riguardano anche l’economia del territorio (turismo e agroalimantere, ma non solo).

fila

Il week-end inaugurale del Festival (che si protrarrà sino al 17 novembre) segue quello dedicato ai formaggi con una edizione speciale di FORME che ha coinciso anche con il World Cheese Award e la presentazione della pubblicazione sulle Cheese valleys, le valli orobiche culla di grandi tradizioni casearie, alla base della candidatura Unesco di Bergamo a “città creativa per la gastronomia”.

Non è solo passaggio di testimone tra eventi, ma un nesso profondo che lega queste iniziative. Il Festival, infatti, celebra la transumanza dei bergamini (con la sfilata rievocativa Sabato 26 per le vie di Bergamo bassa) perché sono loro: gli allevatori-casari transumanti che per sei secoli hanno fatto i pendolari con le loro mucche tra le valli e la Bassa, ad aver posto le basi della grande tradizione casearia orobica. La sfilata termina in Piazza Pontida (mercatino formaggi delle valli, polenta)

Domenica 27 con la ormai tradizionale Transumanza delle pecore sulle mura e sui colli di Bergamo si celebra, invece, l’altro aspetto del pastoralismo e della transumanza bergamaschi: quello legato alla pecora Bergamasca (la “Gigante di Bergamo”) e al suo sistema transumante. Arrivo alle 12 a Valmarina (Parco dei colli) con degustazioni di carne di pecora bergamasca, formaggi, polenta. Qui musica tradizionale bergamasca con baghet e flauti di Pan.

Bergamo capitale della transumanza del Nord Italia quindi, perché sia i bergamini con le loro mandrie e le loro attività casearie, che i pastori con le loro pecore, hanno impresso un forte influsso bergamasco e lombardo alla realtà pastorale e casearia alpino-padana. La Mostra aperta alla Porta Sant’Agostino (inaugurazione Sabato 26 ore 18) che resterà aperta (ore 10-19) tutti i week end e il ponte dei Santi, racconta di come la pecora Bergamasca ha impresso i suoi caratteri alla generalità delle razze ovine alpine. Essa è accompagnata da due mostre che guardano alla pecora e ai pastori con occhio d’artista (opere a soggetto pastorale di Giacomo Piccinini, noto pittore novecentesco bergamasco) e foto del giovane fotografo venero Mauro Scattolini che ha seguito assiduamente due pastori dell’alta val Seriana.

Pecora animale dalle grandi utilità. Non solo carne ma anche latte e lana. Il 2 Novembre alla sede del Parco dei Colli ci sarà una Giornata della pecora da latte con un convegno tecnico, una dimostrazione di caseificazione di latte ovino e una esposizione di razze di pecore da latte (in carne e ossa e lana). Nel Festival vi saranno anche presentazioni di libri e convegni anche su questioni di attualità. “Che fare dopo la chiusura del lavaggio lana di Gandino, ultimo del Nord Italia?” (incontro il 16 pomeriggio a Porta Sant’Agostino). “Come valorizzare i greggi transumanti per la cura dell’ambiente delle aste fluviali dell’Adda e del Brembo” (incontro il 16 mattina sempre alla Porta Sant’Agostino).

vai al programma

vai al calendario

vai alla mappa

Forme, evento mondiale a Bergamo omaggia i casari Orobici

Occasione importante per dare meritata visibilità nel contesto di un evento che richiama a Bergamo formaggi e operatori del formaggio da tutto il mondo, agli abili casari di montagna e ai formaggi dall’intenso profumo di storia antica e contemporanea. Veri Prìncipi delle Orobie!

Nell’ambito di Forme, che alla Fiera di Bergamo prevede una mostra mercato aperta a tutti e una manifestazione aperta ai soli operatori del settore, ci saranno anche eventi a Città alta, al Palazzo della Ragione e nella sottostante Loggia. In particolare il 19 e 20 l’esposizione con degustazioni (aperta al pubblico e gratuita) Cheese Valleys dedicata alle eccellenze casearie delle Cheese Valleys, il progetto che candiderà Bergamo, insieme ai territori delle province di Lecco e Sondrio, come Città Creativa UNESCO per la Gastronomia.

Vai al programma ufficiale di ‘Forme 2019’

di Antonio Carminati

(12.10.19) Dal 17 al 20 ottobre prossimi, Bergamo diventa la vetrina dei formaggi di tutto il mondo. “Forme”, il progetto di valorizzazione dei “Principi delle Orobie”, ha per così dire sdoganato i formaggi prodotti su queste nostre montagne, come pure nelle cascine della piana lombarda, certificando un posto tutt’altro che marginale nel comparto lattiero-caseario italiano, riconosciuto a livello internazionale. Bergamo è di fatto la Capitale Europea dei Formaggi, con le sue nove D.O.P. casearie (rispetto alle cinquanta che si contano complessivamente in Italia) e si candida a diventare Città Creativa Unesco per la Gastronomia. Ce n’è quanto basta. Ci attendono quattro giorni di iniziative, laboratori, degustazioni, incontri, esposizioni di prodotti caseari provenienti dai vari continenti, giunti sino a Bergamo per partecipare alle “Olimpiadi del Formaggio”, che culmineranno (18 ottobre) con la proclamazione ufficiale del formaggio “Campione del Mondo”. Si confronteranno grandi brand con prodotti fatti a mano dai piccoli artigiani del cibo, mentre gastronomia e territorio, cultura e turismo avranno modo di offrire coniugazioni di esperienze e obiettivi comuni, a confronto dalle diverse regioni del pianeta.
fORME1 (1)

Forme, 2019
Ogni formaggio, fresco o stagionato, a pasta cruda o cotta, ha una propria storia, che spesso si perde nella notte dei tempi; è il frutto dell’ingegno dell’uomo, un concentrato di abilità e di saperi, di esperienze e vissuti individuali, ma anche lezione di comunità e specchio della vita e del lavoro di generazioni di uomini e donne rurali. Prodotti che si perfezionano ed evolvono in relazione ai bisogni sociali e alle aspettative mutevoli dei consumatori. La parola “formaggio” è antica, come del resto l’alimento che la identifica: formos, presso gli antichi Greci, indicava il contenitore dove veniva messo il latte cagliato, essenzialmente di origine ovina, affinché prendesse la forma. Numerose fonti storiche ci riconducono alla pratica della lavorazione del latte già dal terzo millennio a.C., in Mesopotamia.
fORME2 (1)

La preparazione della cagliata in alpeggio. Fotografia di Pepi Merisio
Per quanto ci riguarda più da vicino, di fronte al proliferare sul territorio bergamasco di una cultura casearia così diffusa e articolata in un’ampia gamma di prodotti e di sapori, non è scontata la domanda sul retroterra storico così provvido da rendere la terra orobica congeniale alla produzione di formaggi. I prodotti alimentari sono il frutto di antiche sedimentazioni e sulle Orobie la tribù di origine celtica degli Orobi, proveniente dall’Europa centrale, che nel IV secolo a.C. colonizzò pacificamente le valli bergamasche, lecchesi e comasche, praticava l’allevamento bovino, sapeva lavorare il latte, produceva quindi formaggi e burro, ed era abile nell’agricoltura, soprattutto nella coltivazione dei cereali anche sui ripidi versanti di montagna, che iniziarono a sfruttare attraverso la costruzione di terrazzamenti con muri a secco, o cigli erbosi, e terrapieni. Quella popolazione si nutriva di latte, formaggi e di carni di tutti i tipi, soprattutto di maiale, sia fresca che salata (Strabone, Geografia Universale, IV, 4,3).
fORME3 (1)

Stracchini
Diverse parole ancora oggi in uso nel linguaggio vernacolare corrente in campo zoo-caseario, come pata (pezza), paröl (paiolo), bar(montone), bàrech (recinto) bessòt (pecora), schèla (campanaccio),… hanno un’evidente attinenza celtica. Plinio (Historia Naturalis, libro III, 17), attorno al 77 d.C., descrive l’ottimo formaggio prodotto nella pianura lombarda e annota la tecnica usata dalle popolazioni che si erano stanziate tra l’attuale Valsassina, l’alta Valle Imagna e la Valle Taleggio: l’impiego di latte vaccino, il tipo di lavorazione, la forma del caseus negli stampi quadrangolari di legno, la salatura,… modalità in gran parte ancora oggi un uso. Il caseus era un formaggio fresco, ottenuto a pasta cruda, di media stagionatura, simile allo stracchino di oggi, che dalle vallate orobiche, patria di casari abilissimi e di nota fama, si diffuse ben presto in tutta la piana lombarda, attraverso l’azione dei bergamini, allevatori transumanti dal monte al piano, che nel periodo invernale scendevano con i loro armenti alla Bassa per consumare le riserve foraggere, dando vita a specializzazioni zoo-casearie, produttive e commerciali, non indifferenti, tra le quali spicca, per l’appunto, la vendita e la distribuzione di formaggi, caratterizzando e spesso monopolizzando i mercati cittadini. Forme di nomadismo stagionale connesse alla transumanza pastorale e bergamina.
FORME4 (1)

Gli stracchini di Carmela, 2016. Fotografia di Alfonso Modonesi
Un altro prodotto associato alla cultura degli Orobi è la robiola, o “orobiola”, un tipico formaggio lombardo fresco simile a una vellutata crema di latte. Anche Ateneo (Dipnosophistarum sive Coenae sapientum, libri XV, a. 204 d.C.), relazionando circa gli usi e costumi e dotti conversari di tavola tenutisi in casa del ricco romano Laurentio, illustra il famoso cacio morbido della pianura presso Mediolanum: anche qui, i processi di preparazione e maturazione descritti sono molto simili a quelli in uso ancora oggi nella preparazione degli stracchini. In seguito diverse altre fonti richiamano la tradizione casearia del cacio lombardo, da Cicerone a Marco Catone (De agri coltura), sino a Venanzio Fortunato. Quest’ultimo, caduta Roma, nel VI secolo d. C., esalta il celebre cacio lombardo, fatto di latte fresco di vacca, raccolto in stampi foderati di lino (la pàta, ossia il telo di lino entro il quale è raccolta la pasta fresca per lo spurgo). Poggiati su stuoini gli stampi, si attende che il formaggio sia asciutto per poi strofinarlo con sale e lasciar maturare tutto per trenta giorni. Il cacio è di color avorio paglierino, con sfumature di un lieve colore rosato.
FORME5 (1)

Mungitura a mano in alpeggio. Fotografia di Emilio Moreschi
Si potrebbero citare diverse altre fonti sulla lavorazione del cacio lombardo, dall’agronomo romano Marco Terenzio Varrone (De Rustica, 37 a.C.), che illustra i principali tipi di formaggi consumati nel II secolo a.C. (vaccini, caprini e ovini freschi e stagionati), documentando anche come il gusto dell’epoca fosse rivolto ai formaggi ottenuti con il caglio di lepre o capretto, sino allo scrittore romano di agricoltura Lucio Columella, che nel suo De re rustica (I sec. d.C.) illustra le tecniche di trasformazione casearia e l’uso dei coagulanti vegetali. In seguito diversi altri autori si sono occupati dell’argomento, sia nel periodo medioevale, che nella società moderna.
FORME6 (1)

La casèra d’alpeggio. Fotografia di Emilio Moreschi
Mi preme qui sottolineare la probabile continuità storica tra lo stracchino di oggi, il caseus e il cacio orobico di ieri, veri e propri beni culturali, riconoscendo all’antica civiltà di matrice celtica degli Orobi il grande merito di aver dato origine a un processo di colonizzazione sapiente delle vallate a Nord di Bergamo, nella fascia prealpina tra Brescia e Lecco; una colonizzazione che ha alle spalle duemilacinquecento anni di storia, portatrice di identità e produzioni agroalimentari ben definite e circoscritte entro chiari territori. Quei primi insediamenti umani, attraverso la pratica pastorale e zoo-casearia, l’attività agricola e di “bonifica” di ampi territori montani, hanno reso possibile e trasmesso la vita e il lavoro in montagna, che continua ancora oggi. Nella produzione dello “stracchino all’antica” (oggi Presidio Slow Food), ad esempio, si rinnovano antiche conoscenze, abilità artigianali non comuni dei casari di montagna, pratiche e comportamenti in grado di rinnovare ogni giorno quel “miracolo” esperienziale che, millenni or sono, aveva casualmente trasformato il latte in una soffice e gradevole pasta casearia, dalla quale sono scaturiti poi un’infinità di formaggi (a pasta cruda e a pasta cotta, teneri e duri, freschi e stagionati, dalle molteplici forme quadrate, e rotonde, cilindriche e piramidali,…).
FORME7 (1)

Stracchini all’antica delle valli orobiche
E se quassù, nelle Orobie, quell’antico “miracolo” si rinnova ancora oggi, tutti i giorni, attraverso il lavoro di centinaia di casari, dentro le piccole casère gestite dalle famiglie rurali, ciò è dovuto al viscerale radicamento dei gruppi sociali nelle rispettive contrade, veri e propri forzieri e contenitori di affetti, memoria, lavoro e storia. Le nove D.O.P., infatti, nella geografia casearia del territorio, quindi nei rispettivi ambiti socio-economici, rappresentano la punta emergente di un grande iceberg assai più esteso, costituito da migliaia di micro aziende, silenziose e operose, come altrettanti pezzi di un immenso puzzle che, insieme, formano un disegno colorato e particolareggiato della vita e del lavoro in montagna, definiscono le pratiche di trasformazione del latte, diffondono nuovi sapori e promuovono attività rurali assai preziose e irrinunciabili. La storia continua…