Ribelli del bitto

 16 novembre 2014 – Sala Viscontea dell’Orto botanico, Passaggio torre d’Adalberto, Città alta, Bergamo,  ore 10,30

La presentazione del libro da parte dell’autore comprenderà visione di materiale audiovisivo commentato dal vivo da protagonista casaro Giuseppe Giovannoni e un assaggio di BITTO STORICO al termine (con Valcalepio Doc)

Michele Corti, I ribelli del bitto. Quando una tradizione casearia diventa eversiva, Slow Food editore, Bra (Cn), 2011

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Il libro narra la storia della “guerra del Bitto” combattuta in Valtellina negli ultimi vent’anni ma anche secoli di storia precedente di questo prestigioso formaggio, l’unico al mondo in grado di stagionare oltre 10 anni.

Bitto e Branzi sono stati per secoli due nomi che indicavano lo stesso prodotto. Forse il migliore formaggio di tutte le Alpi, frutto di una tradizione millenaria maturata nel comprensori pastorale delle Orobie occidentali. Si chiamava Bitto quello venduto a Morbegno, Branzi quello che affluiva ai Branzi per la Fiera di San Matteo. Acquistato a partite intera da commercianti-stagionatori di Bergamo veniva trasportato sino in città e qui fatto stagionare sinché non raggiungeva la consistenza adatta ad essere grattugiato. Paradossalmente il Branzi, proprio perché il mercato bergamasco voleva un formaggio duro era più simile all’attuale Bitto storico.

I produttori dell’area storica delle Valli del Bitto (oltre il Passo di San Marco) hanno condotto una ventennale battaglia per evitare che il Bitto originario, di cui conservano i metodi di produzione secolari (latte di capra Orobica, non mangimi, no fermenti selezionati), venisse annacquato ad un prodotto ‘tipico’ di tutta la provincia di Sondrio . Il Bitto storico ha le sue radici nelle Orobie e da anni i produttori hanno teso a sottolineare questa ascendenza legandosi ai formaggi bergamaschi nel patto dei “Principi delle Orobie”. Tutt’oggi il Bitto storico si produce peraltro si diversi alpeggi della Val Brembana ed è quindi non solo Orobico ma anche a pieno titolo Bergamasco. Dopo anni di strenua resistenza casearia le istituzioni si sono rese conto che i produttori ‘dissidenti’ non solo non si piegavano ma acquisivano sempre più consensi a Bergamo, in Lombardia e nel mondo. Di qui la decisione di riconoscere la loro ‘diversità’.

 

Bitto: formaggio orobico

“Il Branzi era il vanto della produzione caseariadella montagna bergamasca e veniva prodotto sugli alpeggi dei bacini di Valtorta, Mezzoldo, Val Mora. Val di Foppolo, Val di Carona e Val secca e proveniva dalla lavorazione del latte intero di vacca, ma alcuni vi aggiungevano anche una piccola parte di latte di capra” (1)

In realtà il ‘Branzi’, trasportato da muli o a dorso d’uomo proveniva in larga misura dalle valli orobiche valtellinesi. Il Melazzini, autorevole tecnico caseario formatisi alla Scuola di caseificio di Parma,  indicava l’origine di questo formaggio nella val Tartano e nelle vallate orobiche più ad Est: Cervia, Madre, Livrio e Venina. Una parte della stessa produzione di Branzi proveniva delle valli del Bitto, specie quella della valle di Albaredo, era destinata ‘ai Branzi’  Il nome  ‘Branzi’ derivava dalla località dell’alta val Brembana dove, alla fiera di S.Matteo di settembre, affluiva la produzione degli alpeggi della stessa val Brembana ma anche delle valli orobiche valtellinesi.  Interessante poi osservare che nel dualismo Bitto/Branzi abbiamo nel primo caso un riferimento ad un area di produzione, nel secondo ad un centro di commercializzazione (come nel caso del Bra e di altri noti formaggi). Sarebbe interessante verificare come veniva definito il ‘Branzi’ prima che la Fiera di S. Matteo assumesse la grande importanza che ha poi rivestito. Prima che si affermasse la Fiera ‘dei Branzi’ i caricatori della Valgerla portavano il loro (Bitto, Branzi?) a Cusio o Mezzoldo e non c’era ragione di definirlo ‘Branzi’.

Pescegallo-registro

Bitto o Branzi?

Il motivo dell’affermazione del nome ‘Branzi’ è evidente: per tutto l’Ottocento  il ‘Branzi’ dal punto di vista commerciale (quantità) ha prevalso sul Bitto. Il prodotto perveniva a Branzi (o ‘ai Branzi’, come si diceva un tempo) da un’area abbastanza vasta (quindi abbastanza eterogenea) ed era ovvio l’interesse, per garantire un’identificazione univoca e sostenere la reputazione merceologica richiamare il punto di convergenza commerciale. Come dicevamo, però, il ‘Branzi’ era prodotto anche nelle valli del Bitto, anche nella culla della Valgerola. Le prove storiche sono schiaccianti. Alcuni dei documenti storici più interessanti sulla gestione dell’alpeggio nelle Valli del Bitto sono costituiti dai registri  d’alpeggio di Orlando Curtoni (1676-1761) e dei figli Antonio e Gerolamo cistoditi persso l’Archivio parrocchiale di Gerola ed esaminati dall’amico Cirillo Curtoni (2). I Curtoni caricavano l’Alpe Pescegallo Lago di Gerola. Nei registri del padre si indica la presenza di sue soci caricatori di Cusio in alta Val Brembana (di parentela Rovelli), il formaggio era venduto a Cusio e tra le spese figurava l’acquisto dello zafferano. Tutto il prodotto venduto in Bergamasca era colorato con zafferano (una tradizione che è rimasta viva nel caso del Bagoss e che nel Bitto/Branzi si è persa nel corso del ‘900). Begamo apparteneva alla Repubblica di Venezia, terminale del mercato delle spezie. Da Venezia, tramite Bergamo e la Via Priúla, lo zafferano saliva sin sugli alpeggi di qui e di là del Passo di S.Marco. Anche i figli di Orlando Curtoni hanno venduto il Branzi/Bitto in val Brembana (sono citate vendite a commercianti di Averara e di Cusio a volte con consegne alla Casera di S. Marco (sull’ ‘autostrada’ – per i tempi – della Via Priúla). Negli anni più recenti (i registri arriviano al 1800) le vendite a commercianti di Como si intensificano.  Ancora nel 1844 il formaggio dell’alpe Pescegallo Lago, però, risulta venduto sempre in alta val Brembana, a Mezzoldo (vedi riproduzione del documento sotto) come si ricava dal registo della ripartizione di spese e ricavi tra i tre soci caricatori: Bartolomeo Acquistapace , Antonio Curtoni e Ambrosetti Giovanbattista. Tra le spese figura sempre lo zafferano. Ergo si produceva quello che poi è divenuto noto come ‘Branzi’. Gli stessi alpeggi (e casari) potevano alternativamente produrre l’uno e l’altro e viene da chiedersi se fosse solo lo zafferano a distinguere Branzi da Bitto. All’inizio del ‘900 il prodotto destinato a Branzi, era indicato dal Melazzini (3), un autorevole tecnico caseario formatisi alla Scuola di caseificio di Parma anche come  ‘uso grana’, e si distingueva dal formaggio Bitto esitato a Morbegno per la maggiore durezza, determinata dalla cottura ad una temperatura più elevata.

“Si passa tosto alla cottura con fuoco abbastanza vivo così da portare il tutto in mezz’ora o tre quarti d’ora alla temperatura di 38-45° R. [47,5-56] °C pel formaggio uso grana; 34-38° R. [42,5-47,5°C] pel Bitto.”

È facile osservare che le caratteristiche del Bitto attuale si avvicinano alla tipologia che il Melazzini, identifìcava con il ‘Branzi’ Tale tendenza è stata sancita definitivamente’con la standardizzazione introdotta dal disciplinare della Dop. Uno ‘scambio di identità’ che secondo noi non fa che confermare l’osmosi tra i due versanti orobici ed un secolare scambio di esperienze e di prodotti. A conferma di una identità largamente sovrapponibile è interessante osservare che, nell’ambito della stessa pubblicazione che riportava lo studio del Melazzini, l’autorevolissimo Arrigo Serpieri nell’Inchiesta sui pascoli alpini della provincia di Bergamo (4) indicava come ‘Branzi’ la sola produzione degli alpeggi delle convalli di Carona e Val secca Nella maggior parte dei casi (tranne dove la quantità di latte non era sufficiente a produrre una forma) si produceva quello che Serpieri definiva ‘tipo Bitto’ riservando al solo prodotto delle Valli del Bitto la denominazione ‘Bitto’. In ogni caso, sia la perentoria classificazione del Melazzini, che distingueva il Bitto dal Branzi sulla base di precisi parametri tecnologici, che quella del Serpieri, che discriminava su base geografica il Bitto dal ‘tipo Bitto(prodotto sugli alpeggi della val Brembana, delle valli retiche Masino e dei Ratti, delle altre vallate orobiche e anche della valle Albano nel Lario occidentale) esprimono le inevitabili ambiguità di un complesso processo di costruzione della tipicità. In bilico tra la definizione tecnologica e quella geografica, tra orientamenti qualitativi imposti dalla domanda (e mediati dai commercianti) e determinanti legate a fattori produttivi (competenze dei casari, qualità dei pascoli, sistema alpicolturale  e manipolazione del latte).  La produzione del Bitto, in ogni caso, era fatta coincidere con un vertice di eccellenza ed era associata ad un’area omogenea e ristretta all’interno di un’area allargata dove si produceva ‘Branzi’ o ‘tipo Bitto’ che dir si voglia. La mappa originale sotto riportata cerca di definire una ‘geografia storica del Bitto’.

Area Bitto

Fig. 1 – Mappa del Bitto : in rosso l’area storica, in giallo aree con produzione di formaggio grasso ‘tipo Bitto’ in almeno parte degli alepeggi della zona attestata all’inizio del ‘900 e in parte ancora attuata. In rosa un’area ‘antica’ di produzione del Bitto che ha lasciato spazio, sin dall’ ‘800 ad un prevalente orientamento verso la produzione di formaggelle e formaggio semi-grasso (nostra elaborazione)

Mors tua, vita mea

È stata – come vedremo tra breve – la crisi del mercato di sbocco di Branzi a decretare la consacrazione del Bitto, una consacrazione alla quale ha contribuito una consapevole ‘strategia della tipicità’ perseguita dai morbegnesi sin dagli inizi del secolo scorso (con la prima Mostra del Bitto nel 1907 e la realizzazione della Casera sociale dei caricatori d’alpe di Morbegno).  I motivi principali del successo della piazza di Morbegno, però, erano legati ad una crisi ‘endogena’ del ‘Branzi’.  Alla fine dell’Ottocento gran parte della produzione del Bitto si commercializzava alla Fiera di S. Matteo dpve veniva esitate in totale circa 10.000 forme. Da Branzi il prodotto era inviato agli stagionatori di Bergamo da dove  raggiungeva diverse piazze della Lombardia e del Veneto e anche le rivendite romane gestite da valtellinesi:

“Nella fiera del formaggio dei Branzi si concentrava, un tempo, gran parte del Bitto prodotto in Bergamasca e in Valtellina, che affluiva su numerose piazze in Lombardia, nel Veneto e a Roma tramite valtellinesi dei Cek e della Valmasino che, già allora, vi gestivano negozi alimentari. Quella fiera ne manteneva inoltre elevato il prezzo” (5)

Declino della Fiera di Branzi, il ‘nuovo’ Branzi, una versione ‘minore: il Formai de Mut

Già negli anni precedenti il primo conflitto mondiale, però, si assistette ad un declino del ruolo della Fiera di S. Matteo quale mercato del Bitto/Branzi. Nel 1910 furono venduti 1.910  q.li di formaggio, scesi a 1.300 nel 1913. Questo declino era legato, almeno in parte, al potenziamento concorrenziale del ruolo di Morbegno che dopo aver ‘agganciato’ i prezzi di Branzi riuscì a imporne di superiori.  Dopo la prima guerra mondiale la piazza di Branzi conobbe una profonda crisi con una drastica riduzione della quantità di formaggio grasso trattata cesa a soli 830-850 q.li negli anni Trenta (6).

La crisi di Branzi era determinata a due ordini di fattori: 1) la concorrenza del grana prodotto a costi sempre più competitivi dai caseifici della Bassa metteva fuori mercato il prodotto di Branzi, che i grossisti bergamaschi commercializzavano quale formaggio da grattugia; 2) la riduzione del numero delle vacche da latte caricate daibergamini transumanti che, sempre più spesso, nel periodo tra le due guerre mondiali, tendevano a mantenere per tutto l’anno in pianura le bestie lattifere più produttive monticando solo animale asciutto, proprio o ‘preso a guardia’ dagli affittuari della Bassa. Va osservato, a questo proposito che, al di là del declino della piazza di Branzi, il movimento di ‘fissazione’ dei bergamini – lasciando sguarnito il carico di ‘paghe’ degli alpeggi, comportò anche l’inversione di una secolare corrente di migrazione stagionale che aveva visto i mandriani bergamaschi caricare anche (da soli o in società con elementi locali)  gli alpeggi del versante orobico valtellinese. Dal periodo tra le due guerre mondiali in poi saranno i cargamuunt delle valli a Nord del crinale orobico  a prendere in affitto gli alpeggi dell’alta valle Brembana.

Per reagire alla nuova realtà, che comportava sia una minor produzione per ridotto carico di bestiame che la vendita a Morbegno dello stesso prodotto degli alpeggi sul versante brembano caricati da valtellinesi, si iniziò da parte della Latteria Sociale di Branzi a produrre un ‘nuovo’ Branzi invernale, ottenuto per parziale scrematura del latte della mungitura serale. Dimensioni e forma rimasero uguali al prodotto tradizionale degli alpeggi (compresa la classica concavità dello scalzo). Una piccola produzione di Branzi d’alpeggio è continuata sino ad oggi. Non ha contribuito a risollevare le sorti della gloriosa tradizione casearia brembana la ‘nascita’ del Formai de Mut (a partire dagli anni ’70-’80). Che il formaggio d’alpeggio della Val Brembana fosse il Branzi era noto a tutti, ma il Formai de Mut, più piccolo e con lo scalzo diritto , ottenne ugualmente la Dop (nel 1985) grazie alla già ricordata amicizia del patron del Formaistesso, il comm. Pierangelo Apeddu con l’allora ministro dell’agricoltura Filippo Maria Pandolfi. Il consorzio del Formai de Mut ha subito diverse traversie e non è mai ‘decollato’. Bitto storico, Branzi e Formai de Mut da qualche tempo hanno però compreso che la matrice da cui derivano è la stessa e che la collaborazione tra ‘orobici’ è la via da seguire per superare le contraddizioni che hanno offuscato una storia prestigiosa.

Una storia comune che va molto indietro nel tempo

La documentazione iconografica più antica – almeno a mia conoscenza – relativa ad un formaggio con caratteristiche esteriori simili al Bitto, risale al 1470 e riguarda un affresco (le nozze di Cana) del ciclo della vita di Gesù dipinto dal pittore clusonese Giacomo da Buschis detto Borlone. Sulla tavola, oltre a dei pani, un formaggio duro e verosimilmente ben stagionato.

Bitto-1470

Il particolare interessante consiste nel fatto che la forma è appoggiata sul tavolo non di piatto ma di taglio, cosa possibile in quanto lo scalzo è manifestamente concavo. Come oggi. Sulla presenza a Clusone di un formaggio ‘antenato’ del Bitto non c’è da farsi meraviglia. Le valli del Bitto e la limitrofa Val Tartano sono sempre state strettamente collegate alla Val Brembana. Quanto alla Val Seriana c’è da dire che, se la produzione casearia si è orientata da lungo tempo alle ‘formaggelle’, è anche vero che la tecnica del formaggio semigrasso (ma anche grasso) è, ancor oggi,  tutt’altro che ignota. Era, però,  più in auge nel passato. Guarda caso un’altra preziosa fonte iconografica la troviamo a Castione della Presolana, al Santuario della Madonna di Lantana dove, nella pala settecentesca raffigurante S. Lucio – patrono dei casari e degli alpeggi – un angiolo sorregge una maestosa forma di ‘Bitto’ che dallo scalzo, dal colore della pasta, dalla scagliatura della stessa appare in tutto e per tutto un Bitto di lunga stagionatura. Inutile sottolineare che la pala è il frutto del mecenatismo dei (relativamente) ricchi bergamini dorghesi.
S. Lucio -Lantana

Il motivo di questa presenza del Bitto in Val Seriana è da ricollegare ad un’area storica allargata’ che, in passato, era più estesa e che coincideva con la presenza sugli alpeggi dei già ricordati  ‘bergamini’ o ‘malghesi’. Direttamente o indirettamente il ‘boom’ della transumanza – che consentì di aumentare notevolmente il patrimonio zootecnico bovino tra Cinquecento e Seicento –  influenzò anche le valli orobiche del versante valtellinese dove alcuni malghesi bergamaschi acquistarono o affittarono alpeggi o entrarono in società con elementi locali. La presenza nelle valli orobiche valtellinesi di cognomi brembani (tra i più significativi Gusmeroli in val Tartano, Ruffoni a Gerola)  conferma come l’osmosi tra i due versanti fosse profonda. Un’osmosi che durerà sino ad oggi, nonostante il confini di stato  che divise le Orobie tra la metà del Quattrocento e il  1797. Proseguirono gli scambi matrimoniali, la frequentazione ‘incrociata’ alle feste patronali,  le società per l’alpeggio ‘miste’, ma anche le liti  per l’utilizzo degli alpeggi e l’esercizio dei diritti di transito [7]. I rapporti tra i ‘valtellinesi’ orobici (maròch) e i loro vicini di oltre Adda (i cèch della sponda retica) furono, invece, sempre legati da reciproca ostilità e scarsi contatti.

Paradossalmente è stato con l’abolizione dei confini di Stato che dividevano le ‘tre signorie’ (Stato di Milano, Repubblica di Venezia, Grigioni),  che il ‘confine’ è diventato meno permeabile. Un fatto legato alla burocratizzazione della vita sociale con la conseguente dipendenza dai centri amministrativi e da un nuovo sistema di viabilità che penalizzava i collegamenti tra valli.  Ma oggi la ‘comunità di massiccio’ riprende significato e l’Unione dei formaggi orobici (i ‘principi delle Orobie’) lo sta testimoniando.

  1. PROVINCIA DI BERGAMO, SERVIZIO SVILUPPO AGRICOLO E FORESTALE, Latte e formaggi, Prodotti bergamaschi di qualità, a cura di G.Oldrati e S.Ghiraldi, Stamperia Editrice Commerciale, Bergamo, 1999, p. 91.
  2.  C. RUFFONI. La storia degli alpeggi e del formaggio Bitto. La grande svolta (l’età moderna) in: M. Corti, C. Ruffoni, Il formaggio val del Bitt, Ersaf, Milano, 2009, pp. 21-72.
  3. G. MELAZZINI, Il caseificio in Valtellina, In: SOCIETÀ AGRARIA DI LOMBARDIA, Volume I, Fascicolo III, Milano Premiata Tipografia Agraria, 1904. pp. 203-214.
  4. SOCIETÀ AGRARIA DI LOMBARDIA, 1907. Atti della commissione d’inchiesta sui pascoli alpini. Vol II, Fasc. III “I pascoli alpini della provincia di Bergamo ” Milano, Premiata Tipografia Agraria
  5. G. BIANCHINI, Gli alpeggi della Val Tartano ieri e oggi. Economia e degrado ambientale nella crisi dei pascoli alpini. Tip. Mitta, Sondrio, 1985, p. 104.
  6. Provincia di Bergamo, op. cit.
  7. Ruffoni, op. cit.

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