Eredità bergamina: la Invernizzi di Melzo e Caravaggio

Tra le più note aziende casearie di matrice valsassinese, l’Invernizzi di Melzo è quella, che pur traendo origine dalla realtà bergamina, non è nata in Valsassina ma in pianura e, per la precisione a Pozzuolo Martesana. Le notizie sulla famiglia Invernizzi non sono molte e non consentono di ricostruire la dinamica della “fissazione” nella Bassa degli Invernizzi. Il valsassinese Pensa fornisce diverse le notizie più dettagliate1 . Egli riferisce che Carlo Invernizzi nato a Morterone nel 1837 da famiglia di bergamini frequentò con la famiglia le zone della Gera d’Adda e della Martesana a cavallo dell’Adda, di preferenza Liscate e Masate. Sposatosi nel 1870 con una Cattaneo “nativa del luogo”2 si fermò in pianura prendendo stanza a Pozzuolo Martesana comune confinante con Melzo dove, in qualità di “lattaio”3 raccoglieva il latte di alcuni piccoli produttori.  In realtà Carlo Invernizzi sarebbe nato già a Pozzuolo Martesana (se bisogna prestare fede all’anagrafe) ed è probabile che fosse il padre Giuseppe a provenire da Morterone e ad essere legato alla transumanza. Lo testimonia l’atto di matrimonio di Carlo Antonio Invernizzi con Cecilia Cattaneo (atto redatto a Masate, località di residenza della Cattaneo, nel 1873). Un Carlo Invernizzi (ma potrebbe essere un omonimo tanta la diffusione degli Invernizzi), nel 1903, a Pozzuolo Martesana vinse un “premio di 3° grado con  medaglia di bronzo e L. 20”  alla locale mostra zootecnica per aver presentato una “scrofa con lattonzoli abbastanza vistosa e buona”4.

Sergio Villa, invece, nella sua Storia di Melzo5 sostiene che gli Invernizzi fossero di Pasturo, che Carlo nacque nel 1836 a Pozzuolo Martesana – dove avviarono un piccolo caseificio – e che sposò Cecilia Cattaneo. La data indicata dal Villa è confermata dall’atto di matrimonio. Resta così incerta, sino a nuovi riscontri l’origine degli Invernizzi anche se non c’è da dubitare dell’origine valsassinese

Basti pensare che in una statistica del 1861 a Melzo vennero registrati nove “fabbricanti di stracchino”. Tra quelli che dichiararono il cognome quattro su sette erano Invernizzi6. Alla fine dell’Ottocento oltre ai latée vi erano ancora nella zona parecchi bergamini che continuavano a praticare la transumanza tanto che a Melzo si registrava la presenza di 500 vacche di fittabili e 400 di bergamini.

Nel 1876 dal “precursore” Carlo Invernizzi e da Cecilia Cattaneo nasce Giovanni Invernizzi il fondatore della ditta destinata a diventare una grande industria (per quanto messa in ombra dalla, pur essa melzese, Galbani). Giovanni Invernizzi sposa Angela Lombardi . Hanno quattro figli, il secondo, Romeo, nato nel 1903, sarà destinato a guidare l’azienda potendo contare, però, sino alla vendita della stessa sul decisivo apporto del cugino Remo (ritenuto erroneamente da alcuni il fratello).    Quest’ultimo era figlio di Giuseppe, fratello di Giovanni nato anch’egli nel 1876 che nel 1911 si era trasferito a Bellinzago Lombardo dove, nel 1916 nascerà Remo7.

Nel 1908 nel frattempo Giovanni fondò la ditta che portava il nome del padre bergamino (era evidente la volontà di operare sulla scia di Egidio Galbani). Inizialmente – il parallelismo con Egidio Galbani è impressionante – operò di fatto ancora da latée, sia pure in grande stile, presso la cascina gestita da un fittabile Brambilla a Settala. In quel periodo Giovanni Invernizzi non era ancora totalmente assorbito dall’azienda e Giovanni e trovò il tempo per fondare e dirigere una banda musicale a Pozzuolo (dove suonava il mandolino)8.

Nel 1914 l’Invernizzi aprì a breve distanza da quello della s.a. Egidio Galbani, uno stabilimento a Melzo. Di fronte al successo del Galbani è palese che egli intendesse seguire fedelmente le sue orme e approfittare del successo della ditta più grande per mettersi sulla sua scia.  La Robiolina 9 Invernizzi comincerà ad essere venduta in molte città del Nord Italia specialmente nel genovese. Il successo arride anche con la Crescenza e il formaggio Savoia. Nel 1925 Romeo ancora giovane prende in mano le redini dell’azienda e imprime un ulteriore impulso all’azienda.  Fino alla morte nel 1941 Giovanni mantiene, però, un ruolo nell’azienda occupandosi di selezionare le cascine fornitrici di latte. Egli si occupava anche di “rastrellare” aziende agricole in un periodo in cui i proprietari, in genere appartenenti all’aristocrazia lombarda, erano in difficoltà. Dall’acquisizione di diverse piccole cascine nacque la tenuta di Trenzanesio che diventerà la principale proprietà degli Invernizzi nello stile della tenuta all’inglese con tanto di daini in funzione ornamentale 10.

Nel 1928 rilevò da Galbani uno stabilimento già avviato a Caravaggio che consentì alla ditta di lanciare prodotti con il marchio di famiglia e di proiettarsi in campo nazionale e internazionale. Risale allo stesso anno la celebre etichetta con il ragazzo che si lecca le dita. Il salumificio fu acquistato nel 1939.  Tra le due aziende melzesi, per quando di dimensioni molto dissimili tra loro, vi fu spesso accanita concorrenza che, in una cittadina che per alcuni decenni fu fortemente influenzata (in termini occupazionali e non solo) dalla presenza industria del latte portò a una specie di divisione tra chi “tifava” Galbani e chi Invernizzi.  Ai formaggi freschi derivati dai tradizionali molli si affiancarono altre imitazioni, almeno nel nome dei prodotti Galbani. Orecchiava il Bel Paese il Bel Mondo (“formaggio che piace a tutto il mondo”). Quando la Galbani abbandonò la Robiolina di Melzo per lanciare il Certosino. La Robiolina divenne Invernizzina.

Al di là dello sfruttamento della scia della Galbani, gli Invernizzi (Romeo e Remo) seppero anche essere dei grandi del marketing. Il primo formaggino fuso Melzino venne reclamizzato utilizzando il fumetto delle avventure del signor Bovaventura sul Corriere della Sera che si concludevano immancabilmente con la consegna al protagonista di  un assegno da un milione. Così il formaggino divenne Il milione, uno dei protagonisti di Carosello negli anni Cinquanta. La presenza dell’industria casearia nel mondo di Carosello era massiccia ma ad essa erano affiancate anche altre forme di promozione: i gadget, le raccolte di punti, le figurine. Su questo fronte l’Invernizzi non fu da meno delle rivali sviluppando strategie di marketing (forgiate nell’agenzia pubblicitaria di famiglia) con notevole anticipo sui tempi. I caroselli si popoleranno con la mucca Carolina, il toro Annibale, Susanna “tutta panna”11, i gattini Geo e Gea, Camillo il coccodrillo sulle spiagge della Versilia o della riviera romagnola, gli elicotteri della Invernizzi lanciavano migliaia di mucche Caroline o bambole Susanna già gonfiate. Così negli anni Sessanta l’Invernizzi è la seconda società del settore (dopo la Galbani) e a Caravaggio lavoravano 850 persone addette alla produzione, di crescenza, taleggio, gorgonzola, provolone, grana padano e formaggi fusi.

Gli Invernizzi non avevano eredi diretti (Romeo non ebbe figli, Remo cinque femmine) e il problema delle successione spinse, ovviamente insieme ad altre considerazioni, a cedere l’azienda. Nel 1985 toccò a Remo Invernizzi, a 68 anni, azionista di minoranza dell’azienda, ma fino al 1982 direttore generale e amministratore delegato, annunciare la vendita alla Kraft ( che assicuravano la continuità della gestione e  garanzie per i 2.700 dipendenti (però la cifra, mai ufficialmente dichiarata fu, secondo le cronache, di oltre 130 miliardi di lire)  In linea con il grande pragmatismo (e linearità, come  da stile bergamino), Romeo Invernizzi, già ottuagenario, indicando la cassaforte dirà agli emissari della Kraft che, nel 1985, erano venuti da lui a Milano nel suo elegante palazzo di Corso Venezia “Lì sono le mie azioni Invernizzi. Firmatemi l’assegno e ve la apro”12.

Romeo e la moglie Enrica Pessina, pur senza diventare personaggi delle cronache e del gossip,  né tanto meno rivestire cariche pubbliche (altra differenza con gli “altri Invernizzi”) frequentarono il ghota della borghesia milanese 13 e abitarono in un palazzo del centro di Milano con giardini pensili e  i fenicotteri rosa, ricalcando in pieno lo stile della vecchia aristocrazia.

Romeo si spense nel 2004 a 98 anni a Milano, Remo nel 2013 a 97 a Caravaggio, città alla quale rimase sempre legato. Non fece in tempo a vedere cessare la produzione (avvenne nel 2015) ma la fabbrica era già della Kraft.

Romeo raccontava che sui banchi di scuola si addormentava perché prima di arrivarvi doveva fare il gir o con il carretto per raccogliere il latte. Anche Remo non ebbe una vita comoda. Iniziò ad aiutare il cugino a 9-10 anno e per studiare (al Collegio San Carlo) doveva recarsi tutti i giorni in bicicletta da Melzo. Remo fino alla morte, avvenuta nel 2013, continuò ad abitare di fronte al “suo” stabilimento di Caravaggio. Non ebbe il dispiacere di vederne la chiusura dello stabilimento anche se era annunciata dopo il passaggio dalla Kraft alla Lactalis che avendo conseguito un semi-monopolio nel settore (Galbani, Invernizzi, Locatelli, Cademartori) non esitò a tagliare i “doppioni” chiudendo stabilimenti che avevano fatto la storia del caseificio italiano (da Moretta di Cuneo a Caravaggio).

Furono senza dubbio dei self-made men. Oggi l’Invernizzi appartiene  al gruppo multinazionale Lactalis ma, a differenza della rivale Galbani, è solo un marchio.

Note

[1]    P. Pensa, L’Adda nostro fiume,  vol. II, p. 496, Lecco, 1998.

[2]    Nella zona della Martesana vi sono tutt’ora dei Cattaneo di Valleve in altra val Brembana.

[3]    La figura del latée è stata condannata all’oblio in forma ancora più grave che nel caso dei bergamini. Dalla “casta” dei latée sono usciti fior di industriali e di dirigenti del settore caseario, una realtà scomoda per una narrazione che celebra il capitale e la competenza esperta dei tecnologi usciti dalle università. Romeo Invernizzi non rappresenta un caso “più unico che raro” ma un esponente, di certo dotato di particolare intraprendenza di una categoria.

[4]    Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio. Divisione Industria. Sezione Pesca, Bollettino Ufficiale. Nuova Serie, p. 564.

[5]    S. Villa, Storia di Melzo vol. II, Comune di Melzo, Melzo, 2002, p. 336, 344, 353.  Si rifà a G. Robbiati, La Invernizzi, Melzo, 1990.

[6]    Ivi p. 336

[7]    Nel 1928 la famiglia di Giuseppe Invernizzi ritornò a Pozzuolo Martesana (AC Bellinzago Lombardo, anagrafe)..

[8]    Ivi p. 354.

9  “Robiolina” fu il nomignolo che le dame dell’alta borghesia milanese attribuirono ad Enrica Pessina, in bilico tra confidenza affettuosa e l’invidia per la moglie del ricchissimo parvenue.

[10]    La passione degli Invernizzi (Romeo e la moglie Enrica Pessina) per l’emulazione degli stili di quella aristocrazia  alla quale erano subentrati nelle possidenze terriere,  li portò a risiedere in un lussuoso palazzo in corso Venezia a Milano con giardini pensili e un giardino con fenicotteri rosa (diventati un po’ un simbolo della proprietà Invenizzi). Le proprietà immobiliari in stile aristocratico della coppia, oltre alla tenuta di Trenzanesio e al palazzo Invernizzi di corso Venezia 32, comprendevano anche “Villa Favorita” a Lugano, la più prestigiosa del Ceresio.   Gli Invernizzi non furono da meno della vecchia aristocrazia anche per altri aspetti, ovvero nelle grandi somme spese al gioco (lui) e nell’esibizione di gioielli di enorme valore – mitica una parure di smeraldi – alle prime della Scala (lei). Adele Giulia Villa, già amministratrice delle proprietà dei conti Sola Cabiati (che confluirono nella costituzione della tenuta di Trenzanesio) ricorda, non senza una malcelata punta di disappunto, il rapporto tra i conti e Romeo Invernizzi: “Si incontravano e scontravano due mondi completamente diversi, dell’antica nobiltà ormai in disfacimento e della nuova borghesia industriale nascente. Ricordo alcuni pranzi stratosferici dell’Invernizzi […] anche il conte li organizzava, certamente più signorili e anche più interessanti, ma non della stessa portata che invece andavano esibendo gli industriali nascenti” (A.Carminati – a cura di – Bergamini, vacche, stracchini, Centro studi valle Imagna, Sant’Omobono terme, 2015, p. 363. E’ giusto però ricordare che gli Invernizzi emularono l’aristocrazia milanese anche nel ruolo di benefattori. A Romeo ed Enrica è dedicato un grande e moderno padiglione dell’Ospedale policlinico da loro finanziato e i loro lasciti alimentano ricerca e assistenza, specie in campo pediatrico.  La loro figura di grandi benefattori dell’istituzione ospedaliera è ricordata da una gigantografia che campeggia all’ingresso del Pronto soccorso del Policlinico.

[11]  Susanna, la mucca Carolina e il formaggino Milione dovevano colpire la fantasia creando un legame tra loro: Susanna, la bimbetta bionda e paffutella che “viveva nella TV e recitava: “Io ho una mucca assai pregiata (ehhh oh!) e Carolina l’ho chiamata (ehhh oh!). Appeso al collo ha un campanon, produce latte a profusion, vale certo dei milion (tolon tolon, tolon tolon… ehhh oh!)”. Come per altri messaggi Susanna e Carolina con i relativi jingle si fisseranno indelebilmente nella memoria di una generazione. Oggi E-bay pullula di mucche Caroline e di bambole Susanna alimentando un mercato della nostalgia per un’epoca che, con la deformazione di mezzo secolo trascorso, appare “tutta panna”.

[12]  F. Fubini, “Morto Invernizzi. Inventò il formaggino di massa”, Corriere della Sera, 19 luglio 2004, p.22.

13 Pensava evidentemente non solo ai Locatelli, ma anche agli Invernizzi Pietro Pensa, imprenditore, studioso e amministratore pubblico valsassinese, quandi scrisse: “vi furono bergamini i quali, trasformatisi da mandriani in industriali del formaggio, riuscirono a penetrare nella scocietà borghese della Lombardia” (P.Pensa L’Adda nostro fiume, op. cit. p. 464).

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Quel memorabile pellegrinaggio dei bergamini a Caravaggio (1937)

(14/05/2024) In vista della Festa della transumanza lombarda, che si svolgerà a Caravaggio il 27-29 settembre (con pellegrinaggio e Santa Messa dei discendenti dei bergamini transumanti e degli allevatori), è sembrato importante ricordare il pellegrinaggio dei bergamini che venne organizzato tra il 1935 e il 1937 dal parroco di Morterone, Don Natale Saporiti. Per capire il significato di questo pellegrinaggio va ricordato che Morterone era ed è un paese /e un comune) particolarissimo. Dal punto di vista politico ed ecclesiastico legato alla Valsassina e a Milano, occupa la testata della val Taleggio che ha l’aspetto di una grande conca (Morterone, Murterun, viene da murtee = mortaio) e si estende anche con la frazione Piacca in valle Imagna. L’abitato è tipicamente sparso, costituito da decine di contrade raggruppate in 17 frazioni. All’origine delle contrade vi sono insediamenti unifamigliari che in seguito subirono, nel caso delle contrade più grandi, delle divisioni sino a diventare piccoli nuclei rurali. Chiesa e casa del Comune sono isolate. La maggior parte delle contrade sono disabitate. Oggi conta 33 abitanti ed è stato per molti anni il comune più piccolo d’Italia. Lo svuotamento di Morterone non è stato determinato solo dalla difficoltà dei collegamenti con i moderni mezzi di trasporto, ma anche dalla peculiare realtà locale basata sull’allevamento bovino transumante.

Nel 1921 gli abitanti erano 400. La maggior parte di questi erano bergamini transumanti che figuravano ancora residenti ma non tornavano più in paese per l’alpeggio estivo. Molti salivano ancora per la festa dell’Assunta. Nel 1937, 19 famiglie tornavano regolarmente per l’alpeggio, ma ben 26 restavano anche d’estate in pianura. Si trattava di un fenomeno di “sedentarizzazione” comune ai bergamini delle valli lombarde che li portava prima a trattenersi anche d’estate nelle “Basse” pagando l’erba ai conduttori delle cascine, poi a divenire essi stessi agricoltori affittuari. Per altri la “sedentarizzazione” comportava la specializzazione nella lavorazione del latte che era esercitata in forma artigianale presso le cascine (il latte era “affittato” da bergamini o fittavoli che preferivano affidare ad altri la caseificazione). Don Saporiti, intuendo che il fenomeno della sedentarizzazione dei bergamini avrebbe comportato un declino irreversibile e grave del paese, cercò di mantenere legati al paese e alla parrocchia i bergamini che si stavano fissando in pianura e che tendevano a non salire più al paese d’estate. Inizialmente il parroco pensò di raggiungere questo fine mediante visite alle famiglie bergamine stanziate alla bassa (nella zona tra Melzo, Gorgonzola e Rivolta d’Adda dove era più fitta la presenza delle famiglie transumanti morteronesi (quasi tutti di cognome Invernizzi o Manzoni e per questo distinguibili solo dal soprannome e dal nome della contrada di origine). Questa strategia non produsse risultati significativi. Scendendo alla “Bassa” il parroco, che era quotidianamente a contatto con i “casalini” (i morteronesi non bergamini, che restavano a casa) fu colpito dalla ricchezza (relativamente ai casalini) dei bergamini che si stavano abituando alle comodità della pianura e che, dal suo punto di vista, rischiavano di allontanarsi dalla Chiesa.

Paessaggio di Morterone prima dell’avanzata del bosco (in basso a destra la frazione “Centro”, a sinistra la chiesa

Nel 1935 organizzò così un primo pellegrinaggio dei bergamini stanziati nella pianura al Santuario di Caravaggio. Questa prima esperienza fu incoraggiante. Dal raduno emerse che i bergamini erano ancora legati alla loro parrocchia. L’anno successivo il pellegrinaggio ottenne un successo al di là delle più ottimistiche previsioni del parroco che era sceso con una delegazione di una ventina di morteronesi. Furono ben 160 i partecipanti, la gran parte dei bergamini originari di Morterone. Ne derivò un incentivo a risalire a Morterone per partecipare alle più importanti cerimonie religiose del paese e bergamini che da anni non risalivano al paese rivestirono la divisa della confraternita. Il pellegrinaggio si svolse, con minor numero di partecipanti anche nel 1936. Questa iniziativa, se non poté invertire la definitiva fissazione in pianura dei bergamini, produsse frutti duraturi in termini di attaccamento al paese e alla parrocchia. Un attaccamento che è ancora vivo nei morteronesi stanziati nelle zone dell’asta dell’Adda.

Il pellegrinaggio dei discendenti dei bergamini a settembre 2024, facendo leva sulla diffusa devozione per Santa Maria della Fonte, particolarmente cara ai bergamini, si prefigge di valorizzare la memoria della “tribù dei bergamini” stimolando anche quell’attaccamento alle tradizioni religiose che li ha distinti in passato, anche in periodi turbolenti quando altri ceti rurali si lasciavano attrarre da ideologie anticristiane

I brani di seguito sono tratti dal Liber chronicus della Parrocchia di Morterone, compilato da Don Natale Saporiti tra il 1928 e il 1937

da: A. Carminati, La grandezza delle piccole cose e la straordinarietà del quotidiano. A. Carminati, C. Locatelli (a cura di) Morterone. Sedici racconti di vita contadina sulle pendici del Resegone, Centro Studi Valle Imagna, Sant’Omobono terme, 2007, pp.29-95.

1931

In questi giorni scorsi per la prima volta ho voluto visitare una parte dei bergamini che si trovano colle loro mandrie nel Basso Milanese. La zona prescelta fu quella Melzo ­ Gorgonzola ­ Rivolta d’Adda. Cordiale e sentita l’accoglienza da parte dei singoli bergamini, che con gioia hanno veduto il loro Parroco e hanno ritenuto la visita essere una benedizione. Anche per il parroco furono giornate di consolazioni, costatando come si comportino bene i propri parrocchiani laggiù, assicurandosi del loro attaccamento verso di lui. Quella scappata mi servì pure a stringere relazioni coi singoli parroci, sotto la cui giurisdizione si trovavano i bergamini, e ad avere da loro le notizie opportune. E ’ questo un mezzo efficace per una più sicura collaborazione e vigilanza […]. Nell’escursione ai vari paesi, Melzo, ­ Pozzuolo, ­ Trucazzano, ­ Rivolta, Liscate, ­ Vignate, ­ Gorgonzola, ­ Cernusco, ­ Sant ’Agata Martesana e altri, mi fu di guida il Giovanni Invernizzi Ambrogio dei Peli (Costa Bonetto), il quale gentilmente mi fornì di un veloce cavallo e splendida carrozzella. Così un grazie sentito anche al sacerdote Invernizzi Giovanni, la di cui famiglia è oriunda di Morterone, il quale mi usò, nella generosa ospitalità, i tratti più delicati.

1935

10 aprile. Come avevo avvisato Vanno scorso, invece di visitare qualche plaga di bergamini, ho indetto una riunione a Caravaggio per questo giorno. Moltissimi avevano aderito: ma per una necessità di ore, sorta all’ ultimo momento, non tutti poterono parteciparvi. Scesero parecchi dalla lontana Bresciana. Quanti erano nei dintorni di Caravaggio vi mandarono almeno un rappresentante. Parecchi trattenuti a Melzo mi aspettavano colà. La riunione si incominciò colla celebrazione della Santa Messa. Parecchi hanno fatto anche la Santa Comunione. Notati alcuni uomini dissi loro dal­l’altare alcuni parole. La benedizione della Madonna chiuse la breve funzioncina in chiesa. Mi trattenni poi coi bergamini fino alle ore quattordici. Ci separammo promettendo di ritrovarci l’anno venturo in maggior numero.

15 agosto. La Patronale di quest’anno assunse una solennità tutta speciale. Parecchie furono le cause. L’inaugurazione dei due nuovi affreschi, opere del prof. Arturo Galli di Milano, e i piccoli restauri della Chiesa. La solenne processione col Simulacro della Vergine Assunta. Vivace tonalità diedero alla fede i numerosissimi bergamini, parecchi dei quali da molti e molti anni non salivano al paesello. Fu una cosa veramente confortevole il vedere i bergamini ritornare alla loro Chiesa, riprendere anche per un giorno solo le loro antiche costumanze, rivestire il loro abito da Confratello, vivere una rinata vita parrocchiale! Veramente sentono la nostalgia del loro paesello … e ritornerebbero se in esso trovassero da vivere […] La partecipazione dei fedeli – casalini [i residenti che non praticavano la transumanza] e bergamini – fu imponente.

1936

2 maggio. Pellegrinaggio dei Bergamini a Caravaggio. Deo gratias. Non posso incominciare la cronaca di questa giornata se non con quelle parole! Giornata radiosa, non solo perché primaverile, ma per la splendida riuscita dell’Adunata. Che i bergamini avessero preso a cuore l’iniziativa, lo sapevo. Che dovesse però riuscire così splendida, non lo sospettavo. Partii da Morterone di buon mattino. Mi seguivano, come piccola rappresentanza, venti persone. Non vi mancava il Podestà, Sig. Invernizzi Francesco, Gob della Costa. Una comoda macchina ci ha trasportato in due ore a Caravaggio. Suggestiva la passeggiata: Lecco, Pontida, dalla vecchia basilica e convento, che porta il mio pensiero al famoso Giuramento; Ponte San Pietro, Bergamo, Treviglio, desiderato si profila infine il Santuario. Vi giungemmo alle nove. Alcuni bergamini erano già arrivati. Altri si trovavano in Chiesa, per attendere alle pratiche: confessione, etc…. Nel frattempo giungevano da ogni parte i gruppi di bergamini: a piedi, coi cani, in bicicletta. Perfino dalla Bresciana, percorrendo una quarantina di chilometri, giunsero i bravi figliuoli del Ravet di Zuccaro. Tutte le famiglie erano presenti. Vi fu chi ha preso la voglia di contare i convenuti: 160. Eravamo in tanti. Lo si capiva, ma un numero così pieno non lo si immaginava. Alle 10 la Santa Messa, con la Comunione. Dopo la Santa Messa tutti ci portammo dinnanzi al venerato Simulacro della Vergine per dare sfogo alla nostra devozione. Uomini, donne, tutti si pregava con fervore. Le litanie cantate. Brevi parole di plauso. Stimolo al bene. Pienezza nella pratica della fede. Dottrina. Messa. Comunione frequente. Benedizione. Dal Santuario ci portammo allo speco dove apparve la Madonna. Colà ancora pregammo e poi, vien tempo, gli uni e gli altri si sparsero a consumare quel ben di Dio che avevano portato seco.

Con una ventina di bergamini, invece, ho dovuto partecipare al piccolo pranzetto. Alle 2 solenne Benedizione Eucaristica. Ultime raccomandazioni, e coll’arrivederci presto a tutti quelli che risarebbero fra poco ritornati […]. Alla corriera gli ultimi addii… La gioia era indicibile. Sul volto di tutti appariva la soddisfazione.

Agosto. Numerosa ancora, specialmente nella festa dell’Assunta, la presenza dei bergamini. Ad accontentare il desiderio delle figliole e anche per premiarle per la lodevole applicazione nello studio del catechismo, alla prima domenica di settembre, prima che discendessero le bergamine [madrie], solennizzai Sant’Agnese, portando in devota processione il suo Simulacro.

1937

15 aprile. Il parroco, continuando l’iniziativa presa da alcuni anni, scese a Caravaggio per il raduno dei bergamini. Colà si trovarono una sessantina di Morteronesi convenuti d’ogni parte. Il parroco celebrò la Santa Messa, distribuì parecchie Sante Comunioni. Rivolse loro alcune parole di esortazione e ricordò in modo particolare gli scomparsi: Manzoni Giuseppe, dei Cua di Frasnida, e Manzoni Antonio. La bella riunione si concluse con la Benedizione Eucaristica. Ancora una volta la Madonna di Caravaggio avrà benedetto Morterone e i suoi bergamini. Nei giorni 13 e 14 visitai alcuni bergamini resi­denti nei dintorni di Gorgonzola e Melzo. A metà strada del mio itinerario venne meno per imprevisti il cavallo, per cui procedetti con la cavalcatura di San Francesco.

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Ancora mafia dei pascoli

(10/05/2024) Truffa aggravata ai danni dell’Unione europea per 5  milioni (una cifra tutto sommato modesta che ci dice che questa è solo la punta dell’iceberg. Il segreto di pulcinella era l’uso di prestanome. La Procura antimafia aquilana ha chiuso le indagini sulla scorta di almeno 100mila intercettazioni e accertamenti bancari tra Abruzzo, Puglia, Lazio, Campania, Emilia Romagna, Trentino Alto Adige, Veneto, Piemonte, Lombardia e Liguria. Pare che il raggiro fosse orchestrato dalla mafia foggiana.

Ecco i protagonisti: nomi ben noti, vecchie conoscenze

L’avviso di conclusione delle indagini, con accuse a vario titolo, riguarda 75 soggetti tra persone fisiche e società:  Armando Berasi, Mariano Berasi, Diego Borda, Fabio Giuseppe Borda, Elda Borsa, Claudio Braito, Pio Braito, Sandro Braito, Bartolomeo Cariglia, Giovanni Antonio Cariglia, Marco Carli, Massimiliano Carli, Marina Casarin, Luca Della Vecchia, Fabrizio Di Lella, Nazario Di Lella, Michele Di Monte, Vincenzo Di Monte, Jessica Rayana Dos Samtos Edwards, Luca Federico, Francesca Federico, Emanuela Gazzera, Nazario Libero, Maurizio Lo Conte, Renata Beata Mysliwy, Michele Palmieri, Alessandro Pastucci, Manuel Paris, Serena Paris, Camilla Pecoraro, Amerigo Pezzopane, Matteo Rizzi, Natale Rizzi, Sara Rubagotti, Vittoria Santoro, Claudio Sassano, Antonella Spizzichini, Lucilla Spizzichini, Diego Stefani, Tullio Stefani, Angelo Tarantino, Leonardo Tarantino, Michela Tarantino, Paolo Antonio Valeri.

Le aziende: Agricola Campo Felice, Agricola La Rinascita, Agricola Campo Imperatore, Società agricola Spizzichini Sergio, Società agricola Frassino, Società agricola Cariglia, Azienda agricola Maso Rosso di Pila, Azienda agricola Enrosadira, Azienda agricola Grez, Società agricola Camarda srl, Gruppo Camarda società agricola, Azienda agricola Greenland, Azienda agricola La Viola, Azienda agricola Il Gregge, Fattoria bio società agricola, Società agricola Braito Pio, Team service srl, Movimento autonomo di base di Cerignola, Società agricola Maso dello speck. Società agricola Federico, Company Assistence group, Società agricola Serena, La Spiga – società cooperativa agricola, Lo Conte società agricola, Allevamenti Ca’ Torbida, Società Le delizie di Montagna, società agricola Il Falco, Società agricola L’Alpe, Azienda agricola L’Acero, Kilometrozero.com, società agricola Transumanza.

Di mafia dei pascoli abbiamo parlato

https://www.ruralpini.it/Agrispeculazione-tra-biogas-e-pascoli.html (Valcamonica citazione dei Berasi)

https://www.ruralpini.it/Rendena-contro-mafia-dei-pascoli.html Trentino Val Rendena

https://www.ruralpini.it/Ersaf-Vaia.html Qui con riferimento alla Lombardia (e alle malghe concesse dall’Ente regionale ai Borda).

Il gelato al fieno (il gusto della transumanza)

Nato tra alta val Seriana e Crema

(06/06/2022) Alla Festa del Fieno e dei Prati stabili che si terrà a Gradella di Pandino (CR) dal 10 al 12 giugno i partecipanti potranno gustare il menù del fieno che comprende il gelato al fieno. Vediamo come nasce questo gelato particolare che, sinora, era preparato solo da qualche chef in ristoranti prestigiosi e ora approda a una Festa … che non poteva che essere la Festa del fieno.

Il fieno viene da Nasolino (800 m) (sopra il prato dal quale proviene il fieno e la chiesa), una località della Valzurio (comune di Oltressenda alta), piccola valle laterale dell’alta val Seriana (la testata della Valzurio è il “retro” della Presolana). Una di quelle valli che una certa retorica definisce “incontaminate” perché poco o nulla interessate dal boom dell’edilizia turistica. Il fieno di qui, dall’erba morbida e sottile e trapuntata di fiori (nella foto salvia e centaurea) sembra che profumi già guardando le foto.

Da Nasolino innumerevoli Baronchelli, Messa, Pedersoli hanno intrapreso, nei secoli, la transumanza verso le pianure, diffondendosi dal Lodigiano alla bassa bresciana, passando per il Cremasco. Si fa fatica a credere come da piccoli paesi e ancor più piccole contrade siano originate casate che sono si sparse per mezza pianura lombarda. Eppure è così. La transumanza con le mandrie bovine è durata 5-6 secoli e le famiglie che si fermavano definitivamente in pianura venivano sostituite da nuove che entravano nel ciclo. Così hanno popolato le basse e hanno costruito le realtà zootecniche e casearie (ricordiamo che anche a Crema vie era una grossa industria di latticini, la Angelo Arrigoni – famiglia della val Taleggio – che operò tra il 1922 e il 1954).

E proprio a Crema, città lungo il Serio, nasce il gelato del fieno. Unendo la passione di due personaggi: quella di Andrea Messa per la montagna e l’agricoltura e quella per il gelato da materie prime fresche e bio di Giovanni della Cremeria Unika di Crema. Messa da bambino ha fatto in tempo a fare a piedi la transumanza sino a Leno nella bassa bresciana e, da qualche anno, ha dato vita all’Associazione grani asta del Serio (che, tra l’altro, ha riscoperto il mais delle Fiorine di Clusone) e al progetto PanPrat (per rilanciare la pecora da latte nelle valli bergamasche). Andrea, inizialmente, era un po’ scettico riguardo al gelato al fieno, poi si è appassionato all’idea e l’ha attuata.

Oggi sale tanto fieno dal Cremasco verso le valli (prima scendevano le vacche a mangiarlo in inverno in pianura) ed è curiosa e bella la storia di qualche kg di fieno super selezionato, prodotto con cura amorevole, che fa il percorso inverso per diventare qualcosa di particolare: non essere consumato dalle mucche ma, sia pure nella sua essenza, dalle persone : dall’alta val Seriana al Cremasco. Si è aggiunto un tassello a questa storia di scambi ecologici e umani tra montagna e pianura fatta di latte, di acqua, di vacche, di fieno, di uomini intraprendenti e appassionati.

Qualche kg di fieno pulitissimo, profumatissimo, sceso lungo il Serio si è fermato a Crema per “fare il bagno” nel latte fresco bio locale (nella foto il primo lotto “sperimentale” di mezzo kg). Latte, si badi bene, prodotto con foraggi irrigati con l’acqua dell’Adda e del Serio. Un matrimonio tra montagna e pianura più che simbolico, che ricorda i legami creati dalla transumanza lungo il Serio.

In infusione

il fieno, lavato e sterilizzato è stato infuso nel latte cui ha donato i suoi aromi. E la storia è cominciata. Il primo risultato è stato strepitoso (prima lavorazione domenica 5 giugno).

Chi fosse interessato ad assaggiarlo, il gelato al fieno è già in vendita alla Cremeria Unika, e, nel week end, alla Festa del fieno Gradella di Pandino dove si troveranno anche tante altre cose buone da mangiare e interessanti e divertenti da vedere e da fare (specie i bambini).

E, restando sul tema del latte, come non ricordare che il Salva cremasco è uno stracchino della tradizione orobica trapiantato in pianura attraverso secoli di transumanza? Le nostre pianure sono un po’ montagna, come origini e cultura. Anche con un gelato si fa la storia dei nostri territori, della nostra gente.

Una grande festa, di pecore, pastori, comunità

A Spirano la prima Festa della pecora gigante bergamasca è festa dei pastori, del pastoralismo lombardo, della comunità di Spirano che celebra la prima festa dopo la pandemia (e l’utilizzo del Palaspirà come hub vaccinale). Mai così tanti gruppi di pecore bergamasche a una mostra e mai così tanti pastori convenuti dalla Lombardia e oltre per trovarsi. In questo contesto si parlerà anche di prospettive: di rilancio della razza nel libro genealogico, di valorizzazione della carne e della lana. E sarà presentata anche il progetto di legge regionale a sostegno del pastoralismo e della transumanza.

(09/05/2022) Un fatto importante, sotto il profilo sociale e culturale, che si celebri la pecora bergamasca. Non c’era mai stata una Festa dedicata alla pecora e al pastoralismo bergamasco. Eppure se la meritano. Si meritano che nel territorio bergamasco si tributi un omaggia a queste icone della bergamaschità. Icone anche della lombardità perché parliamo di una realtà che, con il ponte della Valcamonica, unisce Bergamo e Brescia e attraverso a una pratica di otto secoli di transumanze, Bergamo con le pianure lombarde, la Brianza, la Valtellina.

La pecora, il pastore transumante, il cane pastore costituiscono una componente non secondaria dell’identità del territorio bergamasco e hanno portato e portano l’immagine di Bergamo fuori dalla provincia. La pecora e il cane sono ufficialmente “bergamaschi”, il pastore bergamasco (bergamasco-camuno) è, però, anch’esso qualcosa di ben caratterizzato, di singolare se non di unico. E’ in realtà simile ad altri pastori transumanti dell’arco alpino ma il motivo è che ad essi ha fornito un modello. Basti pensare che sia la pecora che il gergo del pastore bergamasco-camuno (il gaì) sono diventati elementi del pastoralismo transumante delle altre regioni alpine. Sotto diversi nomi, pecore derivate dalla bergamasca sono diffuse in Piemonte (biellese), Tirolo (bergshaft), Svizzera (Saas-Fee). In Trentino, in Veneto, in Friuli, gradualmente, le razze locali sono state sostituite dalla bergamasca.

Per capire il carattere unico del pastoralismo bergamasco basti pensare a quanta considerazione ha avuto per secoli (sino ad oggi si può dire) il pastore bergamasco in Svizzera dove, per raggiungere gli alpeggi estivi, effettuava lunghe transumanze. Reputato un vero maestro di transumanza (dai quali alcuni svizzeri hanno imparato l’arte) e di tecniche di pascolamento sugli alti pascoli (dove i locali non osavano spingere le loro pecore meno robuste e dove non avrebbero sopportato le asprezze delle condizioni di vita). Nelle parole di uno scrittore svizzero i pastori bergamaschi erano: … di una razza audacissima ma onesta, di poche parole tranquilla; spesso assai bella. Vivono sui monti nella più grande semplicità e sobrietà; un pò di polenta con formaggio costituisce di solito il loro unico nutrimento, e i più giovani dormono di notte all’aria libera presso il loro gregge, talora cercando ricovero sotto le roccie. Facevano parte della tecnica del pastore bergamasco la caseificazione (con latte misto di pecore, capre e qualche vaccherella) che sortiva prodotti venduti al prezzo doppio di analoghi svizzeri, la tecnica di utilizzo dell’asino (con basti adatti al trasporto di agnelli, formaggi, attrezzature varie).

Gregge bergamasco all’alpeggio in Svizzera all’inizio del Novecento

Da qualche anno c’è un’attenzione inedita al mondo del pastoralismo e della transumanza. Un revival nostalgico o qualcosa di diverso? Intanto non si tratta di una moda passeggera. I primi sentori di questo interesse si colgono negli anni Novanta del secolo scorso e la tendenza continua.

Il Festival del pastoralismo di Bergamo rappresenta un appuntamento fisso dal 2014. Ogni anno ha divulgato aspetti e contenuti diversi, segno di una ricchezza non da poco del substrato pastoralista bergamasco. Dopo le tante piccole transumanze con un gregge ridotto lungo le mura e i colli di Bergamo e dopo due sfilate per le vie della città di Bergamo, dal 2020 è partita l’avventura delle transumanza “in scala reale”: la prima a Gorgonzola, la seconda a Lodi Vecchio, quest’anno partendo non più dalla città ma dalla montagna stessa (a Serina) per raggiungere Soncino.

Ora, con la Festa della pecora gigante bergamasca a Spirano è l’ora del salto di qualità anche per il ramo ovino del pastoralismo. Prima di iniziare il percorso di salita agli alpeggi in val di Scalve, un grosso gregge, che sino a oggi si trovava sul Serio, sfilerà Domenica 15 maggio (tra sei giorni) per le vie del paese, attraverso il centro storico dalle vie strette e tortuose come si addice a un centro di impianto medievale. Gregge locale (con “cascina base” a Spirano, San Rocco). Ma oltre alla “massiccia” transumanza per il paese (una piccola deviazione da un percorso di transumanza reale), ciò che rende importante e, possiamo ben dire “storica” la Festa sarà la Mostra regionale della pecora gigante bergamasca. Sono stati preparati ben trenta box (spaziosi) per accogliere gruppi di 6-10 capi (uno per categoria, tre maschi e tre femmine divisi per età). Un fatto notevole perché mai si sono messi insieme più di 10-15 gruppi alle varie manifestazioni a Rovato e Clusone (in anni recenti anche di meno). Ed è una cosa importante e bella questa inedita aggregazione di pecore e pastori.

Non per inseguire un’idea bucolica

Sottolinea che l’interesse che c’è in una parte (forse sottovalutata e non così piccola), di società attuale per la ruralità e il pastoralismo, non è un interesse per una sorta di idea bucolica ma per qualcosa di molto reale. I gruppi di ovini bergamaschi in mostra rappresentano la “punta dell’iceberg”, i capi più belli di 30.000 altri che stanno pascolando in Lombardia. Con il loro lavoro silenzioso, spesso contrastato (come è difficile muoversi nei parchi, come diventerà difficile confrontarsi con la presenza dei grandi predatori) queste pecore, questi pastori svolgono una manutenzione del territorio (pulizia di sottobosco, fasce tagliafuoco, contenimento di piante invasive), un’azione di prevenzione di calamità naturali a costi irrisori. Da confrontare con i costi dei canadair e delle opere ingegneristiche che devono rimediare ai danni di frane e alluvioni. Da confrontare con i costosi studi e progetti di “tutela dell’ambiente” che mobilitano stuoli di teste d’uovo e organizzazioni. Che questo mondo di pecore e pastori si metta in mostra, si incontri, incontri la gente, i rappresentanti delle istituzioni è molto bello. Segna un qualcosa di nuovo.

Festa dei bambini

Una festa molto importante e molto seria ma anche molto gioiosa. I primi a prepararsi a far festa sono i pastori ma di certo sarà la festa dei bambini, a contatto con le pecore e gli asini, impegnati in tante attività divertenti (creare una pecorella con la lana vera, trasformarsi in una pecora, giocare con la lana, il granoturco, giocare con i suoni). I bambini potranno partecipare alla partenza della transumanza da via San Rocco. Portandosi alle 10:00 in questa via vedranno i preparativi, gli agnellini collocati nei basti degli asini. Poi potranno seguire come piccoli pastorelli in percorso attraverso tutto Spirano. E chissà che qualcuno da grande non vorrà fare il pastore.

Festa di Spirano

Inaugurato nel 2018, il Palaspirà rappresenta una struttura molto funzionale per gli eventi della comunità dotata di una attrezzatissima cucina donata dal gruppo alpini. Peccato che dopo qualche collaudo … sia arrivato il Covid. Così la struttura è diventata centro vaccinale operando per molti mesi. Insieme alla gente di Spirano che si riappropria della sua struttura alla Festa della pecora ci sarà anche un gruppo dei medici che praticavano le vaccinazioni. Questi professionisti, pur nelle circostanze non piacevoli, hanno potuto apprezzare lo spirito di una comunità operosa ed efficiente e si sono affezionati ad essa. Tanto da tornare volentieri, in un’occasione finalmente festosa, al Palaspirà.

Da Fogarida a Montichiari: una storia di transumanze ancora da scrivere

La frazione Cuel a Folgarida, luogo di provenienza dei transumanti che si stanziarono nella bassa bresciana
La frazione Cuel a Fogarida

Le transumanze rappresentanto storie ancora in gran parte da scoprire e raccontare. Forse sinora si è solo sfiorata la profondità, la ricchezza, le implicazioni di un tema che aiuta a capire come pochi altri le storie di territori, comunità e famiglie. Per capire le transumanze alpine, insieme di fenomeni diversi che interessano  al tempo stesso tutte le alpi (le valli interne ed esterne, le basse e alte pianure, le fasce pedemontane), ma anche comunità e località molto specifiche, bisogna prescindere da confini provinciali e regionali. La transumanza ha rappresentato una rete incredibilmente complessa che teneva insieme tutte le Alpi (anche oltre lo spartiacque alpino) e persino le Alpi con l’Appennino settentrionale. Il tema delle transumanze è affascinante perché, da qualsiasi parte lo si approcci (epoca, ambito geografico), porta – inevitabilmente – ad aprire nuove piste di ricerca, a risalire a intrecci inaspettati, a… portare lontano travalicando confini di ogni tipo (come in premessa di un fenomeno che mette in relazioni territori diversi, molto lontani o distanti poche decine di chilometri, comunque diversi.  

di Michele Corti


(05/05/2022) Sabato scorso ho avuto una conferma di quanto siano intrecciate, affascinanti, capaci di portare alla comprensione di vicende di famiglie, comunità, territori, le storie di transumanza. Mi ero recato al Museo etnografico “Giacomo Bergomi” di Montichiari (un po’ pomposamente intitolato ai beni demologici del mondo agricolo alpino e padano). Il museo, parte del sistema museale del comune di Montichiari, rappresenta comunque qualcosa di diverso e di più importante dei tanti “musei della civiltà contadina”, nati, dalla buona volontà di appassionati mossi desiderio di sottrarre all’oblio frammenti materiali di un mondo scomparso. Nasce da un progetto di valorizzazione, secondo criteri rigorosi, del lascito (opere pittoriche e collezione etnografica) del pittore Giacomo Bergomi (1923-2003). Bergomi era nato al Barco di Orzinuovi da famiglia di bergamini transumanti della valle di Adrara che, come tanti altri, si erano fermati in pianura come agricoltori. In trent’anni aveva raccolto molto oggetti, provenienti dalle valli bresciane e dalla Bassa, legati alla vita rurale e al lavoro dei campi. Tali oggetti erano spesso utilizzati dal pittore per portare in modo realistico il mondo rurale nelle sue tele. Grazie alla superficie espositiva, inusuale per i musei etnografici lombardi, gli oggetti esposti, raggruppati per ambiti tematici, corredati da didascalie in italiano, inglese e bresciano, sono degnamente valorizzati. Il museo dispone poi anche di una sala conferenze e di un laboratorio didattico.


Il Museo Bergomi dispone, soprattutto, di una conservatrice, la dott.ssa Michela Capra, una studiosa che si è occupata di cultura rurale ma anche di cultura del ferro e ha recentemente pubblicato, frutto di un’ampia ricerca storica, un volume sull’antico Borgo Pile (“Vi sono due fiumi in questa parte di chiusure”) che apparteneva all’ex comune di San Bartolomeo, inglobato nel 1880 nel comune di Brescia. Il borgo ha rappresentato un polo paleoindustriale importante, crocevia di esponenti di attività manifatturiere e mercantili. Nella sua ricerca, Michela ha trovato molti personaggi di origine valligiana bergamasca, un fatto sul quale ci siamo confrontati. L’immigrazione a Brescia di bergamaschi era nota (anche se mai approfondita) ma è interessante, come sta facendo Michela – studiando gli estimi (documenti fiscali relativi ai cittadini proprietari) del Quattro e Cinquecento -, ricostruire una geografia dell’origine di questi bergamaschi. Un fatto possibile grazie alla incipiente cognominizzazione di quelle epoche che attribuiva agli immigrati (di prima o seconda generazione) il nome delle località di provenienza. Emerge un gran numero di personaggi di origine brembana e altoseriana. Inevitabile pensare all’intreccio tra transumanza e attività mercantili e artigianali attraverso il commercio del formaggio, dei prodotti lanieri, delle pelli, ma anche della ferrarezza (pascoli, miniere, forni fusori erano spesso degli stessi “originari”).  Il Bonvicini (Moretto da Brescia), che era originario di Ardesio, veniva da una famiglia di malghesi transumanti ma era solo uno dei tanti che provenivano dalle numerose contrade del grosso comune altoseriano.

La transumanza dei malghesi a Brescia (sino a pochi anni fa)

La transumanza attraversa i confini spaziali ma anche quelli temporali. Discutendo con Michela di antiche e nuove transumanze, la studiosa bresciana mi ha fatto sapere che avrei potuto intervistare il sig. Guerino Toninelli, che, per lunghi anni, ha condotto l’azienda agricola della Badia in comune di Brescia. I Toninelli non solo erano malghesi, originari di Dorga in comune di Castione della Presolana ma, diventando agricoltori, hanno ospitato nella loro cascina diverse famiglie di transumanti. Sino agli anni ’90.  L’intervista con il Toninelli  mi ha procurato molte informazioni interessanti sulle quali avrò modo di ritornare. Il fatto interessante, però, è che, nella stessa occasione ho potuto intervistare anche il sig. Mauro Cuelli che, da volontario, presta la sua opera al Museo Bergomi. L’intervista non era programmata ma non mi sono fatto sfuggire l’occasione. In realtà Michela Capra mi aveva anticipato una storia di transumanti, i Cuelli (anticamente Cùel) provenienti dalla trentina  che si erano insediati a Montichiari. Che dal trentino calassero nella bassa bresciana oltre a bergamaschi e valligiani bresciani anche i trentini è noto; la cosa interessante è che dall’indistino “Tirolo” (parliamo di storie ottocentesche quando la Lombardia era parte dell’Impero asburgico) è emersa una (prima?) località precisa: Folgaria. L’intevista con Mauro si è svolta in due tempi. Durante la pausa pranzo Mauro si è recato dallo zio Adolfo (classe 1937) che ricorda meglio, come è ovvio trattandosi di una generazione precedente, le storie di famiglia. Nel pomeriggio Mauro Cuelli ha così potuto riferirmi circostanze più precise e ne è emerso un quadro molto interessante. Per capire come mai da Folgarida i Cùel, ma anche altre famiglie – come vedremo dopo – sono arrivate a Montichiari e dintorni, è necessario parlare della brughiera, della Montichiari dei pastori.

Montichiari: una storia di pastori

Oggi Montichiari è nota per la fiera (che ospita anche il Museo Bergomi), per l’aereoporto e, purtroppo, per le discariche della “terra dei buchi” (prima le cave, poi i rifiuti, anche tossici ma mezza Italia).  Tutto è legato alla “brughiera” che, nel bene e nel male ha segnato la storia del territorio e che ha determinato un salto brusco: una realtà pastorale catapultata nelle dimensioni piùd dinamiche ma anche brutali della modernità.  Dall’antichità alla definitiva bonifica di un territorio arido e ghiaioso (ovvero nel Novecento), il territorio è stato connotato in senso pastorale, una distesa quasi sterile poteva essere messa a frutto grazie alle pecore che qui affluivano in gran numero da lontano e che rendevano alla comunità locale importanti cespiti (attraverso la produzione e il commercio della lana e di altri prodotti ovini).

Lo storico Gabriele Rosa scriveva (1880) che Montichiari, dopo Rovato, rappresentava il mercato principale per i bovini  quando il genere più trattato erano i buoi da lavoro (importati dal Sud Tirolo). Si era molto ridotto, invece, il mercato delle pecore con il restringimento della brughiera. Il centro pastorale delle pecore ne’ secoli passati era Montichiari, dove, nei tavolieri che la cingono, ora in parte dissodati, pascolavano quattro qualità di pecore, ora ridotte alle sole bergamasche. delle quali alla fiera di S. Pancrazio (11, 12 e 13 maggio) intorno l’antica Pieve, se ne  vendono tante, che, unite a quelle de’ mercati settimanali, danno il numero di cinque mila. Secondo Rosa il culto di S. Pancrazio (chiesa isolata sul colle) si era sovrapposto a quello di Pan, proprio dei pastori denotando l’antichità del centro pastorale monteclarense.

Ai tempi del Rosa, però: cessate le gentili, e anche le bastarde d’anno in anno scemando, la fiera di Montichiari non è più di lana ma di oggetti domestici. Il Rosa riferiva anche che, nel Cinquecento, le pecore che pascolavano nella brughiera di Montichiari ammontavano a 5000. In realtà questo numero è quello consentito da un privilegio ducale del 1657 finalizzato a impedire l’inondazione di pecore e capre ma al tempo stesso a impedire quei bandi proibizionisti che, all’epoca, erano stati emessi per il Cremonese. Così nelle campagne o campanee (brughiere) di Montichiari e di Rovato era consentito trattenersi e pascolare a  benefizio delle Comunità medesime a, rispettivamente cinque mila e quattro mila pecore.

Transumanze orizzontali

La natura arida dei terreni faceva sì che la pastorizia transumante rappresentasse il mezzo più idoneo a ricavare reddito per le comunità alimentando i mercati locali. Solo il pastoralismo (compreso quello dei malghesi) poteva, in secolo passati, trasformare in ricchezze gli svantaggi naturali della pianura. Oggi vediamo una pianura uniformemente coltivata. In passato non era così: vi erano fasce aride, fasce fertili, fasce dal terreno poverissimo, fasce umide, fasce paludose. La transumanza, nelle diverse stagioni, e sfruttando le diverse categorie di animali (ovino e bovino) riusciva a sfruttare in modo complementare non solo il differenziale pianura – montagna ma anche quello pianura secca – pianura umida. In entrambe l’agricoltura era difficile, il pastoralismo possibile. Queste considerazioni ci spiegano perché, con l’aiuto dei transumanti, gradualmente la pianura si è trasformata in un territorio uniformemente fertile (la famosa “natura artificiale” della pianura lombarda di Cattaneo). Ma vale la pena svolgere anche qualche considerazione sociale. I transumanti non scendevano in pianura spinti dalla fame (se non quella di erba delle loro bestie) ma dall’intraprendenza; non erano dei poveracci, dei marginali (anche se una minoranza che aveva poche pecore o capre e praticava una transumanza di sopravvivenza poteva esserlo) , erano dei competenti in materie (allevamento e caseificio) per le quali in pianura le competenze scarseggiavano. Avevano oltre a un capitale bestiame che sino a tempi non lontani (metà Novecento) era ragguardevole, anche risorse monetarie perché la loro attività implicava il commercio e la disponibilità di capitale monetario per far fronte a imprevisti (epizoozie, guerre).  Noi siamo abituati (ci ha abituato l’ideologia della modernita urbanocentrica e pianuracentrica) a considerare le montagne “naturalmente svantaggiate”. Niente di più falso. Se consideriamo la situazione della bassa bresciana è facile capire che era la montagna avvantaggiata. Quando gli scrittori e i governanti parlano di montagna povera, che non riesce a coprire che per pochi mesi il fabbisogno di cereali, lo fanno dal punto di vista dell’élite terriera. L’abbondanza di grani delle pianure era abbondanza di magazzini delle grandi aziende aristocratiche e il frutto di politiche annonarie che, per evitare sommosse in città, affamavano le campagne. Dal punto di vista del contadino della pianura la montagna era ricca: le comunità disponevano di beni collettivi (pascoli, boschi ma anche miniere e forni fusori), beni che le comunità di pianura si erano visti espropriati nel medioevo. In caso di carestia la montagna, con manifatture e traffici poteva far fronte alle difficoltà temporanee anche in forza delle tante esenzioni e privilegi strappati al potere centrale che facevano di parecchie terre delle “terre separate” sottratte al dominio della città. Ma non era solo in termini di accesso alel risorse alimentari che il contadino di pianura era svantaggiato. Godeva anche di istruzione e condizioni igienico-sanitarie pessime (infinitamente pegigori della montagna). A parte la modestia del reddito, legata allo sfruttamento (che costringeva ad abitare in spazi molto ridotti) vi era anche la malaria. Se la brughiera di Montichiari era un territorio desolatamente arido, ad essa facevano contrappunto territori bassi e argillosi dove l’acqua ristagnava. Si pensi alle numerose “lame”: di Leno, di Bagnolo Mella, di Poncarale, di Montirone, di Ghedi. Queste lame (zone paludose) erano aree malariche e, prima che le bonifiche furono completate la pellagra e la malaria rappresentavano piaghe.  Ceeto che se si guarda alle ville sontuose, alle rendite delle grandi famiglie, la pianura era ricca, ma quale squilibrio sociale nascondeva questa ricchezza?

Le pecore tesine (una lunga storia di transumanza dal Trentino)

Rosa precisa che i quattro tipi di pecore presenti a Montichiari prima dell’affermazione della bergamasca erano: le “nostrane”, a lana ruvida, le “tesine” di lana lunga, le “bastarde”, alte e robuste (simili quindi alla bergamasca), le “gentili”  a lana finissima tosate una volta sola che fornivano solo 1,5 kg di lana onde si tessevano panni che si mandavan sino in Fiandra; nè si mungeano. Tutte le altre si mungevano e con il latte si confezionavano formaggelle, e davano quattro kg di lana. le “gentili” erano, evidentemente, pecore stanziali. In analogia con il Veneto valgono, per la bassa bresciana, le considerazioni sulle differenze tra la padovana (a lana fine, stanziale) e le razze della transumanza (Lamon del Feltrino, Vicentina, dell’altopiano di Asiago). Tra le pecore transumanti quelle “tesine” erano evidentemente quelle provenienti dal Trentino, le “nostrane” dalle valli bresciane e bergamasche. Il termine “tesino” va ricondotto all’omonima conca del Trentino orientale ma è stato utilizzato anche per indicare i pastori dell’altopiano di Asiago e pastori di altre aree del Trentino. I “tesini” scendevano ogni anno a pascolare gli incolti lungo il Po, l’Oglio, il Mincio. Il periodo di svernamento dei greggi nel mantovano era stabilito da Federico Gonzaga, che rivide le norme precedenti nel 1478 dal 20 settembre al 5 aprile. Lucrezia Borgia, duchessa di Ferrara manteneva “a guardia” presso pastori transumanti proprie pecore “tesine” sulle vaste aree paludose del ferrarese. Nel mantovano Durante le stagioni d’autunno, inverno e primavera procendenti dalle montagne del Tirolo e Veronese vengono al pascolo e per svernarsi particolarmente nel comune di Marmirolo numerosi  mandre di vacche e di pecore, in queste stagioni si fabbricano tutti gli oggetti di latte, i quali per una piccola parte si consumano in luogo e nel circondario e per la maggior parte vengono venduti nelle città di Mantova e di Verona (Regione Lombardia, Agricoltura e condizioni di vita dei lavoratori agricoli lombardi: 1835-1839. Inchiesta di Karl Czoernig, 1986 p. 41.). Melchiorre Gioia riferiva che me dipartimento del Mincio dall’attuale Trentino provenivano per svernare nella zona a nord di Mantova 1300 vacche da latte, come le pecore, le vacche scendevano lungo l’Adige che consentiva il pascolo durante la  transumanza (Le vacche stanno sul Mincio e vanno sull’Adige come le pecore.  (M. Gioia, Statistica del dipartimento del Mincio, Milano, 1838, p. 152).

Da Napoleone alle discariche

I ritmi lenti della brughiera sono sconvolti, nel 1805, da Napoleone. I suoi generali ebbero l’intuizione di utilizzare quest’area “sterile” (ma in realtà utilizzata dalle pecore) per creare un grande campo militare, capace di ospitare migliaia di uomini per esercitazioni e parate.


Distrutto dagli austriaci, quanto rimaneva del campo militare fu inglobato nella Cascina Casermone (sulla quale torneremo) e, negli anni ’60 il terreno divenne una grande cava. Scavare la ghiaia nella ex brughiera rappresentava un affare perché ciò che rendeva sterile, dal punto di vista agricolo, la landa era il grande spessore del deposito glaciale ghiaioso portato si qui dal grande ghiacciaio del lago di Garda. Il business chiama il business e quando l’estrazione di ghiaia cessò restò disponibile un grande e profondo “buco” che poteva accogliere una montagna di rifiuti. In realtà, se non una montagna, è sorta una collina.

La discarica sorta sull’area del

Nel tempo tutta la brughiera è stata bonificata. C’è voluta una fatica particolare ma le  “armi” della bonifica (acqua, prato, concime organico) alla fine l’hanno avuta vinta. Va precisato che il restringimento graduale della brughiera era stato ottenuto, nei secoli passati, anche grazie alle pecore. E’ destino delle greggi, spesso, creare le condizioni per essere scacciate. Grazie alla loro presenza il processo di umificazione, di creazione di un sottile strato di terreno fertile capace di trattenere un po’ d’acqua (e di fornire nutrimento a corte erbe dal breve ciclo stagionale) aveva cambiato gradualmente l’aspetto della brughiera e creato le premesse per la bonifica (con l’rrigazione). Ancora agli inizi del Novecento, però, l’area intorno al’ex campo militare, e sino a Ghedi, presentava terreni che parevano refrattari alla bonifica e si ebbe una seconda irruzione di modernità, dopo quella delle truppe napoleoniche, con l’aviazione e le corse automobilistiche.


Con il 1909 (primo circuito aereo internazionale di Brescia) vennero realizzate piste di volo e hangar, primo embrione delle future strutture aereoportuali. L’aereoporto di Montichiari non nasce quindi dall’aereoporto militare (già attivo nella Prima guerra mondiale) ma ha origini civili. Nel 1921 si corse a Montichiari il primo Gran Premio automobilistico d’Italia su un circuito realizzato nella brughiera che comprendeva anche una curva parabolica. Monza, però, riuscì ad accaparrarsi la seconda edizione e le successive. sarebbe stato molto meglio avere il Gran Premio che le discariche.

Il circuito della brughiera di Montichiari

E con questo abbiamo concluso la digressione sulla storia della brughiera e torniamo ai pastori di origine trentina.

Da Folgarida a Montichiari: una traiettoria esemplare di transumanza

La storia di Valentino Cùel di Folgarida, mette in luce le tante correnti della transumanza e i loro intrecci. ce la racconta Mauro Cuelli, nato nel 1960 a Montichiari. Per ricostruire la storia di famiglia Mauro, durante l’intervallo di pranzo è andato dallo zio Adolfo (nato a Montichiari nel 1937) a chiedere dei particolari. Tornato al Museo Bergomi me li ha riferiti. Insiame al padre di Mauro, Giuseppe (nato a Montichiari nel 1931 e morto nel 2005), Adolfo era figlio di Silvio, a sua volta figlio di Giuseppe (nato nel 1854) che era uno de sette figli di Valentino Cùel (cognome italianizzato in Cuelli) e di Maddalena Scalmana (cognome valsabbino) di Bedizzole, comune sul fiume Chiese, come Montichiari. I figli di Valentino e Maddalena nascono tutti a distanza di tre anni l’uno dall’altro. Un particolare che nemmeno lo zio Adolfo è riuscito a sapere dai vecchi riguarda il tipo di transumanza praticata da Valentino Cùel prima di stabilrsi in pianura come agricoltore. Aveva pecore o vacche? Sappiamo che nel Mantovano svernavano con le vacche da latte non solo i veronesi della Lessinia (i “Cimbri”) ma anche i malghesi delle valli del Pasubio e i trentini. Quindi non è impossibile che Cùel fosse un malghese che si spostava lungo il Chiese (dove vi sono prati umidi). Quando acquistò l’azienda a Montichiari intraprese subito (così almeno riferisce Adolfo Cuelli) l’allevamento di vacche da latte. Avrebbe potuto farlo se fosse stato un pastore? O piuttosto lo era veramente e con la vendita del gregge e delle proprietà in montagna (che gli consentirono di raggranellare il gruzzolo) decise di dare una svolta alla storia famigliare?  D’altra parte il Cùel avava una “borsa” del denaro molto particolare, usata solo dai pastori e ricavata con lo scroto di ariete conciato. L’acquisto della proprietà a Montichiari rappresenta per la famiglia Cuelli un mito fondativo e i particolari si sono tramandati sino ad oggi. Mauro riferisce che lo zio mima ancora la scena dell’orgoglioso pastore/malghese di Folgarida. Dal momento che la parte venditrice non si fidava molto dello straniero chiese in che modo il Cuel volesse pagare. E, di rimando, rispose: come volete voi.

La frazione Cuel a Folgarida

Il venditore allora espresse la preferenza per le monete d’oro e il Cùel, estraendole dalla sua borsa, una ad una, picchiandole rumorosamente sul tavolo (con evidente soddisfazione). Scopo di Valentino, il capostipite, era quello di sistemare i figli. In realtà solo due si sposarono (vigeva una sorta di maso chiuso?) e proseguirono, indivisi, l’attività agricola sino al 1902. Quando Giuseppe Cuelli si divise dal fratello aveva già nove figli. Gli ultimi due nacquero ai Campagnoli, altra frazione di Montichiari dove la famiglia Cuelli risiede tutt’ora. I Cuelli erano ben consapevoli delle origini a Folgaria. Il nonno e il padre di Mauro si erano recati più volte a Folgaria (per fare un giro, per villeggiatura, dice Mauro) e, al cimitero, avevano potuto riscontrare come i Cuel fossero numerosi.  Nella località trentina, abitata da una comunità di origine bavarese (assimilata ai “cimbri” della Lessinia) che vi si insediò nel XIII secolo chiamata dal vescovo di Trento a ripopolare l’area, vi è una frazione Cùel o Cueli che viene fatta derivare da quelle (sorgente in tedesco).

Luoghi citati nell’articolo

I coloni bavaresi che si insediarono in Lessinia, altopiano di Asiago, valle del Fersina (valle dei Mocheni) erano al tempo stesso pastori, minatori, boscaioli e non sorprende che tutt’oggi da queste aree provengano pastori transumanti. Sia le comunità di lingua tedesca che quelle venetofone e lombardofone dell’area in esame (ma il discorso potrebbe estendersi a ovest e a est verso il Piemonte e il Friuli) che praticano la transumanza sono comunità specializzate. Non tutte le valli, non tutti i comuni, non tutte le frazioni sono sedi di comunità e “clan” di transumanti. Il che rafforza la considerazione che la transumanza non è un fatto di poveracci, una forma di emigrazione sotto fatti di spinta (push), costrizione. la storia famigliare dei Cuelli lo dimostra. Non solo il trisavolo picchia sul tavolo le monete d’oro ma i suoi discendenti negli anni acquistarono oltre alle proprietà già citate anche un’altra azienda, sempre a Montichiari, a Verziano. Il padre di Mauro, però, che aveva studiato perito agrario, all’età di 22 anni divenne direttore dell’azienda Cascina Casermone, dove sorgeva il campo militare napoleonico. Ai tempi in cui Giuseppe Cuelli dirigeva l’azienda 8e mauro era un ragazzo) era possibile vedere ancora su un arco una piastrella con la N di Napoleone, le cucine dell’acquartieramento militare erano divenute silos di foraggi. L’azienda era di proprietà della Federconsorzi e ne seguì le cattive sorti: venduta a un bergamasco, che diceva di voleva creare un allevamento di cavalli, fu tosto rivenduta con lauto guadagno per realizzare, su una parte della superficie aziendale, una cava. Poi la cava fu riempita come già sappiamo.
La storia dei Cuelli non è, però, una storia isolata. Mauro Cuelli cita come famiglie di origine pastorale e da Folgarida che praticano ancora la pastorizia a Montichiari e originarie di Folgarida quella degli Uber (frazione Novagli). Presenti nella zona di Montichiari ma anche altrove nel bresciano e mantovano sono i Rech (come da rapida indagine su registri anagrafici online). Sui registri anagrafici se ne trovano parecchi. Vi sono anche più matrimoni Cuelli – Rech, segno che – almeno per qualche generazione – i transumanti praticano ancora l’endogamia di gruppo anche dopo la stanzializzazione. E’ interessante notare cone i Rech siano fortemente presenti a Seren del Grappa, un polo forte del pastoralismo feltrino (insieme a Lamon) e anche a Mussolente (Vi) vicinissimo a Bassano del Grappa e a Segusino (Tv), sul Piave, in collocazione strategica rispetto allo sbocco in pianura. Altre famiglie citate dal Cuelli come originarie di Folgarida e presenti a Montichiari e dintorni sono i Cappelletti, cognome molto diffuso in Trentino ma comunque riconducibile a Folgarida. Ci sono molti spunti per approfondimenti. Non è difficile comunque concludere osservando che lo studio delle transumanze riserva sempre sorprese  specie riguardo agli intrecci tra le diverse correnti di transumanza. Pare evidente che senza un approccio sistematico (sia in termini temporali che geografici) ogni indagine con prospettiva localistica rischia di restare condannata all’anedottica.

Costituita la commissione pastori

(15/03/2022) In vista della Mostra regionale della pecora gigante bergamasca (Spirano, BG 14 maggio 2022), un evento che – per la prima volta dopo decenni vede radunata una significativa componente dell’allevamento ovino transumante, si è costituita la Commissione pastori (transumanti) all’interno dell’Associazione pastoralismo alpino di Bergamo.

La Commissione, la cui costituzione è stata ratificata dal Consiglio direttivo dell’Associazione, è composta dai seguenti pastori che rappresentano tutte le aree di svernamento invernale nella pianura lombarda, dalla valle del Ticino a quella del Mincio. Sono quasi tutti giovani sia pure “figli d’arte” (come si deduce dai cognomi storici.

Agostini Michele, Balduzzi Christian, Bossetti Giuseppe, Colotti Manuel, Cominelli Marco, Gussardi Roberto, Imberti Mirko, Savoldelli Daniele.

Portavoce della Commissione, che opera in modo collegiale, è Daniele Savoldelli.

La Commissione, insieme ad altri esponenti dell’Associazione, ha provveduto a costituire il Comitato Organizzativo della Mostra che sta provvedendo a tutti gli adempimenti previsti da un evento di questo tipo.

La Commissione è frutto dell’impegno assunto in sede di Festival del Pastoralismo 2021 quando è stato commemorato Tino Ziliani. I pastori presenti in quella sede hanno provveduto a contattare altri colleghi. e, in un incontro a Chieve (CR), il 7 dicembre 2021, si sono gettate le basi della Commissione. La Commissione non si occuperà solo di mostre ed eventi ma anche di interloquire con le varie istituzioni che hanno importanza per l’attività dei pastori, a partire dai Parchi. Nel fare questo si raccoglie l’eredità di Tino Ziliani. In assenza di una figura che faceva parte sì del mondo dei pastori, da cui proveniva ed entro il quale lavorava in qualità di capo tosatore, ma che era anche super partes (aveva solo un mini gregge quasi d'”affezione”, è risultato necessario che si attivasse un gruppo in grado di farsi portavoce degli interessi dell’insieme dei transumanti.

Tino Ziliani

Una legge regionale per il pastoralismo

Dalla Regione Lombardia un’iniziativa pro pastoralismo

(07/03/2022) Depositato presso il Consiglio regionale della lombardia il testo del progetto di legge Disposizioni regionali per la tutela e la valorizzazione del pastoralismo, dell’alpeggio, della transumanza e per la diffusione dei relativi valori culturali . Una serie di interventi mirati finalizzati a salvaguardare le “vie di transumanza” e i prati stabili, preziosi per rifornire di fieno le aziende di montagna che tengono viva la pratica dell’alpeggio. Sostegni a pastori e alpeggiatori per le attività di cura del territorio ma anche alle scuole (per tirocini, borse di studio) e alle le associazioni che promuovono il pastoralismo nella sua dimensione storico-culturale. Un raggio di luce in un contesto che tra burocrazia, vincoli imposti dalle “aree protette”, lupi non incoraggia certo la continuità di queste attività tradizionali. Un risultato che l’Unesco ha sicuramente favorito ma che è legato anche all’interesse suscitato intorno al pastoralismo, all’alpeggio, alla transumanza dai tanti eventi rievocativi, festivi, culturali organizzati in questi anni in Lombardia.



La transumanza a Lecco (ne abbiamo parlato qui). Il passaggio dei greggi dei pastori Galbusera sul ponte vecchio e in città è vissuto dalla popolazione come un rito festoso già da anni. Anche l’atteggiamento degli automobilisti che incontrano quotidianamente i greggi sulle strade è cambiato: da insofferenza e imprecazioni contro un’attività che “cosa aspetta a sparire” ad ammirazione compiaciuta di uno spettacolo che “per fortuna che c’è ancora”. Anche questo mutamento del sentire, non solo il riconoscimento Unesco e la moltiplicazioni di eventi organizzati in tema di pastoralismo e transumanza (tutti aspetti tra loro connessi) ha contribuito a far maturale le condizioni per la legge lombarda pro pastoralismo.

(7 marzo 2022) Non è vero che i riconoscimenti Unesco (quello della transumanza risale al dicembre 2019) non servano a nulla. Possono stimolare delle iniziative, a patto che ci siano dei processi in atto. In Veneto una legge a favore della transumanza è stata approvata nel 2020 (in cantiere prima dell’Unesco); in Basilicata, nel 2021, è stata approvata una legge pro pastorizia e allevamento estensivo. La scorsa settimana è stato depositato un progetto di legge pro pastoralismo, transumanza, alpeggio e prati stabili in Regione Lombardia. In tutte queste regioni sono presenti iniziative e gruppi che organizzano eventi e caldeggiano la causa del pastoralismo e della transumanza; va dato comunque merito ai legislatori regionali di aver saputo cogliere i segnali che vengono dalla società. La politica dovrebbe avere orecchie sensibili per accogliere anche gli input dal basso, quelli provenienti dagli interessi diffusi e “marginali” (dall’alto, dalle lobby ne arrivano già sin troppi).

Dalle leggi e alle barricate contro la transumanza a una nuova stagione?

Purtroppo dove non ci sono stimoli dal basso, dove non esiste una sensibilità nei loro confronti e conta solo la mentalità burocratica, succede quello che è successo in Emilia-Romagna. In questa regione, che ha voluto essere più realista del re e omaggiare le fobìe igieniste antipastorali, è stata promulgata nel 2004 una “legge contro la transumanza” che obbliga a eseguire con autotrasporto ogni spostamento di greggi.  (L.R. 9 febbraio 2004 n. 4. Art. 2, comma 3. Gli ovini e i caprini che vengono trasferiti per ragioni di pascolo o transumanza devono essere trasportati tramite automezzi e non possono essere trasferiti con altri mezzi, eccetto i casi autorizzati dal Sindaco su parere conforme del servizio veterinario dell’Azienda USL competente per territorio).

In realtà i divieti di transumanza, emessi attraverso ordinanze sindacali o regolamenti vari,  sono diffusi anche in Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli-V.G. (ci limitiamo a queste regioni non conosciamo la realtà fuori dal Nod Italia.

Sono numerosi i casi di divieto di transumanza. Pare che questo “patrimonio dell’umanità” non sia sempre molto gradito. Qui siamo in Trentino. In nome della pulizia, del decoro, dlel’igienismo che proiettano sul territorio degli habitus mentali nati nei salotti urbani, si bloccano vie di transumanza secolari (millenarie). Le aste dei fiumi, i solchi delle valli, dopo essere stati occupati da ferrovie, autostrade, intrastrutture di ogni tipo vengono definitivamente “sigillati” dalle piste ciclabili. In nome della sana attività fisica immersa nella natura, della mobilità sostenibile si blocca la transumanza, attività intrinsecamente sostenibile. Sono le contraddizioni di un “naturalismo” tutto urbano.

In Veneto, dove non pochi sindaci si erano incaponiti (con varie motivazioni pretestuose) a vietare il passaggio delle greggi transumanti (ne parlavamo qui nel 2013), la Regione aveva iniziato a progettare i “corridoi verdi”, ovvero una nuova versione delle antiche vie armentizie di origine romana o preromana. Questo lavoro, che ha visto l’impegno di un personaggio come Emilio Pastore, da decenni attivo nel promuovere il recupero delle razze ovine venete e nel diffondere la cultura pastoralista, è sfociato nella già accennata legge regionale veneta (L.R. 32 del 27 lugnlio 2020 – Norme in materia di recupero, gestione e valorizzazione del demanio armentizio, disciplina delle vie del pascolo e per la valorizzazione della transumanza, riconosciuta quale patrimonio culturale immateriale della umanità)(qui sul BUR Regione Veneto).

Una via armentizia di origine romana

La legge veneta si concentra sui sentieri della transumanza non solo per assicurarne la possibilità di percorrenza alla greggi, ma anche per valorizzarli quale patrimonio culturale. Questo ne presuppone la ricognizione e inventariazione ai fini della tutela. Riporto solo l’art. 4.

1.   I sentieri armentizi, in quanto riconosciuti quali beni di notevole interesse storico, archeologico, naturalistico e paesaggistico, nonché funzionali all’esercizio dell’attività armentizia, vengono conservati al demanio regionale e costituiscono un sistema organico denominato le Vie del Pascolo del Veneto. 2.   La gestione ed amministrazione dei beni individuati e qualificati come Vie del Pascolo del Veneto si conforma alla disciplina di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 recante “Codice dei beni culturali e del paesaggio”.L’aspetto interessante è l’indissolubilità riconosciuta dalla legge alle due funzioni: quella pastorale e quella patrimoniale (e turistica).  Assume un valore ben diverso un bene che è stato ripristinato nella sua funzione, che consente a chi intende conoscerlo e fruirne (per fini turistici escursionistici) di capire cosa sia e come “funzioni” la transumanza. Altrimenti si racconta una storia morta. Come in Emilia-Romagna dove la transumanza rimane solo come richiamo e non c’è più alcun sentiero calcato dalle pecore.

Prima di parlare del progetto di legge lombardo qualche parola anche sulla legge lucana (L.R. 30 novembre 2021, n. 54. Norme di disciplina, tutela e valorizzazione della pastorizia e della transumanza, presidi del territorio lucano). Se la legge veneta si concentra sulle vie di transumanza, quella lucana verte sulla definizione di pastorizia e allevamento estensivo quale “presidio del territorio”. Istituito il registro dei “pastori presidi del territorio” viene ad essi indirizzato un programma di assistenza zootecnico-veterinaria e vengono stabilite delle premialità nell’ambito del Piano di Sviluppo Rurale (lo strumento di finanziamento regionale all’agricoltura). Vengono altresì stabiliti criteri di priorità a favore dei pastori presidii del territorio nell’ambito delle procedure di concessione in uso e di fida pascolo ovvero di alienazione o assegnazione dei beni di proprietà regionale e dei relativi enti strumentali nonché dei terreni agricoli incolti, abbandonati o insufficientemente coltivati . Rispetto al valore culturale del pastoralismo (peccato che la Regione Basilicata sia rimasta ancorata alla definizione di “pastorizia” che evoca inevitabilmente qualcosa di marginale e arcaico e risulta circoscritto alla sola attività produttiva slegandola dalla sua dimensione culturale come se essa rappresentante qualcosa di separato che acquista un suo valore solo se su di essa si posa l’occhio legittimizzante dello studioso (di materie etnoantropologiche).  La Regione Basilicata, in ogni caso – al di là del limite di una legge che appere troppo scissa in due ordini di interventi slegati tra loro –  si impegna quindi in prima persona (sarà interessante capire se affidando a soggetti terzi e agli stessi “pastori presidi del territorio” qualche ruolo, a: a) diffondere la conoscenza ed il rispetto del patrimonio storico rurale, dell’ambiente, del paesaggio, della pastorizia e della transumanza; b) tutelare e valorizzare il patrimonio della pastorizia e della transumanza; c) adottare appositi programmi volti a preservare e valorizzare il patrimonio culturale di saperi, di tecniche e consuetudini legate alla pastorizia, all’allevamento estensivo e transumante ed alle produzioni agroalimentari che le comunità rurali hanno storicamente praticato.

Le Feste dell’alpeggio/transumanza si sono affermate a partire dagli anni ’90 del secolo scorso. Tra le più longeve Chiareggio (Valmalenco), Borno, Bagolino, Schilpario, Songavazzo (ma ce ne sono tante altre che non citiamo per il rischio di dimenticarne qualcuna).


Disposizioni regionali per la tutela e la valorizzazione del pastoralismo, dell’alpeggio, della transumanza e per la diffusione dei relativi valori culturali

Il progetto di legge lombardo (firmatari Malanchini, Fermi, Brianza, Borghetti, Violi, ovvero tutto l’ufficio di presidenza del Consiglio a sottolineare il carattere bipartisan dell’iniziativa) reca il titolo si differenzia dalle leggi approvate in Veneto e in Balsilicata pur presentando dei punti in comune.  Innanzitutto riconosce la valenza multidimensionale del pastoralismo come valore pubblico: riconosce l’interesse pubblico delle attività agro-zootecniche del pastoralismo, dell’alpeggio e della transumanza, quali presìdi del territorio, per il ruolo strategico nella salvaguardia dell’ambiente, del paesaggio […] nonché quali componenti della filiera della produzione agroalimentare tradizionale locale anche a marchio di qualità e per il loro valore culturale.

Le misure non vanno mai a sovrapporsi a quelle del Piano di Sviluppo Rurale. La legge prevede, però, misure specifiche di sostegno per l’attività di manutenzione territoriale e di recupero di terreni abbandonati: La Regione può riconoscere sostegni finanziari in favore dei pastori e dei conduttori d’alpeggio, singoli o associati, che eseguono direttamente opere di manutenzione del territorio in accordo con gli enti locali competenti. Possono essere beneficiari di misure di sostegno economico da parte della Regione anche gli enti locali che eseguono opere di manutenzione dei terreni abbandonati o incolti, al fine di destinarli alle attività disciplinate dalla presente legge.

Transumanza a Vezza d’Oglio (Valcamonica)

Un principio fondamentale sancito dalla legge riguarda il libero passaggio delle greggi e il pascolo lungo i percorsi di transumanza. Viene pertanto incoraggiata la transumanza a piedi e incoraggiati i movimenti del “vagantivo” da parte dei pastori che svernano in pianura. La Regione promuove, in collaborazione con i Comuni e con gli enti competenti in materia di sicurezza stradale e sanità pubblica veterinaria, nel rispetto delle competenze degli stessi, l’individuazione di percorsi di transumanza e monticazione, nei quali sia garantito il libero passaggio delle mandrie e delle greggi ed il pascolo, coinvolgendo i proprietari pubblici e privati, dei prati stabili e delle aree idonee al pascolo.

Banca dati dei prati stabili, loro tutela e valorizzazione. Apparentemente non strettamente pertinente con il pastoralismo, l’attenzione del progetto di legge i prati stabili si spiega con la loro importanza per la transumanza (in quanto il loro pascolamento rappresenta una risorsa indispensabile per i pastori ovini transumanti in inverno) e considerato che tutt’oggi la produzione del fieno di prato stabile di alcune zone (Pandinasco in particolare) è  tutt’oggi fondamentale per le aziende agropastorali delle valli. Queste ultime non potrebbero mantenere i loro sistemi d’alpeggio in estate senza l’apporto di fieno dalla pianura durante l’inverno.

Tra le altre iniziative previste dalla legge vi sono:

– L’istituzione della giornata regionale per la diffusione dei valori culturali relativi al pastoralismo, all’alpeggio e alla transumanza;

– l’istituzione della Consulta del pastoralismo;

-l’apertura di un bando annuale finalizzato all’erogazione di specifici fondi e benefici economici, a sostegno delle manifestazioni aventi carattere storico culturale in tema di pastoralismo, alpeggio, transumanza;

– l’apertura di bandi di concorso annuali rivolti alle scuole che producano studi o elaborati inerenti ai temi del pastoralismo, transumanza e alpeggio al fine di finanziare: a) borse di studio; b) tirocini formativi, c) viaggi di istruzione.



Come si vede, forse per via di uno spirito di sussidiarietà che in Lombardia è più radicato, la Regione prevede iniziative gestite da vari soggetti e non da essa stessa o dagli enti strumentali: imprenditori agricoli, enti locali, istituti scolastici, associazioni





La legge “pro-pastoralismo”, pur in un quadro limitato degli interventi, rappresenta un elemento di novità non da poco. Sancisce che vi sono delle attività inquadrate come agricole che hanno valore più per le esternalità positive che producono (paesaggio, cultura, valori sociali di identificazione, patrimoni culturali che mantengono vivi) che per il ridotto volume di Produzione vendibile (carne, formaggi). Sancisce che queste attività meritano un riconoscimento, non solo sotto il profilo delle attività economiche e ambientali ma anche per le loro valenze culturali.  Un riconoscimento che la cultura tecnoburocratica tende ancora a negare. Il Testo unico lombardo in materia di agricoltura riconosce L.R. 31 del 5 dicembre 2008 (Art. 24 ter) riconosce la funzione ambientale e socio-economica delle malghe che costituiscono un bene di interesse collettivo il cui corretto utilizzo concorre a garantire la conservazione della biodiversità, dei paesaggi e dell’assetto idrogeologico territoriale della montagna. E la cultura? Alla cultura dell’alpeggio non è stato sinora assegnato alcun valore in sé dai tecnoburocrati e la funzione “sociale” è stata vista, semmai, solo dal punto di vista del valore ricreativo (ovvero urbanocentrico) mentre è del tutto ignorata quella socio-culturale, ovvero simbolica, con valore di identificazione della comunità locale, di memoria storica, di fattore evocativo di coesione e solidarietà (per via di una lunga storia di gestioni collettive, cooperative, del patrimonio comune di pascoli e boschi).  Quando, però, si dimenticano questi aspetti fondamentali, la celebrazione dell’alpeggio e della transumanza diventano solo occasione turistica e il tutto scade nel folklore staccato dalla storia e dalla società locale. Allora il residuo valore culturale viene disperso perché il folklore non stimola orgoglio ma lo deprime. Quando un elemento non viene più riconosciuto più come patrimonio locale si rompe un legame, si svuota un o scrigno (“sono cose da turisti”).


Ma se la dimensione culturale insita nel pastoralismo non viene considerata e riconosciuta, se il valore culturale viene degradato a folklore, diventa poi difficile contrastare l’ambientalismo da salotto che tende sempre di più a far pesare i “superiori” valori conservazionistici, incompatibili con le attività tradizionali, con il “disturbo antropico”. Valori ormai egemoni in larga parte dell’amministrazione regionale (anche in quella agricola dove il moderno animal-ambientalismo si è innestato sul vecchio forestalismo ideologico). Le attività tradizionali (alpeggio, transumanza) se non sono riconosciute per il loro valore a 360° diventano ancor più dei vasi di coccio destinati a soccombere a fronte delle trionfanti visioni della “wilderness” del “ritorno dei grandi predatori”. Di grande importanza quindi l’affermazione che c’è un’attività, antica capace di rispondere ad esigenze attualissime, che rappresenta “l’altra faccia del pianeta”,  una forma di ambientalismo “altro”, che recupera i saperi ambientali del passato, che lasciando operare chi della montagna, dei fiumi, delle pianure ha grande esperienza (perché sono, da generazioni e tutti i giorni, il suo “posto di lavoro”), può ottenere, con mezzi modesti, spontanei, grandi risultati.

Un primo successo, intanto, è stato conseguito indicando il “pastoralismo” (realtà che comprende pratiche agricole e culturali in modo indissociabile) come oggetto della legge. Un risultato che ha implicato superare le resistenze che tendono ancora a considere il “pastoralismo” quale voce specialistica del linguaggio antropologico (denotante la sola dimensione culturale, per lo più ristratta al nomadismo).  Il linguaggio corrente come ha adottato “transumanza” (in origine una voce del linguaggio specialistico dei geografi) ha adottato anche “pastoralismo”. Transumanza e pastoralismo, nati come termini colti, si sono popolarizzati perché fanno riferimento all’avvenuto riscatto di attività considerate all’ultimo gradino della gerarchia sociale, divenute degne di attenzione della cultura “alta”. Oltre a mantenere il potere evocativo di spazi senza confine e di una vita dura ma libera.

Pulito l’oratorio campestre

(12/09/2021) Oggi grandi pulizie all’antica chiesa campestre del Corneanello a Rivolta d’Adda. L’oratorio, sulla antica strada per Casirate, esisteva già nel 1100 sul sito dove sorgeva anche un castello.

In vista della tappa della transumanza dei Bergamini a Rivolta (28/09/2021) che comprenderà la visita guidata in carrozza a questo oratorio, le donne che si prendono cura della chiesetta, i volontari dell’associazione pastoralismo alpino e della Pro loco di Rivolta si sono impegnati in un’opera di pulizia straordinaria dell’edificio sacro.

Le rotture delle reti anti-piccioni e la conseguente intrusione dei pennuti nella cella campanaria, avevano determinato un accumulo impressionante di guano che intasava le scalette di accesso alla cella campanaria stessa e dilagava sul coro e sul pavimento dell’aula dell’oratorio. Dopo un lavoro impegnativo la chiesetta è stata restituita a una condizione dignitosa.

Pandinasco: acqua, fieno, latte, bergamini

(09/08/2021) La Gera d’Adda/Pandinasco sarà attraversata a fine settembre dalla Transumanza dei bergamini, la rievocazione storica delle secolari transumanze tra le valli orobiche e la Bassa pianura lombarda. In quest’area il passaggio delle mandrie dei bergamini è ancora impresso nella memoria dei meno giovani.

I nostri allevamenti non potevano competere con le mandrie di bovini dei “malghesi” con spiccata attitudine alla produzione lattiera che in inverno venivano, dopo l’estate trascorsa in montagna, nelle nostre campagne dove c’erano foraggi in abbondanza anche in autunno. A. Bellandi, L’agricoltura cremasca tra passato e presente, in “Insula Fulcheria”, 37 (2008), pp.241-255.

Molte famiglie di allevatori di oggi discendenti di coloro che ancora mezzo secolo fa esercitavano la transumanza, sfilando con le loro mandrie nell’ammirazione delle persone del posto. Il nesso tra la transumanza dei bergamini e questa porzione del cremasco e del lodigiano (in sinistra Adda) appare quindi scontato e ancora ben presente nella memoria collettiva. Nonostante ciò può essere utile comprendere quanto profondo è questo nesso, quanto profonde le radici di questo fenomeno.

Il Pandinasco, insieme alla zona a Nord di Crema, è senza dubbio area vocata all’allevamento animale. Per certi versi proprio a causa del suo carattere agricolo “povero”. Quando la sussistenza era strettamente legata alla disponibilità cerealicola erano considerate ricche le terre da pane. Così queste terre che alternano ghiaie a terreni umidi (i “paduli” le zone paludose o comunque umide erano ancora ben presenti nell’Ottocento), erano considerate più povere di quelle poste a Sud-Est.

Mappa dello Stato Maggiore imperiale del 1833. Si osservano i “mosi”, ma anche la presenza di aree palutose lungo il fiume Torno nei pressi della stessa Pandino.

Tutta l’area a Nord di Crema era umida e venne adibita alla coltivazione del riso e del lino. Tra Trescore, Bagnolo e Vaiano si estendevano, ancora nell’Ottocento, i “mosi”, ultimo residuo delle vaste paludi del “lago” Gerundo. Nell’Ottocento erano ancora estesi i boschi (non solo lungo l’Adda ma anche tra Pandino e Spino). Terre povere dal punto di vista delle coltivazioni, quelle del Pandinasco erano però preziose per i transumanti. Sino al Trecento essi erano definiti “malghesi” (non perché proprietari di pascoli pa perché proprietari di “malghe”, consistenti gruppi di animali: pecore, capre, bovini). I malghesi mungevano anche le pecore, il cui prodotto principale era però la lana. Dal Quattrocento, per marcare la novità di un allevamento sempre più specializzato nel senso dell’allevamento bovino e della produzione casearia, di inizia a parlare di “bergamini”.

Nel medioevo i “malghesi” che scendevano dalle valli bergamasche (ma anche dalla Valcamonica), sfruttavano le aste del Brembo/Adda, Serio, Oglio per raggiungere il Po. Nei loro trasferimenti tra il Po (e le foci dei suoi affluenti) e gli alpeggi estivi, essi attraversavano le aree tra l’Adda e il Serio e tra il Serio e l’Oglio. Ai lati dei fiumi vi erano infatti ampie aree con terreni formati da alluvioni “recenti” (in senso geologico) dove la coltivazione era difficile e l’unico sfruttamento possibile era mediante il pascolo. Valerio Ferrari ha evidenziato, basandosi sull’attenzione dedicata dagli statuti cremaschi, l’importanza che rivestiva, nel tardo medioevo, la transumanza (ovvero la presenza e il transito di malgarii forenses, ovvero dei malghesi forestieri.

Malghesi medievali in una miniatura del Theatrum sanitatis di scuola lombarda (fine Trecento)

Gli statuti di Crema – di cui possediamo la redazione quattrocentesca, ma che possono essere ritenuti di formulazione trecentesca – d’altro canto testimoniano la diffusione dell’allevamento transumante, in quel distretto, in forma così rilevante da richiedere una specifica rubrica, intitolata De malagriis forensibus venientibus ad pasculandum, che ne regolamentasse lo svolgimento. Vi si stabiliva che i malgarii forenses venientes et ducentes aliquas bestias ad pasculandum super territorio Cremae, dopo cinque giorni, al massimo, di presenza sul territorio cremasco, non potessero condurre il bestiame a pascolare su terre gravate da consolidati diritti altrui (honor curtis vel pasculatus) se non dopo aver preso i necessari accordi con gli aventi titolo, sotto pena pecuniaria differenziata a seconda che si pascolassero bestiae grossae (per lo più bovini) ovvero bestiae minutae (pecore e capre).(V. Ferrari, Contributi toponomastici all’interpretazione del paesaggio della provincia di Cremona. 5. Il paesaggio pastorale, in “Pianura”, Scienze e storia dell’ambiente padano, 33 (2014), pp. 3-34 (p.11).

Alla fine del Quattrocento troviamo, nell’area di cui ci stiamo occupando, un riferimento ai bergamini è contenuto nell’istromento di divisione delle sorelle Angela e Ippolita Sforza Visconti (anno 1493) Miscellanea di storia italiana, Vol. 4 Di Regia Deputazione sovra gli Studi di Storia Patria per le Antiche Provincie e la Lombardia, pp. 443 ssg. Nella minuziosa descrizione delle pertinenze della corte di Prata (Prada, fraz. di Corte Palasio) viene citata una volta una “caxa [casa]da bergamino” e un “caxoto da bergamino”. Queste strutture si trovavano in aperta campagna, tra rogge e il corso del Torno. Una condizione intermedia tra quella dei malghesi medievali e quella dei bergamini moderni che si sistemavano all’interno delle cascine.

Sugli sviluppi del fenomeno della transumanza nel Pandinasco nei secoli successivi sarebbero necessarie delle indagini specifiche (negli archivi storici notarili e, dal settecento, in quelli parrocchiali). Un elemento molto interessante è fornito dall’opuscolo pubblicato dal naturalista lodigiano Agostino Bassi nel 1820 per celebrare le innovazioni agrozootecniche e casearie introdotte dal conte Giovanni Barni Corrado nella sua possessione di Roncadello (Dovera) (A. Bassi, Sulla fabbrica del formaggio all’uso lodigiano nel luogo di Roncadello in Gera d’Adda, G.B. Orcesi, Lodi, 1820). La dissertazione descrive le iniziative del conte Barni nella bonifica di terreni, evidentemente molto umidi, nella costruzione di stalle, importazione di capi bovini dal Friuli, avvio della produzione del grana che, ad onta dello scetticismo dei lodigiani, secondo lo studioso, riuscì benissimo. Era il primo grana prodotto nell’area. Dopo qualche decennio la situazione non doveva essersi evoluta di molto se, alla metà del secolo (1853) la produzione casearia dei distretti di Pandino e di Crema della provincia di Crema e Lodi vedeva il netto monopolio dei bergamini. Era di là da venire la trasformazione dei fittabili in allevatori e la piena integrazione tra le attività agricola e zootecnica. Questa si verificherà (in tempi che andrebbero precisati attraverso apposite indagini) solo allorquando i bergamini divennero fittabili.

Il distretto di Pandino nel contesto della Provincia di Crema e Lodi (1816-1859). In verde i prati stabili attuali (Fonte Servizio cartografico Regione Lombardia)

La differenza con una parte del Lodigiano non potrebbe essere più netta. Come si vede nelle seguenti tabelle e grafici, nella porzione meridionale del Vescovado di Lodi il bergamino era già sparito a metà Ottocento. In realtà non era sparito: come fittavolo, capo stalla, casaro, stagionatore di grana (vedi gli Stabilini a Codogno, con la più grande casera del Lodigiano) era ben presente, solo con ruoli diversi da quelli degli avi. Intermedia tra la Gera d’Adda e il (Nord) Cremasco, la situazione del distretto di Lodi, dove, non solo nei Chiosi intorno alla città, ma anche nella porzione più a Nord del Distretto, i bergamini erano numerosissimi e di Borghetto. Anche la situazione dei “lattai” (i latè della lingua parlata) è un indice importante di una traiettoria evolutiva: quando il bergamino, in quanto transumante, “scompare” dai radar (perché i fittavoli hanno accumulato abbastanza esperienza in ambito zootecnico o, più facilmente, perché i fittavoli sono essi stessi ex bergamini o perché diventa reperibile personale salariato competente: capi-stalla, casari), allora, per una fase storica che in qualche area è stata secolare, in altre aree più breve, appaiono numerosi i latè. Perché mai? Perché il rischio collegato alla lavorazione del grana è, ancora per tutto l’Ottocento, molto alto e gli imprenditori agricoli capitalisti preferiscono scaricarlo su altre figure sociali. Il fatto che nel Pandinasco e nel Nord Cremasco ancora a metà Ottocento i lattai siano pochissimi è indice di un’evoluzione tardiva (parallela allo sviluppo della praticoltura, che, specie nel Cremasco, si svilupperà con la fine delle risaie di palude).

Tabella 1 – Situazione dei caseifici (casoni) della provincia di Crema e Lodi (1853)

DistrettofittavolilatèbergaminiTotale
Lodi444886178
Pandino322025
Borghetto26222068
Sant’Angelo3238676
Crema522027
Codogno383142
Casalpusterlengo5116471
Totale1215711189
C. Cantù et al. 1859. Grande illustrazione del Lombardo-Veneto, ossia Storia delle città, dei borghi, comuni, castelli, ecc. sino ai tempi moderni, Vol. 5, Corona e Caimi, Milano, p. 50. (per Crema i dati sono ricavati da: Rapporto annuale della Camera di Commercio di Pavia per l’anno 1852, 1853.

Tabella 1 – Situazione dei caseifici (casoni) della provincia di Crema e Lodi (1853)

DistrettofittavolilatèbergaminiTotale
Lodi24,727,048,3100,0
Pandino12,08,080,0100,0
Borghetto38,232,429,4100,0
Sant’Angelo42,150,07,9100,0
Crema18,57,474,1100,0
Codogno90,57,12,4100,0
Casalpusterlengo71,822,55,6100,0
64,030,25,8100,0
C. Cantù et al. 1859. Grande illustrazione del Lombardo-Veneto, ossia Storia delle città, dei borghi, comuni, castelli, ecc. sino ai tempi moderni, Vol. 5, Corona e Caimi, Milano, p. 50. (per Crema i dati sono ricavati da: Rapporto annuale della Camera di Commercio di Pavia per l’anno 1852, 1853.

Tabella 3. I comuni della provincia di Lodi e Crema nel 1853

LodiArcagna, Bottedo, Cà de’ Zecchi, Campolungo, Casaletto, Cassino d’Alberi,  Casolate,  Cervignano, Chiosi di Porta d’Adda, Chiosi di Porta Cremonese, Chiosi di Porta Regale, Cologno,  Comazzo,  Cornegliano,  Dresano,  Galgagnano,  Gugnano, Isola Balba,  Lodi,  Lodivecchio,  Merlino,  Mignete,  Modignano,  Montanaso,  Mulazzano, Paullo, Pezzolo dei Codazzi, Pezzolo di Tavazzano, Quartiano, Salerano, Santa Maria in Prato, Sordio, San Zenone,  Tavazzano,  Tribiano,  Vigadore,  Villa Pompeana, Villa Rossa, Zelo Buonpersico
PandinoAbbadia di Cereto con San Cipriano, Agnadello, Boffalora, Corte del Palasio,  Crespiatica,  Dovera con Postino e Barbusera, Fracchia (oggi Spino),  Gardella, Nosadello, Pandino con Nosadello e Gardella,  Rivolta, Roncadello, Spino, Torno (oggi Crespiatica), Vailate con Cassine de’ Grassi
Distretto di BorghettoBorghetto, Cà de’ Bolli, Cavenago, Caviaga, Ceppeda, Grazzanello, Mairago, Motta Vigana, Ossago, San Colombano, San Martino in Strada, Sesto, Soltarico
Sant’AngeloBargano, Bonora, Cà dell’Acqua, Caselle, Castiraga da Reggio, Cazzimano, Fissiraga, Cascina Guazzina, Marudo, Massalengo, Mongiardino, Orgnaga, Sant’Angelo, Trivulzina, Valera Fratta, Vidardo, Villa Nuova
CodognoCaselle Landi, Castelnuovo Bocca d’Adda, Cavacurta, Codogno, Corno Giovine, Corno Vecchio, Corte Sant’Andrea, Fombio, Gattera, Guardamiglio, Lardera, Maccastorna, Maleo, Meletto, Mezzana, Mezzano Passone, Mirabello, Regina Fittarezza, San Fiorano, San Rocco al Porto, Santo Stefano, Senna, Somaglia, Trivulza
CasalpusterlengoBertonico, Brembio, Cà de’ Mazzi,  Camairago,  Cantonale,  Casalpusterlengo,  Castiglione,  Livraga,  Melegnanello, Orio, Ospedaletto, Pizzolano, Robecco, Secugnago, Terra Nuova,  Turano,  Vittadone,  Zorlesco

Con un salto di qualche decennio, arriviamo alla famosa Inchiesta agraria Jacini, dal nome del politico, imprenditore, possidente terriero Stefano Jacini, di Casalbuttano. Siamo alla fine degli anni ’70 dell’Ottocento quando l’economia agricola italiana è scossa da una crisi generale, frutto dell’apertura dei commerci internazionali alle derrate agricole (segnatamente cereali) di oltre Atlantico. E’ significativo che le descrizioni più accurate e diffuse dei bergamini nei volumi dell’inchiesta riguardanti la Lombardia siano quelle relative al Cremasco (comprensivo delle Gera d’Adda).

Questi malghesi, per lo più nativi delle vallate bergamasche, seriana e brembana, sono proprietari di mandrie bovine, in cui trovansi capi di ogni età, ma per lo più femmine. Essi provvedono al mantenimento delle loro mandrie con pascoli di loro proprietà o presi in affitto durante i mesi estivi, pascoli che si trovano appunto nelle valli sopra indicate. Per l’inverno invece, e precisamente dalla fine di settembre al principio di maggio, secondo una consuetudine, che ci sembra antica, scendono al piano, dove hanno preventivamente comperato il fieno che loro abbisogna in qualche cascinale. I patti tradizionali per tali contratti sarebbero: che il malghese deve pagare il fieno, misurato in fienile, al prezzo stabilito in rate fisse e minore del prezzo corrente di circa lire due il quintale, il foraggio lo deve consumare interamente in luogo; a lui compete il pascolo delle erbe dette quartirole, di cotica vecchia. Il proprietario dal canto suo deve fornire stalla, stramaglia per il letto degli animali, casa per la famiglia del malghese, locali per la lavorazione del latte, porcili, talora anche una determinata quantità di legna e di granoturco in natura. (Atti della Giunta per la Inchiesta agraria Vol. VI tomo II, fasc. III. Roma, 1883, Il Circondario di Crema, Commissione presieduta dall’. On. Comm. P. Donati).

La relazione ci informa anche sulla concentrazione territoriale dei bergamini, sulla consistenza delle loro madrie, sulle loro produzioni casearie. Osserviamo che il bergamino, negli atti ufficiali, è sempre chiamato “malghese”, un po’ perché il termine “bergamino” era ritenuto “volgare”, un po’ perché in alcune zone, come osservato già ma proposito della bassa Lodigiana, i bergamini, diventando casari salatiati, capi-stalla, mungitori, erano ancora indicati come “bergamini”.

I malghesi si trovano più numerosi nella zona di Ghiaia d’Adda, e in quella a settentrione della città di Crema, meno in quella a sud, e quasi punto in quella cremonese (…) Nelle due prime zone si può calcolare un malghese per ogni comune; il numero medio dei capi bovini, che compongono le mandrie di questi ultimi varia solitamente dai 15 ai 40 capi (…) [E’] caratteristica nel Cremasco la produzione delle varie qualità di stracchini. Alla produzione di questi ultimi attendono i malghesi, i piccoli lattai, ecc. tutti quelli insomma (e sono i più) che cercano di trarre un guadagno qualunque da piccole partite di latte (…) malghesi che, come si avvertiva, attendono ordinariamente alla fabbricazione di stracchini, li conducono per venderli sovente sul mercato di Bergamo(Ivi).

La relazione sul Circondario di Crema dell’Inchiesta Jacini fornisce anche altre notizie interessanti: apprendiamo che il grana (inviato a deposito nelle casare di Lodi) era prodotto (come logico) solo da chi aveva più di 40 vacche (qualche fittavolo e qualche bergamino), mentre il grosso dei bergamini era dedito alla produzione di stracchini. Erano tre i tipi di stracchino: il quartirolo (più simile al salva cremasco attuale che al taleggio, con forme di ben 4-8 kg e scalzo alto 8-10 cm). Era il tipo di formaggio destinato al consumo locale e ne veniva esportato poco. Lo stracchino di Gorgonzola era più pregiato (forme sino a 15 kg, stagionate sino a sei mesi). Era venduto sui mercati di Lodi, Casalpusterlengo, Treviglio e da questi affluiva alle stagionature di Gorgonzola. Infine la crescenza, prodotta con latte grasso e molto caglio nel periodo autunno-invernale (ricca di acqua è poco conservabile) era destinata al mercato di Milano.

Nei decenni successivi, specie dopo l’inizio del Novecento, l’area del Pandinasco si affermerà come quella di maggiore densità di capi bovini allevati. A fare da traino a questo sviluppo, la grande vocazione alla foraggicoltura (con i fontanili e l’abbondanza di rogge), la presenza in zona di un tessuto di medie aziende agricole che, sotto la spinta dei bergamini che dopo la prima guerra mondiale accentuarono la loro “fissazione” alla bassa quali fittavoli, si orientò ad un indirizzo zootecnico specializzato (mentre i grossi fittavoli del milanese, pavese e lodigiano, sotto la spinta della “battaglia del grano”, tornarono a privilegiare i cereali). Va però aggiunto un altro fattore, indirettamente legato ai bergamini: la nascita dell’industria casearia che, dopo gli anni ’20, indusse i bergamini prima a conferire i loro stracchini ai depositi delle grandi aziende, poi a vendere il latte.

Densità dell’allevamento bovino in Lombardia al Censimento dell’agricoltura del 1930
L’ex stabilimento Invernizzi a Caravaggio

Negli anni ’20 la Galbani (dal 1926 guidata da una delle tante famiglie Invernizzi del mondo del latte), la Invernizzi, la Mauri, realizzarono o acquisirono nuovi stabilimenti nell’area di Melzo, Treviglio, Caravaggio. Non esistevano ancora le cisterne refrigerate e il raggio di raccolta era di una ventina di chilometri. La Martesana e la Gera d’Adda, terre di bergamini divennero ancora di più terre di latte.

La vecchia sede della Scuola Casearia di Pandino

Negli anni ’50, a sancire il ruolo di Pandino quale cuore di un comprensorio foraggero-caseario, venne fondata la Scuola Casearia che continua tutt’oggi a sfornare tecnici di caseificio molto richiesti anche da grandi aziende.

Cosa rimane di tutto ciò in un’epoca in cui il latte arriva a prezzo vile dalla Lituania e il mercato mondiale del latte risente di quello che succede in Australia o altrove? Non poco, anzi tanto. A partire da una risorsa che altrove è scomparsa: il prato stabile, fattore chiave di una zootecnia che rivaluta il legame con il territorio, sia sotto la spinta della globalizzazione (che impone la differenziazione e la valorizzazione massima delle risorse specifiche locali) che degli imperativi ecologici. E poi c’è la storia dei bergamini che significa una cultura, dei valori, uno stile produttivo che hanno ancora molto da dire.

I prati stabili nella pianura lombarda (fonte: Regione Lombardia)